LA TUTELA DELL’AMBIENTE COME “MATERIA” E COME VALORE COSTITUZIONALE DI SOLIDARIETÀ E DI ELEVATA PROTEZIONE

Prof. Paolo DELL'ANNO

prof. Paolo Dell’Anno

 

 

la Tutela dell’Ambiente come “Materia” e come Valore costituzionale

di Solidarietà e di Elevata Protezione [1]

 

 

1)        La tutela dell’ambiente tra “valore costituzionale” o “materia”: un dilemma tra concetti incompatibili o un pretesto? La posizione della dottrina e del giudice delle leggi.

 

La riforma costituzionale del 2001 ha elevato la tutela dell’ambiente da semplice interesse pubblico a valore costituzionale, cioè ha attribuito ad essa una posizione primaria nell’ordinamento. Come spesso succede in Italia, la discussione della dottrina e della giurisprudenza è stata attratta – più che dal significato e dal contenuto da attribuire all’espressione “tutela dell’ambiente (e dell’ecosistema)” – dalla sua collocazione nel sistema di distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni. In altri termini, ci si è interrogati su “chi” dovesse fare, prima di avere stabilito “che cosa”.

E’ avvenuto così che la dottrina c.d. ”regionalista”, cioè pregiudizialmente schierata per un ampliamento delle competenze delle Regioni a detrimento di quelle statali, aveva teorizzato l’irrilevanza della menzione costituzionale della tutela dell’ambiente tra gli oggetti di potestà legislativa esclusiva dello Stato, sulla base di un duplice argomento.

La riconosciuta natura di valore costituzionale della tutela dell’ambiente veniva utilizzata per negare che l’esercizio della potestà legislativa fosse riservato allo Stato, ritenendo che si configurasse una potestà di intervento diffuso, riconosciuto a tutti i soggetti dotati della potestà di legiferare, allo scopo di conseguire nel modo più articolato le esigenze di protezione di tale valore primario. E dunque le Regioni potevano – secondo tale interpretazione – adottare norme di diretta tutela ambientale, anche avvalendosi delle potestà ad esse riconosciute nelle materie di potestà legislativa concorrente, come la tutela della salute, l’agricoltura, la protezione civile, l’energia, o residuale (in quanto non menzionate né in questo elenco né in quello riservato allo Stato).

In secondo luogo, alla “tutela dell’ambiente” veniva negata la natura giuridica di “materia”, e la conseguente valenza precettiva della disposizione costituzionale dell’art. 117, lett. s), ritenendo che si trattasse piuttosto di un valore costituzionale con efficacia “trasversale”, la cui cura spetta a tutti i soggetti pubblici dell’ordinamento, non potendosi escludere l’attivazione di nessuna competenza settoriale. La tutela dell’ambiente non costituirebbe una “vera e propria materia” tale da fondare una riserva di competenza allo Stato, in quanto consisterebbe piuttosto in un complesso variegato di attribuzioni di diversa natura e di competenza distribuita. In questa prospettazione, allo Stato residuerebbe soltanto il potere di dettare principi fondamentali e standard minimi di tutela, mentre alle Regioni andrebbe riconosciuta la potestà di legiferare su aspetti settoriali della tutela ambientale, introducendo anche discipline più restrittive di quelle generali statali.

Già in altra occasione avevo sottolineato la fallacia e la strumentalità di siffatte argomentazioni che sembravano confondere concetti e criteri sistematici del tutto diversi tra di loro (1-Dell’Anno, 2003).

Riconoscere alla tutela dell’ambiente il carattere di valore costituzionale costituisce il coronamento di un percorso di tutela sempre più consapevole, incisivo, avanzato, che colloca l’ambiente tra i valori primari dell’ordinamento repubblicano, e la sua assunzione tra i principi fondamentali. La qualifica di “valore costituzionale” indica la rilevanza che l’ordinamento attribuisce al bene giuridico ambiente, la funzione che è destinato a svolgere nel contesto istituzionale, la scala di priorità nella quale è collocato nei confronti di altri beni giuridici ed interessi pubblici da tutelare, l’intensità e l’estensione della tutela.

Il riconoscimento della tutela dell’ambiente come “valore costituzionale” non comporta affatto la conseguenza preclusiva che la medesima sia configurata come una “materia”, in quanto i due concetti definiscono vicende giuridiche diverse. A quest’ultimo termine, infatti, va conferito il corretto significato di un dato oggettuale compitamente definito, in relazione al quale opera un complesso organico di norme coordinate e indirizzate verso un fine unitario, cioè la cura di un determinato bene giuridico o – come nella fattispecie – di un insieme di beni e di interessi pubblici[2].

Non incide sulla sistemazione dei concetti sopra effettuata il collegamento che una parte della dottrina e della giurisprudenza penale individuano tra la qualitas di “valore costituzionale” della tutela dell’ambiente ed il riconoscimento dell’esistenza di un diritto soggettivo inviolabile all’ambiente salubre (concezione che sembra confondere l’oggetto con una sua caratteristica, e che confuterò in un successivo paragrafo).

La tesi negatoria dell’ambiente come materia è influenzata da una logica retrospettiva, quando cioè la “tutela dell’ambiente” era definita da un’autorevole dottrina come una funzione “occulta e adespota”, in quanto priva di specifici riferimenti normativi (2-M.S. Giannini, 1971). Tesi ribadita in altro saggio – giustamente noto ed apprezzato – nel quale si indicavano le fonti del diritto ambientale positivo in una trilogia eterogenea per finalità, principi direttivi e procedimenti, e precisamente nelle norme a difesa del paesaggio, nelle norme antinquinamento (nelle quali l’Autore individuava una prevalente finalità sanitaria) e nelle norme urbanistiche (3-M.S. Giannini, 1973).

Sembra veramente difficile sostenere che è tuttora valida l’anzidetta ricostruzione, considerando che dopo il 1973 è stato istituito il ministero dell’ambiente, sono state emanate centinaia di leggi aventi quale oggetto specifico la tutela dell’ambiente (emissioni in atmosfera, scarichi idrici, gestione dei rifiuti, inquinamento acustico ed elettromagnetico, valutazione d’impatto ambientale, autorizzazione integrata ambientale, ecc…), mentre a livello comunitario il Trattato vigente dedica all’Ambiente il Titolo XIX, essendo stati approvati ormai sei programmi di azione ambientale ed innumerevoli direttive e regolamenti a contenuto ambientale.

La negazione dell’esistenza di una materia “tutela dell’ambiente” appare anche in contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione novellata, che non solo la inserisce tra le altre “materie” oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato all’art. 117, ma la menziona anche tra gli oggetti di un potenziale regionalismo differenziato di cui all’art. 116, terzo comma. Quest’ultima disposizione stabilisce che “ulteriori forme e condizioni di autonomia”, concernenti le materie oggetto di potestà legislativa concorrente ed alcune comprese nella potestà legislativa esclusiva, possono essere attribuite a regioni diverse a da quelle a statuto speciale, “con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119[3]. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. La Costituzione, dunque, sottopone ad una riserva di legge statale l’eventuale attribuzione ad alcune Regioni di poteri legislativi (e/o amministrativi) in materia di “tutela dell’ambiente”, sulla base di uno speciale procedimento negoziale con la Regione interessata, che prevede l’iniziativa della stessa, la consultazione degli enti locali, l’adozione di un’intesa Stato-Regione, l’approvazione del conferimento mediante una legge a maggioranza qualificata. Non solo, dunque, viene confermata l’inclusione della “tutela dell’ambiente” tra le “vere e proprie materie”, ma viene stabilito che ogni modifica del quadro istituzionale delineato dall’art. 117, comma 2, deve avvenire mediante lo speciale procedimento ivi definito[4].

L’introduzione di una nuova categoria dogmatica, le “materie in senso stretto”, di cui non vengono fornite neanche le essenziali coordinate tassonomiche, sembra null’altro che un espediente verbale. Per disconoscere alla tutela dell’ambiente il connotato di materia sarebbe buona regola indicare cosa si intende con tale concetto. A prescindere dalla considerazione di notoria evidenza che la natura di valore costituzionale trasversale non costituisce una prerogativa peculiare della tutela dell’ambiente, che anzi la condivide con la “protezione della salute”, “la protezione civile”, “l’assetto del territorio”, “lo sviluppo economico”, “l’energia”, cioè con molti degli oggetti riconosciuti come “vere e proprie materie” dalla dottrina regionalista.

La questione è stata risolta da un significativo e proficuo revirement della giurisprudenza costituzionale, che ha riconosciuto la natura di vera e propria materia alla tutela dell’ambiente, sottolineando che l’essere un valore costituzionale non rende incerta (o diffusa) l’appartenenza della potestà legislativa, ma ne sottolinea il rango primario, con pari dignità rispetto agli altri valori costituzionali. In conseguenza di tale rilievo, la Corte ha ribadito la riserva statale non solo sull’introduzione di principi fondamentali di disciplina della materia, ma anche sulla legislazione ambientale ordinaria, che è sottratta alle “invasioni di campo” delle regioni[5]. Torneremo sull’argomento in un successivo paragrafo.

 

 

2)        Le basi costituzionali della tutela dell’ambiente. La protezione del paesaggio e della natura. La protezione della salute. Limiti e controlli alla libertà di iniziativa economica. La disciplina della proprietà.

 

L’inconsistenza teoretica delle tesi regionaliste derivava da un’analisi prospettica rivolta al passato – cioè ad una sistemazione dell’ordinamento settoriale risalente a quasi trent’anni prima della riforma costituzionale – anziché al presente (ed al futuro) del diritto positivo.

Al momento dell’emanazione del d.p.r. 616/1977, le Regioni avevano sostenuto che la tutela dell’ambiente dagli inquinamenti (secondo la rubrica del Capo VIII di tale decreto, artt. 101/105) non rappresentasse una materia organica dotata di un contenuto specifico, ma fosse costituita da un insieme – eterogeneo – di attribuzioni, in larga misura già riconosciute nella competenza legislativa ed amministrativa regionale, quali la sanità pubblica, l’agricoltura e le foreste, la caccia e pesca, l’assetto del territorio, l’urbanistica, e via enumerando. La tesi, introdotta in diversi giudizi avanti alla Corte Costituzionale, era sempre stata respinta, ritenendo i giudici costituzionali che la scelta del legislatore statale fosse giustificata da connotati specifici della tutela ambientale che la differenziavano dalle materie sopra menzionate, da esigenze di protezione non suscettibili di frazionamento territoriale, da impegni internazionali e comunitari da rispettare.

Il riemergere periodico della pretesa panregionalista aveva trovato una smentita – tanto autorevole quanto definitiva – nella riforma costituzionale del 2001[6]. Di qui il tentativo di aggirare la lettera e lo spirito della norma costituzionale invocando pseudo concetti come la distinzione tra materia in senso stretto, alla quale la ripartizione costituzionale di competenza legislativa si applicherebbe, e materia trasversale, che verrebbe tutelata sostituendo alla riserva di legislazione statale un criterio cooperativo e multilaterale di esercizio della potestà legislativa.

Ma quali sono le basi costituzionali della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali?

In primo luogo, va sottolineato che non è senza importanza la collocazione nel medesimo elenco di materie dell’art. 117, lett. s), anche dei beni culturali.

La scelta del legislatore costituente riconduce ad unità funzionale due ambiti oggettuali che la legislazione positiva aveva fino a quel momento mantenuto separati. La disciplina della tutela dell’ambiente e degli inquinamenti era codificata in termini generali dal citato d.p.r. 616/1977 e dal d. lgs. 112/1998, mentre la protezione dei beni culturali trovava la sua fonte in una molteplicità di normative, dalla legge 1437/1939 al d.p.r. 616/1977 (art. 82, beni ambientali) fino alla prima versione del testo unico dei beni culturali e ambientali (d. lgs. 490/1999).

Fin dal d.l. 657/1974 con il quale Spadolini aveva inteso sostituire il ministero senza portafoglio all’ecologia con il ministero dei beni culturale e ambientali, il legislatore ed il Governo avevano oscillato in modo assolutamente perplesso e contraddittorio tra una concezione separatista della tutela dell’ambiente rispetto a quella dei beni ambientali, ed una concezione unificante, in nome della protezione delle bellezze naturali d’insieme (legge 431/1985), che tuttavia strideva con l’istituzione del ministero dell’ambiente, che aveva tra i suoi compiti non solo la lotta agli inquinamenti ma anche la protezione della natura e della biodiversità (che sono componenti rilevanti del paesaggio non artificiale).

La legge 394/1991, sulla protezione della natura, sembrava avere confermato l’asse degli interventi di protezione nel versante della tutela ambientale, mantenendo tuttavia sui medesimi oggetti una compresenza di competenze finalizzate anche alla loro protezione come beni culturali ambientali. Il t.u. 42/2004 sui beni e le attività culturali aumenta la confusione del sistema normativo, confermando una funzione protezionistica “quasi assoluta” dei beni culturali ambientali considerati a sé stanti rispetto ai beni ambientali tout court, molti dei quali peraltro godono anche di doppia tutela, essendo contemplati in entrambe le normative (ad es., aree costiere, corsi d’acqua, parchi e riserve naturali, boschi). Né risulta chiaro nelle sue conseguenze applicative il nuovo orientamento che vorrebbe sostituire le primigenie ragioni estetiche (ma anche scientifiche) adottate dalla legge 1437/1939 per la protezione dei beni culturali ambientali a livello necessariamente nazionale, mediante l’assegnazione di una funzione “identitaria” alla loro conservazione[7].

La protezione del paesaggio, come forma visibile del Paese, e dunque come risultante delle preesistenze naturalistiche e dell’azione trasformatrice dell’uomo (4-Predieri, 1981), è stata la prima funzione pubblica a trovare copertura costituzionale nell’art. 9. Tuttavia, in assenza di una menzione espressa dell’ambiente fino alla riforma del 2001, più che su tale disposizione la giurisprudenza aveva ritenuto di fondare la tutela dell’ambiente in un’interpretazione estensiva del disposto dell’art. 32 Cost., come diritto all’ambiente salubre. La situazione giuridica soggettiva da garantire veniva individuata in un diritto soggettivo fondamentale ed assoluto, trascurando il profilo più significativo dell’interesse della collettività, di cui si dirà in seguito.

Una parte della dottrina non aveva mancato di sottolineare che la costruzione di un diritto all’ambiente salubre sullo schema dei diritti soggettivi perfetti ed assoluti su un bene in regime di appartenenza risultava incongrua rispetto alle esigenze poste dalla tutela dell’ambiente dagli inquinamenti (5-Caravita, 2001; 6-Fracchia, 2002; 7-Ferrara, 2007; 8-Grassi, 2007), che postulava l’adozione di interventi non tanto di tutela individuale, ma – soprattutto – collettiva, al fine (anche) di garantire la fruibilità delle risorse naturali (secondo l’intuizione di M.S. Giannini, 1973)[8].

Un’autorevole dottrina aveva anche richiamato l’attenzione sul fatto che nell’ordinamento generale una situazione giuridica soggettiva che vede la compresenza di un interesse pubblico – come avviene per disposto costituzionale nell’art. 32 – non configura un diritto soggettivo perfetto ma un interesse legittimo (9-Lavagna, 1979)[9].

E comunque la protezione della natura, degli equilibri ecologici, della fauna selvatica, della biodiversità, può non soddisfare un preteso diritto individuale all’ambiente salubre (10-Maddalena, 2008), tale non essendo la conservazione di una palude (zona umida a protezione internazionale assoluta) o la difesa di animali pericolosi nel loro habitat naturale (un lupo, un orso in Italia, e specie ancora più pericolose in altri ambienti esteri).

Ulteriori spunti per una ricostruzione della tutela dell’ambiente come funzione pubblica di livello costituzionale vengono ricercati nel disposto degli articoli 41 e 42 Cost. Il primo di essi, come è noto, dopo avere statuito la libertà di iniziativa economica, ne modera gli effetti prevedendo la possibilità che l’impresa sia assoggettata – secondo il vincolo della riserva di legge – a programmi e controlli (cioè ad un regime amministrativo che può comprendere autorizzazioni preventive e prescrizioni conformative) finalizzati a garantire il rispetto della libertà, dignità, sicurezza dei cittadini[10].

Il bilanciamento degli interessi garantiti dalla Costituzione con le esigenze di solidarietà sociale – oltre che in applicazione del principio di diritto comune del neminem laedere – costituisce l’ambito applicativo anche dell’art. 42, sulla proprietà), della quale viene codificata la funzione sociale, quale limite esterno alla sua gestione.

Vedremo nei prossimi paragrafi come si delinei una più ampia base costituzionale della tutela dell’ambiente, attraverso il richiamo al principio fondamentale dell’art. 2, che statuisce un obbligo di solidarietà incombente su tutti i cittadini, singoli e associati, ed a fortiori sulle istituzioni pubbliche.

 

 

3)        La potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia ambientale e l’ambito di competenza regionale. L’elevato livello di tutela dell’ambiente come criterio dell’esercizio della potestà legislativa statale. Gli standard di protezione ed i limiti alle iniziative legislative regionali.

 

La riforma costituzionale del 2001, come si è accennato, ha riservato allo Stato la potestà legislativa sulla materia della “tutela dell’ambiente”, accogliendo le sollecitazioni di quella parte della dottrina che aveva sostenuto la natura ontologicamente nazionale dell’interesse ambientale (11-Morbidelli, 1996; 12-Dell’Anno, 2001) e la necessità di una sua protezione secondo principi e criteri uniformi, non suscettibili di frazionamento regionale.

Dal nuovo assetto costituzionale deriva la conseguenza che è preclusa alle Regioni ogni iniziativa legislativa in tale settore che non sia espressamente delegata o attribuita dalla legge nazionale. Le regioni, pertanto, non solo non possono introdurre modifiche peggiorative della disciplina statale positiva, riducendo i livelli di tutela, ma non possono nemmeno introdurre criteri e procedimenti permissivi in astratto più protettivi. Infatti, il divieto di intervenire con efficacia innovativa sulla disciplina nazionale non è soltanto connesso inscindibilmente con l’assetto costituzionale delle competenze, ma deriva dalla necessità che principi fondamentali e criteri uniformi non siano derogati dalle Regioni, in violazione della disposizione contenuta nell’art. 117 Cost, comma 2, lett. m), che riserva alla potestà legislativa statale la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Non può essere revocato in dubbio che l’esercizio dell’impresa economica costituisca un diritto costituzionalmente protetto (art. 41, primo comma), anche per le finalità sociali ad esso sottese. La disciplina in modo difforme da regione a regione della tutela dell’ambiente, secondo criteri, modalità e procedimenti permissivi differenziati, costituisce una violazione del principio fondamentale scolpito nella richiamata disposizione costituzionale. Anche l’art. 120, comma 1, Cost., laddove vieta alle Regioni di “adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle (…) cose tra le Regioni”, rappresenta un principio applicativo che assume diretta rilevanza nell’adozione e nell’attuazione delle politiche ambientali[11].

Si è già accennato al mutamento di indirizzo della Corte Costituzionale in favore della riserva statale di legislazione ambientale, non solo nella emanazione dei principi fondamentali, prerogativa che sarebbe stata invocabile se la tutela dell’ambiente fosse stata considerata – nonostante la novella costituzionale – come oggetto di potestà legislativa concorrente, ma dell’intero ambito della normazione statale, non modificabile dalle regioni né con disposizioni più permissive, né in pejus, con norme più restrittive[12].

In via preliminare, la Corte Costituzionale ribadisce il principio che le Regioni, “nell’esercizio delle proprie competenze, possono perseguire fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale” (sent. 214/2008)[13], solo se tale proposito costituisce “un effetto diretto e marginale della disciplina adottata dalla Regione nell’esercizio di una propria legittima competenza e comunque non si ponga in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che proteggono l’ambiente[14]. In ogni caso, ribadisce il giudice delle leggi, “la disciplina ambientale, che scaturisce dall’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, costituisce un limite alla disciplina che le Regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per queste ultime non possono in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato” (sent. 214/2008)[15]. “Un’eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri interessi configgenti considerati dalla legge statale nel fissare i cosiddetti valori-soglia” (sent. 214/2008, cit.)[16].

Si tratta di conclusioni che ribaltano un orientamento diffuso tanto nella risalente giurisprudenza che in quella della Corte di Cassazione penale, nonostante la sua evidente erroneità ed infondatezza sistematica (13-Dell’Anno, 2004).

Nella più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale il concetto di “standard di protezione uniformi su tutto il territorio nazionale”, quali limiti inderogabili da parte della legislazione regionale (anche se in funzione più restrittiva), non è circoscritto alla fissazione di limiti di accettabilità o di esposizione a sostanze inquinanti (ad es., in tema di inquinamento elettromagnetico, sent. 331/2001), ma ha incluso: (a) il termine massimo per la conclusione del procedimento autorizzatorio delle centrali elettriche a fonti rinnovabili di energia (sent. 364/2006)[17]; (b) la disciplina delle discariche in esercizio ed il relativo piano di adeguamento alla normativa sopravvenuta (sent. 378/2007); (c) il procedimento ed i valori-soglia per l’esecuzione delle bonifiche dei siti contaminati (sent. 214/2008)[18].

 

 

4)        La solidarietà come principio costituzionale fondamentale e la sua applicazione al diritto ambientale. La cooperazione internazionale e l’azione comune a livello europeo: un terreno di verifica del principio comunitario di sussidiarietà. Solidarietà e sviluppo sostenibile, una prospettiva ambientale.

 

Un’autorevole dottrina ha proposto di individuare la base giuridica costituzionale della tutela dell’ambiente in un principio fondamentale, quello di solidarietà, del quale si richiama il carattere di architrave dell’intero ordinamento (6-Fracchia, 2002).

Sostiene l’Autore che l’elevazione dell’ambiente al rango di valore costituzionale ne consente anche la collocazione tra i doveri di solidarietà, con caratteri di specificità e di autonomia rispetto ad altri doveri di natura economica o sociale. L’adempimento dei doveri di solidarietà ambientale costituisce un presupposto per la realizzazione del programma costituzionale relativo allo sviluppo della persona umana, riferibile ovviamente anche all’ambiente di vita dell’uomo.

Dall’espressione costituzionale dell’art. 117, lett. s) citato, che unisce tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, l’Autore rileva che l’oggetto della tutela “non si esaurisce nella sola natura e nel suo equilibrio” ecologico, ma “va indirizzato anche verso le popolazioni future” ed all’intero ambiente di vita dell’uomo, secondo una prospettiva che non richiama la categoria del (preteso) diritto all’ambiente, ma la tutela, espressione connotata dalla doverosità della funzione da esercitare. Sotto altra prospettiva, l’art. 2 Cost. indica un comportamento doveroso di tutti i soggetti dell’ordinamento, tanto pubblici che privati.

Secondo l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale il principio solidarista è posto “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal costituente”[19].

Va sottolineato che in altra disposizione costituzionale (già ricordata) viene effettuato un collegamento tra sviluppo economico, coesione e solidarietà sociale, prevedendo l’adozione di speciali interventi atti a rimuovere gli squilibri economici e sociali e favorire l’effettivo esercizio dei diritti delle persone (art. 119, comma 2). Si tratta di una disposizione il cui valore programmatico generale richiama il principio di coesione (e di solidarietà tra gli Stati membri) posto a fondamento delle politiche economiche e sociali indicate nel Trattato di Maastricht (art. 2), ma ben si presta ad un’applicazione anche al settore ambientale, come si avrà modo di dimostrare in appresso.

Secondo una teoria ampiamente condivisa, le norme costituzionali delineano una fattispecie “aperta” di diritti (per tutti, 14-Barbera, 1975) così che possono ricevere la tutela costituzionale anche diritti non espressamente contemplati nella Costituzione. L’ambiente, dunque, potrebbe essere incluso nella categoria dei nuovi diritti. Ma – come si è sottolineato in precedenza – la disciplina positiva dell’ambiente richiama più i doveri di solidarietà che non i diritti “sull’ambiente”. Ed il criterio della fattispecie “aperta” si applica anche alla categoria dei doveri inderogabili.

La codificazione costituzionale del 2001, in questa prospettiva, più che attribuire alla tutela dell’ambiente un’efficacia costitutiva come valore, deve essere considerata come un riconoscimento del ruolo assunto di fatto dall’ambiente nell’ordinamento repubblicano, in virtù dell’istituzione di un ministero appositamente preposto alla cura dell’interesse ambientale, dell’enorme quantità di leggi e normative secondarie per la disciplina dei fenomeni a rilevanza ambientale, e –soprattutto – della natura intrinseca dell’ “ambiente” come bene di interesse pubblico.

Se il principio solidarista costituisce un elemento fondante la forma di Stato  unitamente al principio personalista ed a quello pluralista (15-E. Rossi, 2006), la base giuridica dell’affermazione della tutela ambientale non è tanto da rinvenire nell’art. 32 Cost., per le ragioni anzi dette, e nemmeno nell’art. 117, comma 2, lett. s), dove la riserva della potestà legislativa alla Stato costituisce la conseguenza applicativa (e non il presupposto) di principi giuridici, rappresentati dalla qualitas intrinseca dell’ambiente come bene comune da tutelare e gestire secondo principi di solidarietà e di responsabilità condivisa, ma in altre e più complesse basi giuridiche.

E’ noto che l’affermazione e la diffusione del diritto ambientale in Italia traggono stimolo ed alimento essenziale dal diritto internazionale e – ancora più – dal diritto comunitario. La cooperazione tra gli Stati per la tutela dell’ambiente marino e la protezione dal traffico di idrocarburi ed altre sostanze pericolose, contro il commercio di specie protette, per la protezione di siti di speciale interesse mondiale, e più di recente contro la diffusione di gas a effetto serra, costituiscono forme spontanee di solidarietà, la cui efficacia per la creazione di uno statuto del diritto ambientale è indiscussa e particolarmente efficace. Con ancora maggiore incisività ed ampiezza, il diritto emanato dalle istituzioni comunitarie, anche per l’efficacia diretta delle fonti europee (non solo i regolamenti ma anche le direttive auto-applicative) e per l’obbligo di risultato gravante sugli Stati membri, ha contribuito grandemente alla costruzione di un codice del diritto ambientale, che vanta ormai molte centinaia di direttive e di regolamenti.

La base giuridica della normativa europea è rinvenibile, con assoluta prevalenza, negli articoli 174-176 del Trattato della Comunità, nel Titolo V rubricato all’Ambiente, dove sono indicati – accanto al miglioramento della qualità dell’ambiente ed al suo elevato livello di tutela – anche i principi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte dei danni ambientali, chi inquina paga, mentre un ruolo di rilevanza accessoria è svolto dagli articoli 94/97 sulle procedure di ravvicinamento delle legislazioni, essendo tale armonizzazione finalizzata alla tutela della concorrenza e del mercato.

Ma le direttive di ultima generazione ricorrono sempre più spesso anche al principio fondamentale di sussidiarietà, contenuto nell’art. 5, capoverso, del Trattato della Comunità Europea, dove è stato inserito dal Trattato di Maastricht, estraendolo dalla sua collocazione originaria nel settore dei principi ambientali contemplati dall’Atto Unico europeo. Ad es., in materia di controllo delle emissioni dei gas serra in atmosfera e di commercio delle quote, il principio di sussidiarietà costituisce la giustificazione principale dell’intervento delle istituzioni comunitarie, riscontrando che l’impegno ad una iniziativa globale di protezione dell’ambiente non può non richiedere un’azione comunitaria concertata ed uniforme.

La sussidiarietà, cioè il diritto di intervento comunitario quando la dimensione del problema da risolvere o la natura degli effetti di un fenomeno da fronteggiare in modo efficace eccedono le capacità dei singoli Stati membri di conseguire gli obiettivi dell’azione comunitaria prevista, costituisce un’applicazione operativa del principio di solidarietà, alla cui osservanza gli Stati membri si sono obbligati in virtù dell’adesione al Trattato ed ai suoi principi ispiratori.

Come vedremo a proposito di attuazione concreta del principio di garantire un “elevato livello di protezione dell’ambiente” (art. 2, Trattato CE), l’azione comune europea tende ad armonizzare la situazione dei singoli Stati membri ed a promuovere un’evoluzione concertata e sincronizzata nelle politiche di protezione ambientale[20]. Ciò significa che, se pure sono legittimi l’introduzione o il mantenimento in un singolo Stato membro di normative ambientali diverse e più restrittive (art. 176), la Comunità privilegia l’azione comune, concertata collegialmente, e condivisa da tutti i partner, anziché la politica – pure possibile – della più elevata politica ambientale in un solo Paese (che poi svolge un ruolo di traino e di bench-marking nei confronti degli altri Stati).

La solidarietà, in sostanza, viene chiamata a prevalere sulle logiche di un’Europa a due velocità, e di una Comunità a tutela ambientale differenziata, che risulterebbero pressoché incompatibili con il disegno ambizioso, ma al contempo ormai realistico, di uno spazio comune europeo, non solo privo di frontiere e di barriere non tariffarie, ma realmente allineato sia negli obiettivi che nei risultati.

L’applicazione del principio solidarista alla tutela dell’ambiente offre molteplici spunti di giustificazione delle politiche pubbliche che richiamino i singoli e le formazioni sociali di cui fanno parte alla necessità di compartecipazione all’espletamento di doveri funzionali non solo alla protezione del valore costituzionale ma alla stessa difesa della comunità nazionale dai rischi globali che la patologia delle attività umane porta sempre con sé.

E’ proprio la costruzione teorica dell’inviolabilità del diritto all’ambiente come diritto soggettivo perfetto (con i limiti e le aporie già evidenziati) che postula l’attuazione di doveri inderogabili di solidarietà, quale situazione giuridica complementare (14-Barbera, 1975) nella quale il limite all’esercizio di diritti individuali avviene mediante l’imposizione di obblighi e di doveri finalizzati alla vita ed allo sviluppo delle formazioni sociali[21]. Il principio solidarista, infatti, svolge una funzione di integrazione sociale e contribuisce perciò a garantire un livello uniforme di omogeneità nella compagine sociale, tanto più necessario quanto essa è pluralista e frammentata (15-E. Rossi, 2006).

Secondo la dottrina pontificia “la solidarietà […] non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti” (Giovanni Paolo II, 1987)[22]. Sono considerazioni che possono essere applicate agevolmente alla solidarietà ambientale.

Tutte le diverse forme di solidarietà elaborate dalla dottrina (solidarietà istituzionale, solidarietà spontanea – volontariato, solidarietà intergenerazionale) vengono chiamate in causa nella tutela dell’ambiente. La prima di esse, quella pubblica, è anche denominata con l’espressione “leale cooperazione” per indicare l’obbligo di tutti i pubblici poteri di collaborare al perseguimento dell’interesse generale, pur nel rispetto delle reciproche competenze. La seconda ha trovato ampio spazio operativo per effetto dell’attività – invero non sempre limpida e costruttiva – delle associazioni ambientaliste, il cui ruolo è stato riconosciuto dall’ordinamento. La terza fornirà l’oggetto di alcune riflessioni.

Il principio di sviluppo sostenibile, enunciato nel c.d. Rapporto Brundtland (1987), statuisce che le esigenze di sviluppo della generazione presente devono essere tenute in considerazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. La novella legislativa del d. lgs. 4/2008, correttivo del d. lgs. 152/2006, ha dettato la seguente definizione di sviluppo sostenibile: “Ogni attività umana giuridicamente rilevante si sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future” (art. 3-quater, comma 1), impegnando anche l’attività delle pubbliche amministrazioni, “nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati commutata da discrezionalità”, a prestare considerazione prioritaria alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale (comma 2).

In una prospettiva non esclusivamente antropocentrica, lo sviluppo sostenibile deve consentire l’utilizzo delle risorse naturali senza intaccare la loro capacità di rigenerazione e di autodepurazione, in altre parole assicurando uno sviluppo “durevole”.

L’ordinamento settoriale ambientale presenta alcuni esempi di tale approccio, a cominciare dalla legge 36/1994 sulla gestione delle acque, dove si afferma che “tutte le acque (…) sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà” (art. 1, comma 1), e che “Qualsiasi uso delle acque è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale (art. 1, comma 2)[23]. A sua volta, la legge sulle aree naturali protette attribuisce allo Stato il compito della conservazione dei parchi nazionali per le generazioni presenti e future, in ragione degli elevati valori naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi che tali aree rappresentano (art. 2, comma 1). Cenni si rinvengono anche nelle leggi 39/1992 sull’inquinamento transfrontaliero a lunga distanza causato dagli ossidi di azoto, 549/1993 sulla protezione dello strato di ozono, 124/1994 sulla tutela della biodiversità, ed in altre ancora, di cui si omette la citazione.

Più di recente, il d. lgs. 152/2006 contiene ulteriori e più esplicite disposizioni finalizzate all’obiettivo di dare concretezza al principio dello sviluppo sostenibile, nell’anzidetta prospettiva “ecologica”, statuendo che occorre tutelare la “capacità dei corpi idrici di mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate” (art. 76, comma 2).

Il combinato disposto dei principi di sviluppo sostenibile e di solidarietà sociale risulta particolarmente proficuo nel settore della tutela dell’ambiente, in quanto il primo offre un essenziale fondamento giuridico all’applicazione del secondo. La solidarietà ambientale si giustifica non solo con riguardo alla tutela di situazioni attuali ma ancora di più nella prospettiva di salvaguardare le aspettative delle generazioni future, compito che non può essere svolto efficacemente che da un’istituzione stabile e destinata ad un futuro durevole, quale è quella statuale (in senso lato).

 

 

5)        Solidarietà ambientale e dissenso: una nuova dialettica per diritti e doveri. La sindrome Nimby come fenomeno di dissociazione di massa dagli obblighi di solidarietà sociale. Il caso (emblematico) dei rifiuti. Conclusioni.

 

Negli ultimi tempi si assiste ad una progressiva divaricazione dei diritti reclamati da singoli e da comunità locali (all’integrità del proprio habitat, alla protezione della salute da rischi meramente paventati, al rifiuto di tecnologie, prodotti, impianti e perfino presìdi ambientali non condivisi in modo pregiudiziale, ecc..) nei confronti dei doveri inderogabili di solidarietà ambientale.

Sembra trovare conferma la felice intuizione della dottrina che individuava un mutamento nella risalente dialettica tra autorità e libertà come topos del confronto tra doveri e diritti, con l’affermarsi di una nuova dialettica tra solidarietà e dissenso (14-Barbera, 1975). I doveri inderogabili di solidarietà ambientale, dunque, non derivano da uno status di soggezione dei cittadini (e delle istituzioni locali) nei confronti dell’autorità statale, ma nella situazione di una comune appartenenza, tipica di una comunità di diritti e di doveri, tutti finalizzati allo sviluppo della persona umana, alla tutela del bene comune ambientale[24], alla protezione di un patrimonio collettivo la cui fruizione presuppone la protezione.

Mai come in questo tempo, invece, si ha l’impressione che il principio comunitario della solidarietà sia tanto più declamato quanto meno tradotto in comportamenti concreti[25].

Il settore ambientale rappresenta un vero e proprio paradigma, tanto da avere dato luogo alla sindrome Nimby, applicata ormai in modo estensivo e generalizzato a qualsiasi iniziativa produttiva. I comitati “monoscopo” no-Tav, no-coke, no-inceneritore, no-nuke, che si mobilitano contro l’ampliamento della base Nato di Vicenza, contro il nuovo porto turistico, contro il centro commerciale, contro le centrali eoliche, contro le centrali alimentate a biomasse, non sono soltanto un modo di fare politica contro le scelte dei governi nazionali e locali (qualunque sia la loro formula politica e la loro composizione), ma sono anche un fenomeno di dissociazione da ogni obbligo di solidarietà sociale ed ambientale, anche se si giustificano rivendicando il ruolo di estremi difensori della salute e del benessere delle comunità locali.

Il settore dei rifiuti rappresenta il paradigma di una situazione nella quale le ragioni della solidarietà sono rigettate a-priori, in nome di forme esasperate di individualismo e di egoismo localistico, come ha messo in evidenza il caso della Campania. Eppure la normativa comunitaria e nazionale sulla gestione dei rifiuti si presenta tutta ispirata a principi di solidarietà, dall’applicazione del principio di inquina paga al principio di autosufficienza a livello statale nella gestione dei rifiuti urbani, alla costituzione obbligatoria dei consorzi di filiera per il riciclo dei rifiuti speciali (carta, vetro, plastica, alluminio, legno, ecc..)[26], alla condivisione di responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti, fino all’imputazione al Comune del costo della rimozione dei rifiuti abbandonati ed alla bonifica dei siti contaminati quando il responsabile dell’illecito non viene individuato.

Analoga prospettiva è rinvenibile a livello comunitario nel principio del burden sharing tra gli Stati membri delle quote di emissione di CO2.

E’ dunque necessario definire politiche pubbliche coerenti ed efficaci di tutela dell’ambiente, che richiamino al principio di doverosità solidale non solo l’attività di tutte le pubbliche amministrazioni ma anche l’impegno dei cittadini e delle loro forme organizzative, istituzionali e spontanee. E’ universalmente accettato che la tutela dell’ambiente non può fondarsi soltanto sulla repressione dei comportamenti illeciti, e sulle forme di disubbidienza incivile diffuse in ogni parte della Nazione. Occorre un rinnovato impegno dei pubblici poteri per fare avanzare non solo la cultura della legalità, ma anche quella della condivisione e della solidarietà ambientale. In questa prospettiva, dovranno essere attivate più incisive e soddisfacenti modalità di partecipazione, di informazione, di consultazione sistematica delle comunità locali e dei cittadini. Nel contempo, sarebbe opportuna una moratoria nella approvazione di nuove leggi ambientali, il cui continuo cambiamento – anche radicale – non aiuta il consolidarsi della coscienza ambientale e della certezza del diritto.

Roma, 15 novembre 2008

 

Note bibliografiche

 

1) P. Dell’Anno, Manuale di diritto ambientale, IV ed., Padova 2003, pag. 86 e seg.

2) M.S. Giannini, Difesa dell’ambiente e del patrimonio naturale e culturale, Riv. trim. dir. pubbl., 1971. pag. 1122 e seg.

3) M.S. Giannini, “Ambiente”: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, Riv. trim. dir. pubbl., 1973, pag. 15 e seg.

4) A. Predieri, Paesaggio, voce in Enciclopedia del diritto, XXXI, Milano 1981, pag. 507 e seg.

5) B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Bologna 2005.

6) F. Fracchia, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. ec., 2002, pag. 215 e seg.

7) R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino 2007, pag. 53 e seg.

8) S. Grassi, Tutela dell’ambiente (diritto amministrativo), voce in Enciclopedia del diritto, Annali, I, Milano 2007

9) C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, IV ed., Torino 1979, pag. 436.

10) P. Maddalena, La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di tutela ambientale, relazione (inedita) al Convegno nazionale di Gubbio, 10-11 ottobre 2008.

11) G. Morbidelli, Il regime amministrativo speciale dell’ambiente, in Aa. Vv., Scritti in onore di Predieri, vol. II, Milano 1996, pag. 1121 e seg.

12) P. Dell’Anno, L’interesse nazionale in materia ambientale come riserva della competenza e la giurisdizione del TAR Lazio, in Aa. Vv., La competenza del TAR Lazio estesa all’intero territorio nazionale: esperienze, bilancio, prospettive, Atti del Convegno 23.11.2000, Roma 2001, pag. 152 e seg.

13) P. Dell’Anno, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Milano 2004, pag. 118 e seg.

14) A. Barbera, Commento all’art. 2, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Tomo I, Bologna-Roma 1975, pag. 80 e seg.

15) E. Rossi, Commento all’art. 2, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino 2006, pag. 38 e seg.

 

 



[1] Relazione presentata al Convegno nazionale “La Costituzione Repubblicana, fondamenti, principi e valori, tra attualità e prospettive”, Vicariato di Roma – Ufficio Pastorale Universitaria, Roma 13-15 novembre 2008.

[2] Situazione che certamente ricorre nella vicenda giuridica dell’ambiente, come si dimostrerà in appresso.

[3] Tra i principi menzionati nell’art. 119 va ricordata la previsione di interventi speciali dello Stato per la promozione dello sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, nonché per la rimozione degli squilibri economici e sociali. Si tratta di obiettivi che rendono esplicita la funzione di solidarietà di cui tratterò nel paragrafo 4.

[4] Trattandosi di un dato costituzionale testuale che esclude in radice ogni possibilità surrettizia di ampliamento delle funzioni legislative regionali in materia di ambiente, non sorprende che sia stato trascurato dagli studiosi “regionalisti”.

[5] Corte Cost., sent. 364/2006; 378/2007; 214/2008.

[6] Anticipata dalla legge ordinario 59/1997, che aveva confermato la riserva statale sulle funzioni amministrative in materia di tutela dell’ambiente (art. 1, comma 4, lett. c), poi tradotte in concrete attribuzioni dal d. lgs. 112/1998 (Capo III, Protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, artt. 68-85).

[7] Meno che mai si comprende il nesso di tale connotato identitario con la funzione di fruizione dei beni culturali, alla quale la Costituzione attribuisce una valenza distintiva, rispetto alla protezione, tale da costituire l’oggetto di una potestà legislativa concorrente delle regioni (art. 117, comma 3).

[8] Proprio la vicenda giudiziaria che ha costituito lo spunto per la costruzione della teoria di un diritto soggettivo all’ambiente salubre ne dimostra la rapida obsolescenza. Il proprietario di una villetta nella zona di Cuma, in Campania, era insorto contro la localizzazione di un mega-depuratore destinato al servizio del sistema epurativo fognario dei Regi Lagni, contestandone la vicinanza e la pericolosità da punto di vista igienico ed ambientale. Tesi accolta dalla Cassazione, che affermava il principio dell’intangibilità del diritto del proprietario alla salubrità dell’ambiente, non comprimibile nemmeno da atti della pubblica amministrazione. La giurisprudenza amministrativa ha dovuto apportare significative correzioni all’estremismo di tale tesi, affermando il diverso principio del diritto del soggetto interessato ad un giusto procedimento, e prima ancora alla necessaria adozione da parte dei pubblici poteri, tanto in sede normativa quanto in sede amministrativa puntuale, di ogni misura precauzionale idonea a consentire la compresenza della tutela della salute individuale e dell’igiene pubblica con la realizzazione di presìdi ambientali di interesse pubblico generale. Lungi dal confermare l’assolutezza del diritto all’ambiente salubre (che nella fattispecie era riconosciuto come proiezione del diritto di proprietà) la giurisprudenza, anche costituzionale ha applicato il criterio del bilanciamento degli interessi di rango costituzionale, che comunque non possono in alcun caso essere sacrificati integralmente.

[9] La natura personale del diritto fondamentale alla salute, come situazione protetta inviolabile, è tuttavia bilanciata – e non contrapposta – dal carattere sociale del diritto, in quanto l’interesse della collettività opera in funzione di impegno dell’intero apparato istituzionale (la Repubblica) alla più efficace protezione della salute dei cittadini, e per la salubrità dell’intera comunità (7-S. Ferrara, 2007).

[10] Anche la giurisprudenza europea sottolinea che diritto di proprietà e diritto d’impresa non costituiscono prerogative assolute dei cittadini comunitari ma vanno considerati alla luce della loro funzione sociale (Corte Giust., 14 maggio 1974, C-4/73, J. Nold, par. 14).

[11] Corte Cost., sent. 12/2007, dove è stata affermato che, per determinate categorie di rifiuti (quali i rifiuti speciali anche pericolosi), è necessario che lo smaltimento avvenga in strutture specializzate, peraltro non presenti in maniera omogenea sul territorio nazionale, mentre risulta non prevedibile a priori la dimensione qualitativa e quantitativa del fenomeno da fronteggiare. L’ordine logico, dunque, richiede che il requisito della specializzazione (degli impianti di gestione) preceda quello della “prossimità”. In senso conforme, sent. 161/2005.

[12] Un ulteriore argomento deve essere tratto dal disposto dell’art. 117, coma 2, lett. l), laddove riserva alla legge statale “l’ordinamento penale”. La giurisprudenza è granitica nell’escludere le Regioni dall’esercizio della potestà punitiva penale, nella forma della “riduzione” delle fattispecie criminose, cioè della sottrazione di determinate condotte dalla sanzione penale stabilita in termini generali dalla norma statale. Ma è vero anche l’opposto, cioè l’introduzione nell’ordinamento di una disciplina regionale più restrittiva di quella nazionale, si risolve di fatto nella creazione di nuovi profili di responsabilità penale destinati ad operare soltanto nel territorio della Regione interessata.

[13] Sentenze conformi 246/2006; 182/2006. E’ proprio l’obiettivo del perseguimento di un “elevato livello di tutela” che rende la legislazione statale inderogabile dalla disciplina di settore, mentre le Regioni possono assumere misure più protettive di altri beni giuridici – anch’essi a rilevanza ambientale – nell’esercizio delle altre competenze istituzionali (Corte Cost., sent. 104/2008).

[14] Sentenza conforme 431/2007.

[15] Sentenze conformi 62/2008; 378/2007.

[16] Sentenze conformi 246/2006; 307/2003.

[17] La Corte ha statuito che nell’ambito del procedimento autorizzatorio fissato dal d. lgs. 387/2003 il termine per concludere costituisce un principio fondamentale inderogabile dalle Regioni perché garantisce semplificazione, celerità e conclusione entro un termine predefinito e certo (Corte Cost., sent. 9.11.2006, n. 364).

[18] La Corte ha statuito l’illegittimità della legislazione regionale che ha preteso di continuare ad applicare la normativa dettata dal d.m. 471/1999 sui presupposti per l’attivazione delle bonifiche dei siti contaminati (superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione) in luogo dei nuovi limiti (superamento delle concentrazioni soglia di rischio) (Corte Cost., sent. 18.06.2008, n. 214).

[19] Corte Cost., sentenze 75/1992 e 409/1989.

[20] Si tratta di un’azione che concorre anch’essa al perseguimento della coesione sociale tra gli Stati membri e le comunità di cui sono enti esponenziali.

[21] Secondo la Corte Cost., le esigenze di solidarietà sociale prevalgono su ogni altra esigenza di carattere personalistico (sent. 77/1983).

[22] Enciclica Sollicitudo rei socialis, 30.12.1987, n. 38.

[23] La Corte Costituzionale ha confermato la legittimità e la fondatezza di tali espressioni di principio nella sent. 259/1996, rilevando che “l’acqua, bene primario della vita dell’uomo, è configurata dall’ordinamento come una risorsa da salvaguardare, sui rischi di inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell’ambiente, in un quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio ambientale”. La norma contenuta nell’art. 1 costituisce un “principio generale per una disciplina omogenea dell’uso delle risorse idriche”.

[24] Il bene comune costituisce una definizione solidaristica del “preminente interesse generale” di cui è menzione nella Costituzione (artt. 42 e 43).

[25] La Germania aveva istituito un fondo di solidarietà per sostenere i costi della reintroduzione dei rifiuti pericolosi esportati illecitamente all’estero, facendoli gravare su tutti gli esportatori, in funzione della natura e della quantità dei rifiuti esportati. La Corte di Giustizia ha dichiarato tale legge in contrasto con le disposizioni comunitarie, ravvisando nel fondo una tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale sull’esportazione, e dunque un ostacolo alla circolazione delle merci, non riconoscendo ad esso la funzione di corrispettivo per un servizio effettivamente prestato all’operatore, dato che il costo del rimpatrio dovrebbe gravare – secondo il regolamento comunitario – soltanto sul soggetto che ha esportato i rifiuti in violazione delle norme comunitarie (Corte Giust., V sez., 27 febbraio 2003, causa C-389/00). Analoga pronuncia è stata emessa dai giudici costituzionali nazionali a proposito della norma che stabilisce l’obbligo degli utenti di corrispondere la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione “anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi” (art. 14, comma 1, legge 36/1994). La natura della tariffa del servizio idrico integrato, in tutte le sue componenti, è quella di un corrispettivo (di diritto privato) di prestazioni contrattuali e non già di un tributo (il cui fondamento sarebbe rinvenibile in un criterio di solidarietà). La norma è quindi illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. (Corte Cost., 335/2008).

[26] La nuova direttiva quadro sui rifiuti (2008) esprime l’intenzione di promuovere una “società europea del riciclaggio”, caratterizzata da un alto livello di efficienza delle risorse (41° considerando).