Cass. Sez. III n. 25522 del 18 giugno 2009 (Ud. 23 apr. 2009)
Pres. Onorato Est. Teresi Ric. Lusardi
Aria. Impianti di frantumazione di materiali da cava

Gli impianti di frantumazione dei materiali di cava rientrano nella previsione dell’art. 1 del D.P.R. n. 203/1988 (ora art. 279, comma 1, del d.lgs. n.152/2006) per la loro oggettiva attitudine a dare luogo a emissioni nell’atmosfera

Con sentenza in data 1 aprile 2008 la Corte di Appello di Genova confermava la condanna alla pena di mesi uno giorni dieci di arresto € 200 di ammenda inflitta nel giudizio di primo grado a Lusardi Gino quale colpevole di avere, essendo titolare della ditta omonima, attivato la coltivazione di una cava di serpentino facendo funzionare un impianto per la frammentazione del materiale estratto, in assenza della preventiva autorizzazione.
La teste Simona Mansutti, funzionaria della Provincia, aveva costatato la presenza di cumuli di materiale triturato nell’area della cava.
L’altro teste Roberto Motta, dell’ARPAL, aveva dichiarato che egli era intervento per le segnalazioni di cittadini che lamentavano emissioni in atmosfera provenienti dalla cava dell’imputato.
Tali testimonianze e quella del sindaco Fabrizio Gallo, che aveva ricevuto numerose lagnanze, provavano che l’impianto di frantumazione era stato messo in funzione, con emissioni in atmosfera, sin dal mese di novembre 2004 risalendo a tale data gli esposti con i quali si denunciavano emissioni in atmosfera con tracce d’amianto.
L’esercizio della suddetta attività richiedeva il previo conseguimento dell’autorizzazione regionale e di quella della Provincia, non ottenute dall’imputato.
Proponeva ricorso per cassazione Lusardi denunciando violazione di legge; contraddittorietà e illogicità di motivazione sulla ritenuta configurabilità del reato perché le testimonianze raccolte nel processo [in particolare, quelle della difesa, ignorate dai giudici dì merito] avevano dimostrato che l’impianto di frantumazione non era mai stato messo in funzione se non in via sperimentale dietro specifica autorizzazione regionale finalizzata al compimento di rilevazioni e campionamenti indispensabili per eseguire le diverse analisi destinate alle valutazioni circa il permanere delle autorizzazioni richieste.
Chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata.
Puntualizzato che, secondo il costante orientamento di questa Corte, gli impianti di frantumazione dei materiali di cava rientrano nella previsione dell’art. 1 del d.p.r. n. 203/1988 (ora art. 279, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006) per la loro oggettiva attitudine a dare luogo a emissioni nell’atmosfera [Cassazione Sezione III n. 11334/1995 RV. 203266; Sezione III n. 40954/2005 RV. 232366], deve rilevarsi che il ricorso, che contesta l’affermazione di responsabilità, non è puntuale poiché solleva erronee censure, in fatto, su questioni sulle quali i giudici d’appello hanno congruamente motivato con argomentazioni irreprensibili segnalando esaurientemente gli elementi probatori che depongono sicuramente a carico dell’imputato.
Si tratta della documentazione fotografica in atti; dei risultati delle analisi eseguite sui campioni di polvere e di pietrisco - prelevati dai cumuli di lavorazione e anche fuori dalla cava - che li hanno classificati come rifiuti pericolosi; delle obiettive costatazioni della dipendente della Provincia delle dichiarazioni rese dal funzionario ARPAL e dal sindaco di Casarza Ligure dalle quali è emerso che l’impianto di frantumazione è stato attivato ben oltre il termine di 15 giorni di cui all’autorizzazione rilasciata dalla Regione Liguria in data 25 maggio 005 per eseguire rilevazioni e campionamenti, sicché correttamente è stata esclusa l’attendibilità delle elusive dichiarazioni rese dai testi della difesa.
I suddetti elementi, quindi, smentiscono alla radice i rilievi di ordine fattuale da cui muovono le censure del ricorrente non rilevando in questa sede valutazioni del fatto diverse da quella adottata dai giudici dell’appello, non potendo il controllo di legittimità investire l’intrinseca adeguatezza della valutazione dei risultati probatori, peraltro rispondenti alle effettive acquisizioni processuali.
La manifesta infondatezza del ricorso comporta l’onere delle spese processuali e del versamento, ai sensi della sentenza 13 giugno 2000 n. 186 della Corte costituzionale, alla cassa delle ammende di una somma che va equitativamente fissata in € 1.000.