Cass. Sez. III n. 42978 del 26 ottobre 2015 (Ud 8 lug 2015)
Pres. Fiale Est. Di Nicola Ric. Bozzo ed altri
Beni Ambientali. Spontanea rimessione in pristino

La rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma primo e non dal comma 1-bis, dell'art. 181 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 4

RITENUTO IN FATTO

1. B.M., P.A. e E.C.S. ricorrono per cassazione impugnando la sentenza emessa in data 22 ottobre 2014 dalla Corte di appello di Genova che ha confermato quella emessa dal tribunale della medesima città con la quale i ricorrenti erano stati condannati alla pena condizionalmente sospesa e munita del beneficio della non menzione, di 8 mesi di reclusione per il reato (capo a) previsto dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c), perchè - il B. della sua qualità di committente dei lavori, il P. della sua qualità di direttore dei lavori e l' E.C. nella sua qualità di esecutore dei lavori - realizzavano in (OMISSIS), presso l'immobile contraddistinto dal numero civico (OMISSIS), le seguenti opere in difformità dal permesso di costruire numero 54 del 3 maggio 2007 e su area sottoposta a vincolo ambientale: traslazione della rampa carrabile ed arretramento del muro di sostegno e diverso andamento dello stesso rispetto al muro di fascia preesistente nonchè del reato (capo b) previsto dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1 bis, perchè, nelle qualità sopraindicate, eseguivano le predette operazioni su beni immobili che per loro caratteristiche paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse pubblico con D.M. 28 gennaio 1949, in assenza di autorizzazione paesaggistica ambientale. Reati accertati in (OMISSIS).

2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza i ricorrenti, tramite i rispettivi difensori, sollevano i seguenti motivi, qui enunciati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

2.1. B.M., con un primo personale motivo, deduce la violazione di norme processuali (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione al combinato disposto art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 179 c.p.p., alla luce di quanto disposto dall'art. 604 c.p.p., con riferimento all'omessa notifica dell'atto di citazione a giudizio del ricorrente.

Assume di non avere mai ricevuto alcun atto del processo di primo grado e solo la Corte di appello, nella fase di instaurazione del giudizio di secondo grado, ha effettuato la correzione del nominativo del ricorrente non sanando però le precedenti nullità assolute inerenti la citazione e la partecipazione del predetto al giudizio di primo grado ed emergenti dagli atti in quanto le notifiche precedenti erano state erroneamente indirizzate a B.M. e mai notificate al ricorrente ( B.M.) che quindi non veniva messo a conoscenza sia dell'emissione del decreto penale e sia dell'atto di citazione in giudizio innanzi al tribunale monocratico di Genova.

Nell'unica occasione della quale il ricorrente si vedeva recapitare presso il proprio domicilio dichiarato ai sensi dell'art. 161 c.p.p., la cartolina di notifica di un provvedimento giudiziario egli non poteva conoscerne il contenuto in quanto quest'ultimo atto era intestato nuovamente a B.M. e pertanto il servizio pubblico (sportelli) di Poste S.p.A. rifiutava la consegna del plico indicato nell'avviso di deposito in quanto destinato a soggetto nominalmente ed anagraficamente diverso rispetto al richiedente identificato.

2.2. B.M. ed E.C. (secondo motivo B. e primo motivo E.C.) deducono poi la nullità dell'impugnata sentenza per inosservanza del combinato disposto degli artt. 522 e 604 c.p.p., (motivo, questo, comune al primo motivo del ricorso P.).

Sostengono di aver eccepito, nei motivi di appello, l'evidente travisamento del fatto compiuto dal tribunale nella parte motiva della propria pronuncia nel senso che essi ricorrenti erano stati tratti a giudizio per rispondere del delitto previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 bis, con riferimento alla creazione di due opere in difformità rispetto al permesso di costruire n. 54 del 3 maggio 2007 su area sottoposta a vincolo ambientale e più precisamente era stata loro contestata la traslazione della rampa carrabile assentita e l'arretramento del muro con diverso andamento dello stesso rispetto al muro di fascia preesistente. Il tribunale di primo grado, pur a fronte di tali chiare e dettagliate contestazioni, aveva invece più volte posto l'accento, nella parte motiva della propria pronuncia, sulla palese violazione della norma di cui sopra con specifico riferimento alla presunta realizzazione di "un macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa" che aveva determinato, secondo le valutazioni del giudice di prima istanza "un evidente e diverso impatto ambientale (si vedano le fotografie) che doveva essere preventivamente sottoposto al vaglio dell'autorità competente".

Eccepito con i motivi di appello il difetto di correlazione tra il fatto storico posto alla base dell'affermazione di penale responsabilità pronunciata dal tribunale e il fatto storico oggetto di imputazione, la Corte di appello riconosceva esplicitamente nella parte motiva della propria sentenza l'errore in fatto nel quale era in corso il giudice di prima istanza tacciandolo però come "parziale equivoco motivazionale da parte del giudice". Ciò posto, preso atto della circostanza che il tribunale di primo grado aveva fondato il convincimento circa la penale responsabilità degli imputati con riferimento ad un'opera abusiva che tale non era e che non era stata neppure contestata in imputazione, i giudici di appello avrebbero dovuto applicare il disposto dell'articolo 604 c.p.p., comma 1, provvedendo all'annullamento della sentenza di primo grado, emessa dal tribunale con riferimento ad un fatto storico (creazione di un macroscopico vuoto strutturale) non contestato adottando consequenzialmente i provvedimenti di cui all'art. 604 c.p.p., comma 8.

2.3. Lamentano poi la nullità dell'impugnata sentenza per manifesta illogicità della motivazione sul rilievo che la Corte di appello, dopo aver riconosciuto l'errore commesso dal tribunale con riferimento a "un macroscopico vuoto strutturale", ne ha limitato la portata definendolo "parziale equivoco motivazionale" per poi avallare pedissequamente le successive argomentazioni che avevano indotto il giudice di prime cure ad affermare la penale responsabilità dei ricorrenti (terzo motivo B. e secondo motivo E.C.).

2.4. Denunciano infine la nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione (motivo, questo, comune al secondo motivo del ricorso P.) perchè, a fronte dell'argomentazione difensiva dedotta nei motivi di impugnazione in forza della quale l'intervento edilizio parzialmente difforme rispetto al permesso di costruire si era reso necessario a causa di un errore di progettazione dell'opera, circostanza certamente non volta a negare la difformità dalla stessa ma solo ed unicamente a porre l'accento sulla inidoneità di tale variazione edilizio - costruttiva a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma contestata, ovverosia il paesaggio, la Corte di appello ha completamente stravolto tale deduzione ripristinando l'automatismo argomentativo fatto proprio dal giudice di primo grado, ovverosia quello in forza del quale per la configurabilità del reato fosse sufficiente ogni variazione rispetto al titolo edilizio (quarto motivo B. e terzo motivo E.C.).

2.5. P.A. - oltre ai motivi comuni (sub 2.2. e sub 2.4.) ai predetti ricorrenti - deduce la violazione di legge per errata interpretazione dell'art. 181, comma 1 bis, laddove non si è tenuto conto che le difformità nell'esecuzione dei lavori sono state sanate con conseguente inconfigurabilità del reato paesaggistico.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza e perchè presentati nei casi non consentiti.

2. Il primo motivo, personale al ricorrente B., è completamente destituito di fondamento.

Dagli atti, il cui accesso è consentito alla Corte di cassazione in ragione della natura processuale del vizio denunciato, risulta che la notifica della citazione, sebbene l'atto fosse errato nella intestazione in quanto riportante il nominativo di " B.M.", anzichè quello esatto di " B.M.", sia stato ritirato da quest'ultimo come emerge dalla firma " M." apposta al documento allegato al verbale di udienza (16 aprile 2012).

Ne consegue che quando il decreto di citazione a giudizio venga notificato al vero imputato ma rechi, per mero errore materiale, un nome di battesimo diverso (nella specie: " M." anzichè " M."), è legittimo il ricorso alla procedura per la correzione degli errori materiali, e l'atto non può essere considerato affetto da nullità (Sez. 4^, n. 2576 del 19/12/2006, dep. 24/01/2007, Marcarini, Rv. 235896).

La Corte territoriale ha pertanto correttamente proceduto alla correzione dell'errore materiale senza necessità di rilevare alcuna nullità in proposito.

Peraltro, la prova che le notifiche avevano raggiunto il reale destinatario dell'atto nel luogo dichiarato per riceverle si desume dal fatto che lo stesso ricorrente ha affermato di essersi recato all'ufficio postale per ritirare il plico, restando una mera asserzione, sfornita di qualsiasi elemento idoneo a corroborarla, la circostanza del rifiuto da parte degli impiegati postali a consegnarglielo e comunque egli avrebbe dovuto osservare le normali regole di diligenza per rimuovere il rifiuto alla consegna.

3. I restanti motivi di gravame, ad eccezione del terzo motivo P. che sarà esaminato in seguito, possono essere congiuntamente scrutinati in quanto tra loro strettamente collegati.

La loro inammissibilità deriva dal fatto che le doglianze sollevate non si confrontano minimamente con la ratio decidendi della sentenza impugnata.

La Corte distrettuale ha infatti osservato che - al di là dalla realizzazione del "macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa" in ordine al quale ha ritenuto configurabile un parziale equivoco motivazionale da parte del primo giudice - le contestazioni incorporate nel capo di imputazione (che infatti non faceva cenno a vuoti strutturali) erano state riscontrate come effettivamente realizzate (peraltro anche ammesse) e quindi correttamente addebitate agli imputati sul fondamentale rilievo che le opere "difformi" investivano immobili che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, erano stati dichiarati di notevole interesse pubblico, con la conseguenza che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, dovevano considerarsi come variazioni essenziali e quindi quali opere eseguite in difformità totale, attesa la natura di pericolo del reato contestato al capo b), per la configurabilità del quale non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente.

Nè l'errore progettuale autorizzava gli imputati ad eseguire le opere difformi, dovendosi interrompere la fase esecutiva, depositare la richiesta di variante progettuale e attendere determinazioni degli organi competenti sulla tutela del territorio e del paesaggio.

Nel pervenire a siffatta conclusione, la Corte di appello si è attenuta alla consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 32, comma 3, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Sez. 3^, n. 37169 del 06/05/2014 Longo, Rv. 260181; Sez. 3^, n. 1486 del 03/12/2013, dep. 15/01/2014, P.M. in proc. Aragosa e altri, Rv. 258297; Sez. 3^, n. 16392 del 17/02/2010, Santonicola ed altro, Rv. 246960).

La Corte del merito ha quindi ritenuto - in conformità, del resto, a quanto sostenuto anche dal primo giudice - che i reati contestati fossero integrati nei loro elementi costitutivi per il solo fatto della realizzazione delle opere difformi indicate nel capo di imputazione e che quindi non aveva alcun rilievo ( e, per tale ragione, la Corte distrettuale ha parlato di un parziale equivoco motivazionale) l'ulteriore effetto, accennato dal tribunale, che era conseguito dalle difformità contestate, ossia la realizzazione di un macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa.

Ne consegue che le doglianze dei ricorrenti (secondo, terzo e quarto motivo B. ed E.C. e primo e secondo motivo P.) sono del tutto infondate perchè essi sono stati condannati, per le ragioni in precedenza enunciate, soltanto con riferimento alle condotte loro contestate con il capo di imputazione.

4. Anche il terzo motivo sollevato dal ricorrente P. è manifestamente infondato.

Per rendersene conto è sufficiente ricordare che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico, spontaneamente eseguita dal trasgressore, per la sua natura eccezionale, estingue solo il reato previsto dal comma 1 e non dal comma 1 bis, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181 (Sez. 3^, n. 33542 del 19/06/2012, Cavaletto, Rv. 253139).

Ne consegue che non è applicabile la causa estintiva del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 quinquies, "la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1".

Tale disposizione è stata introdotta nel D.Lgs. n. 42 del 2004 dalla L. 15 dicembre 2004, n. 308, art. 1, comma 36 recante la Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione.

La novella ha inserito nell'originario testo del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 sia il comma 1 bis che il comma 1 quinquies, quest'ultimo contenente il rinvio al solo comma 1 (ossia alla contravvenzione paesaggistica) e non anche al comma 1 bis (delitto paesaggistico), con la conseguenza che ove il legislatore avesse inteso estendere alla previsione del comma 1 bis il trattamento premiale indicato per il comma 1 avrebbe espressamente disposto in tal senso.

Nè può obiettarsi che la soluzione adottata, circa la non estensibilità della causa estintiva del reato alle ipotesi delittuose, e quindi più gravi, finirebbe illogicamente con l'incentivare il ravvedimento operoso solo per le ipotesi minori.

Si tratta di una scelta del legislatore che riguarda situazioni in realtà non omogenee che impedisce il ricorso ad una interpretazione analogica in bonam partem o anche solo estensiva della norma premiale, che ha natura eccezionale, essendo riservata al legislatore la discrezionalità in materia di disciplina delle cause estintive del reato.

Peraltro anche la Corte Costituzionale, con l'ordinanza n. 144 del 2007, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1-quinquies, aggiunto dalla L. 15 dicembre 2004, n. 308, art. 1, comma 36, lett. c), censurato, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede l'estinzione - oltre che del reato ambientale del D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 181 - anche del reato edilizio del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ex art. 44, comma 1, lett. c), in caso di rimessione in pristino, prima della condanna, delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, sul rilievo che, per giurisprudenza costituzionale costante, non è possibile una pronuncia additiva tesa ad estendere una disposizione derogatoria ed eccezionale, a meno che non sussista piena identità di funzione tra le discipline poste a raffronto.

Questa Corte ha infatti affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1-quinquies, per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede l'applicabilità della causa di estinzione ivi prevista anche al delitto paesaggistico di cui all'art. 181, comma 1 bis del citato Decreto, in caso di avvenuta rimessione in pristino dello stato dei luoghi prima della condanna sul rilievo che la maggiore offesa al bene tutelato della integrità ambientale, derivante dalle condotte delittuose di cui dell'art. 181, comma 1 bis del decreto, rende non irragionevole una disciplina normativa differenziata (Sez. 3^, n. 13007 del 18/12/2014, dep. 27/03/2015, Enzo, Rv. 262859).

Allo stesso modo neppure rileva il positivo e postumo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata che non esclude la punibilità del reato di pericolo (presunto) di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1- bis, in quanto per la realizzazione della fattispecie incriminatrice non è richiesto un effettivo pregiudizio per l'ambiente, con la conseguenza che il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non implica "automaticamente" che l'opera realizzata possa ritenersi "ex ante" inoffensiva o inidonea a compromettere il bene giuridico tutelato (Sez. 3^, n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263978).

Quanto si è detto circa l'inapplicabilità della causa estintiva di cui all'art. 181, comma 1 quinquies all'art. 181 comma 1 bis, vale anche per l'ipotesi della compatibilità paesaggistica avendo questa Corte già affermato, e più volte ribadito, che è manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1 ter, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 42 e 97 Cost., nella parte in cui non prevede che, nonostante il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'opera, siano comunque applicabili le sanzioni penali contemplata dallo stesso art. 181 al comma 1 bis atteso che la diversità delle situazioni disciplinate dalle norme richiamate rende non irragionevole una disciplina normativa differenziata (Sez. 3^, n. 13736 del 26/02/2013, Manzella, Rv. 254762).

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 8 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2015