Cass. Sez. III n. 15460 del 14 aprile 2016 (Ud 10 feb 2016)
Pres. Fiale Est. Di Nicola Ric. Ingegneri
Beni Ambientali.VIA e tutela del paesaggio
Quando è richiesta una valutazione di impatto ambientale, il bene paesaggistico, posto in pericolo dalla condotta esecutiva di opere non autorizzate, non va individuato secondo un criterio di perimetrazione fisica, nel senso che non è necessariamente e soltanto il bene, oggetto materiale del reato e cioè quello sul quale cade l'attività fisica del reo, ma qualunque bene paesaggistico che, in via diretta o indiretta, possa subire pregiudizio dall'esecuzione dei lavori non autorizzati, con la conseguenza che, in tal caso, le autorità preposte alla tutela del vincolo devono rimuovere il limite legale all'esercizio del diritto, configurandosi, in caso diverso ossia in assenza della prescritta autorizzazione, l'integrazione della fattispecie incriminatrice ex art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004.
RITENUTO IN FATTO
1. I.G. ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Venezia ha confermato, per quanto qui interessa, quella emessa dal tribunale di Rovigo, sezione distaccata di Adria, che aveva dichiarato, nei confronti del ricorrente, estinto il reato di cui al capo A1) per intervenuta remissione in pristino, assolvendolo per il reato di cui al capo B1), perchè il fatto non costituisce reato.
Al ricorrente era contestato il reato di cui agli artt. 40, 81 cpv. e 110 c.p., D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, nonchè D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c), e L. 6 dicembre 1991, n. 394, artt. 6 e 30 perchè, in qualità di project manager della J.V. Mantovani S.r.l. e Max Streicher, con compiti di rappresentanza e responsabilità complessiva dell'esecuzione del lavoro di realizzazione dell'isola artificiale ed opere connesse, in concorso con altri coimputati e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, realizzava - nonchè non ne impediva la realizzazione stante la posizione di comando, responsabilità, controllo, garanzia e tutela all'interno della società - senza le prescritte autorizzazioni su beni paesaggistici comprendenti aree demaniali marittime e porzioni di mare territoriale, nonchè su aree naturali protette (ZPS, ZSC e SIC), in assenza di valutazione di impatto ambientale, in assenza del permesso di costruire ed in assenza della previa autorizzazione paesaggistica del Comune di (OMISSIS), in assenza di valutazione di incidenza opere ed interventi sul territorio consistenti nella realizzazione di un'isola artificiale di 110 x 45 metri a 600 metri dalla costa senza le prescritte autorizzazioni su beni paesaggistici comprendenti aree demaniali marittime e porzioni di mare territoriale, nonchè su aree naturali protette, riempiendo detta isola di sabbie - provenienti da scavi su foce fluviale - contenenti concentrazioni di nichel, cromo, esalclorobenzene, idrocarburi policiclici aromatici e policlorobifenili al di sopra dello standard di qualità dei sedimenti del Decreto 6 novembre 2003, n. 367, nonchè al di sopra per nichel, cromo, policlorobifenili ed idrocarburi policiclici aromatici del limite della colonna A del protocollo d'intesa del 8 aprile 1993 nonchè superanti per il nichel la colonna B del suddetto protocollo nonchè IPA, PBC, HCB per con valori superiori al sito di destinazione; nonchè dei reati (capo B1) artt. 81 e 110 c.p., art. 635, comma 1 e comma 2, n. 3) in relazione all'art. 625 c.p., n. 7 e art. 40 c.p. perchè in concorso con altri coimputati nella qualità descritta al capo A1) cagionava (e non impediva che venisse cagionato in relazione al ruolo di comando, responsabilità e posizione di garanzia rivestiti rispettivamente all'interno della società indicata al capo A1) danneggiamento del territorio, comprendente aree marittime e zone naturali protette, che veniva deteriorato sia in conseguenza dei lavori di realizzazione dell'isola artificiale di cui al capo A1) e C), sia del versamento nell'ambiente marino circostante l'isola, a causa del mare mosso e della poca stabilità della struttura realizzata, di oltre la metà della sabbia utilizzata per il riempimento dell'isola stessa nonchè ritardando oltre che omettendo l'effettuazione delle operazioni di messa in sicurezza dell'isola con l'aggravante del fatto commesso su beni esposti per necessità, consuetudine e destinazione alla pubblica fede nonchè con l'aggravante del fatto commesso su beni destinati al pubblico servizio e utilità con riferimento alle aree del demanio marittimo e alla zona di mare in area naturale protetta da vincoli ambientali e paesaggistici.
2. Per la cassazione dell'impugnata sentenza, il ricorrente, personalmente e tramite il difensore, articola i seguenti cinque motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la mancanza della motivazione in ordine al rigetto del primo motivo di appello (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), sul rilievo che il tribunale aveva ritenuto sussistente il reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, del solo sulla base dell'argomento della necessità di una autonoma valutazione di impatto ambientale per la realizzazione della cosiddetta "isola artificiale", che non avrebbe potuto ritenersi ricompresa nell'originario progetto valutato, omettendo qualsiasi motivazione sulla questione principale sottoposta al suo esame: se cioè l'opera fosse stata realizzata su bene paesaggistico posto che esistono due categorie di beni paesaggistici e cioè quelli individuati a seguito di apposito procedimento amministrativo (cosiddetti vincolati) e quelli che lo sono ipso iure. Avendo il giudice di primo grado escluso che il luogo in cui era stata realizzata la cosiddetta isola artificiale fosse vincolato, avrebbe allora dovuto accertare se esso rientrasse tra beni paesaggistici tali ritenuti ipso iure, prima di poter affermare l'avvenuta commissione del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181. La Corte d'appello, investita della questione, non ha nemmeno in minima parte, nè per relationem, esaminato il motivo di impugnazione, posto che in nessuna parte della sentenza di secondo grado è stato affermato e giustificato che l'isola fosse stata realizzata su un bene paesaggistico, "conditio sine qua non" per ritenere sussistente il fatto tipico di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l'erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)) sul rilievo che avendo entrambe le sentenze, di primo e di secondo grado, escluso che l'area in cui era stata realizzata la cosiddetta "isola artificiale" fosse un bene paesaggistico - tale esclusione avrebbe dovuto comportare una declaratoria di insussistenza del fatto tipico, costituito dall'esecuzione di lavori "su beni paesaggistici", con la conseguenza che è stato erroneamente applicato il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la mancanza della motivazione in ordine al rigetto del secondo motivo di appello relativo al capo di imputazione B1) (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), sul rilievo che il tribunale ha ritenuto sussistente l'elemento oggettivo del reato di danneggiamento di cui al capo B1) dell'imputazione per il periodo sino al 12 settembre 2006. Tale danneggiamento sarebbe consistito nei seguenti e ritenuti effetti dei lavori di costruzione della cosiddetta isola: "intorbidamento delle acque", "disturbo della quiete", "alterazione delle correnti", "interferenza sull'ambiente marino di lavori che hanno coinvolto diverse navi, mosso il fondo sabbioso ecc.". Tale approdo era stato contestato sul presupposto che il concetto di danneggiamento ambientale assunto dal tribunale determinava una contraddizione tra le premesse e le conclusioni cui era pervenuto il primo giudice, poichè per aversi danneggiamento occorreva che l'ambiente in questione avesse subito non già la semplice modificazione, come ritenuto in fatto, bensì uno vero e proprio "significativo peggioramento" e tale connotazione negativa non si rinveniva negli effetti descritti dal giudice di primo grado, non essendovene traccia nell'istruttoria compiuta. Non risultava assolutamente provato quindi l'elemento oggettivo del reato di danneggiamento con la conseguenza che il ricorrente andava assolto perchè il fatto non sussiste. Sul punto la Corte di appello di Venezia si è limitata ad una motivazione per relationem che tuttavia si risolve in una motivazione mancante, poichè nell'atto di appello si erano specificamente indicate le ragioni che ad avviso dell'appellante avrebbero dovuto condurre ad una diversa valutazione circa l'elemento oggettivo del reato e tali censure non sono state minimamente affrontate.
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole dell'omessa motivazione in ordine alla sussistenza di un significativo peggioramento dell'ambiente marino con riferimento al capo di imputazione B1 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), sul rilievo della mancanza totale di motivazione circa l'accertamento della sussistenza in concreto di un "significativo peggioramento" dell'ambiente.
2.5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce l'erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 635 c.p. in relazione al capo di imputazione B1 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)), sul rilievo che la sentenza di primo grado, cui rinvia quella d'appello, ha ritenuto essersi determinati durante i lavori di costruzione della cosiddetta "isola" effetti quali l'intorbidamento delle acque, il disturbo della quiete, l'alterazione delle correnti, l'interferenza sull'ambiente marino di lavori che hanno coinvolto diverse navi, mosso il fondo sabbioso ed altro. Tali effetti non possono integrare, ad avviso del ricorrente, l'elemento oggettivo della fattispecie penale di cui all'art. 635 c.p. perchè essi non costituiscono in alcun modo nè una distruzione, nè una dispersione, nè un deterioramento dell'ambiente marino, che per sua natura è soggetto a movimenti e a interferenze di vario genere dell'attività umana.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. I primi due motivi di impugnazione, essendo tra loro collegati, possono essere congiuntamente esaminati.
2.1. Va precisato che la Corte d'appello, nel disattendere la doglianza formulata dal ricorrente nel corso del giudizio di merito, si è integralmente richiamata all'approdo cui è giunto il tribunale secondo il quale, essendo pacifico che l'opera Terminal nel suo complesso rientrava fra quelle necessitanti la valutazione di impatto ambientale, l'isola artificiale non era stata mai compresa nei decreti di valutazione di impatto ambientale sino ad allora ottenuti, con la conseguenza che essa doveva essere sottoposta ad autonoma valutazione per la sua dimensione, collocazione e natura, in quanto incideva nell'ambiente marino antistante il delta del Po a poche centinaia di metri dallo scanno di Boccasette sicchè era richiesta una nuova valutazione da parte della competente commissione ministeriale per la valutazione dell'impatto ambientale e una integrazione del parere di compatibilità ambientale di competenza del ministro. Infatti, per le dimensioni e la posizione dell'opera (manufatto di 110 x 45 in a 600 in dalla costa), l'isola artificiale aveva necessità di valutazione di impatto ambientale in quanto realizzava modificazioni qualitative o quantitative di rilevante consistenza rispetto all'originario progetto, rivestendo la stessa, nella sua materialità, potenzialità impattanti l'ambiente, tenuto conto della delicatezza della zona interessata dai lavori e delle non trascurabili dimensioni dell'opera.
Il ricorrente, oltre a non prendere una specifica posizione rispetto alla ratio decidendi, si limita ad affermare che il giudice di secondo grado non avrebbe scrutinato la principale obiezione mossa nei confronti della prima sentenza, ossia l'assenza di motivazione circa il fatto che si potesse ritenere configurato il reato nonostante l'oggetto materiale della condotta non ricadesse su un bene paesaggistico, non potendosi considerare tale il mare territoriale, quale "luogo fisico" di realizzazione dell'opera (=l'isola artificiale).
Siffatta impostazione appare tuttavia "miope" rispetto alla contestazione e alle conclusioni cui sono giunti, sulla base di essa e della precedente premessa, i giudici del merito.
Va ricordato, a tale proposito, come il tribunale abbia correttamente escluso che il mare territoriale potesse essere considerato, agli effetti della legge penale, un bene paesaggistico sul rilievo che esso non rientra tra le aree di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142, che cataloga i beni paesaggistici considerati tali ope legis (D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 134, comma 1, lett. b)), sicchè una volta che si registri la non inclusione nel catalogo delle aree di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 134, comma 1, lett. a) o lett. c), (che fornisce la definizione dei beni paesaggistici), si deve ritenere che il mare territoriale, agli effetti della legge penale, sia sottratto alla qualifica di bene paesaggistico ed una diversa interpretazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, attribuita alla nozione "bene paesaggistico", utilizzata dal legislatore per tipizzare il modello legale di reato ("chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici è punito ..."), sarebbe non consentita in quanto analogica e pertanto contraria al principio di stretta legalità che governa la norma penale perchè "in malam partem".
Pertanto, il mare territoriale è, agli effetti della legge penale, bene paesaggistico solo se individuato a termini D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 136, e sottoposto a tutela dai piani paesaggistici previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 143 e 156, come avviene, ad esempio, nel caso del piano paesaggistico della Regione autonoma Sardegna che all'art. 39, comma 4, "riconosce il mare territoriale, per la sua stretta interrelazione con le aree tutelate ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 142 e 143, di primario interesse paesaggistico e ne fa oggetto di tutela".
In realtà una concezione realistica e, per certi aspetti, implicita del mare territoriale consiglierebbe una futura ed esplicita inclusione dello stesso nel novero delle aree tutelate ipso iure dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142.
Ciò precisato, l'obiezione del ricorrente, proprio perchè riduttiva, non considera che, nel caso di specie, il bene paesaggistico attinto dalla condotta delittuosa, in considerazione di lavori (realizzazione dell'isola artificiale) eseguiti senza la prescritta autorizzazione, non è il mare territoriale in quanto tale, ma i beni paesaggistici comprendenti aree demaniali marittime e porzioni di mare territoriale nonchè aree naturali protette (ZPS, ZSC e SIC) sui quali impattavano i lavori di realizzazione dell'isola tanto da necessitare della valutazione di impatto ambientale in quanto l'opera realizzava modificazioni qualitative o quantitative di rilevante consistenza rispetto all'originario progetto, rivestendo la realizzazione dell'opera, nella sua materialità, potenzialità impattanti l'ambiente, tenuto conto della delicatezza della zona interessata dai lavori e delle non trascurabili dimensioni dell'opera.
2.2. La giurisprudenza amministrativa ha opportunamente chiarito che, nel corso del procedimento riguardante la valutazione di impatto ambientale, quando vi è una istanza volta alla realizzazione di un impianto su un tratto di mare prospiciente un'area sottoposta a vincolo, indubbiamente convergono tanto i poteri attribuiti dalla legge ai fini della valutazione dell'impatto ambientale, quanto quelli riguardanti la gestione dei vincoli paesaggistici. Infatti, sotto un profilo di carattere generale, il Ministero per i beni culturali ed ambientali, nel corso del procedimento di V.I.A., può e deve valutare ogni conseguenza, diretta nella sua fruibilità collettiva e nella percezione visiva dei valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili. In tale ambito valutativo, infatti, il paesaggio, quale bene potenzialmente pregiudicato dalla realizzazione di opere di rilevante impatto ambientale, si manifesta in una proiezione spaziale più ampia di quella riveniente dalla sua semplice perimetrazione fisica consentita dalle indicazioni contenute nel decreto di vincolo; ai fini della valutazione dell'impatto ambientale il paesaggio si manifesta quale componente qualificata ed essenziale dell'ambiente, nella lata accezione che di tale bene giuridico ha fornito l'evoluzione giurisprudenziale, anche costituzionale (Corte Cost. 14 novembre 2007, n. 378). Ne consegue che, in sede di valutazione di impatto ambientale, il Ministero per i beni culturali ed ambientali, nell'espletamento dei propri compiti istituzionali, deve avere riguardo ad "una proiezione spaziale più ampia" rispetto alle aree specificamente sottoposte al vincolo paesaggistico: pertanto, non rileva, in siffatti casi, la "perimetrazione" del vincolo paesaggistico in sè e per sè considerato, ma quella di ogni componente dell'ambiente in grado di evidenziare ogni possibile pregiudizio che l'esecuzione dell'opera potrebbe causare sull'ambiente (da intendere unitariamente come biosfera, per tutte le sue componenti riguardanti il territorio e tutto ciò che rientri nella sovranità dello Stato) ed al paesaggio. D'altra parte, ciò corrisponde a intuibili ragioni logiche prima ancora che giuridiche, se si pensa che la procedura di VIA riguarda opere particolarmente importanti sul piano dell'impatto ambientale e visivo, le quali potrebbero negativamente incidere sui valori paesaggistici anche se poste a notevole distanza dai territori vincolati. L'apprezzamento in ordine alla loro compatibilità ambientale deve quindi giocoforza coinvolgere, anche a livello paesaggistico, gli effetti anche indiretti di possibile incisione del bene-paesaggio, con una valutazione di tipo sostanzialistico, estesa ad ogni ambito territoriale significativo sul piano paesaggistico e naturalistico che potrebbe subirne pregiudizio, anche se posto a distanza dall'area di localizzazione dell'intervento (Cons. Stato, sez. 6, n. 1674 del 2013).
Ne consegue che, quando è richiesta, come nel caso in esame, una valutazione di impatto ambientale, il bene paesaggistico, posto in pericolo dalla condotta esecutiva di opere non autorizzate, non va individuato secondo un criterio di perimetrazione fisica, nel senso che non è necessariamente e soltanto il bene, oggetto materiale del reato e cioè quello sul quale cade l'attività fisica del reo, ma qualunque bene paesaggistico che, in via diretta o indiretta, possa subire pregiudizio dall'esecuzione dei lavori non autorizzati, con la conseguenza che, in tal caso, le autorità preposte alla tutela del vincolo devono rimuovere il limite legale all'esercizio del diritto, configurandosi, in caso diverso ossia in assenza della prescritta autorizzazione, l'integrazione della fattispecie incriminatrice D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 181.
Nel caso di specie, va ribadito che l'isola artificiale, tenuto conto della delicatezza della zona interessata dai lavori e delle non trascurabili dimensioni dell'opera, aveva necessità di valutazione di impatto ambientale in quanto realizzava modificazioni qualitative/quantitative di rilevante consistenza rispetto all'originario progetto, rivestendo la stessa, nella sua materialità, potenzialità impattanti l'ambiente circostante, caratterizzato dalla presenza di beni paesaggistici posti in pericolo ed addirittura danneggiati dall'esecuzione di opere non autorizzate, sicchè è su tali beni (aree demaniali ed aree soggette a speciale protezione), che ha inciso il comportamento criminoso realizzato pacificamente senza alcuna autorizzazione ed integrante pienamente il fatto di reato così come contestato e ritenuto in sentenza.
3. Anche i restanti (terzo, quarto e quinto) motivi di gravame, in quanto tra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
Essi sono infondati.
Anche sotto tale specifico profilo, la Corte territoriale ha richiamato, per relationem, la sentenza di primo grado la quale -
dopo aver precisato che il danneggiamento è avvenuto in conseguenza dei lavori di realizzazione dell'isola artificiale e del versamento di oltre metà della sabbia contenuta nell'isola artificiale, a causa della poca stabilità della struttura e per aver ritardato o omesso l'effettuazione delle operazioni di messa in sicurezza - ha ritenuto, con logica ed adeguata motivazione, che l'elemento oggettivo del reato fosse senza dubbio configurato a causa dello sversamento di 700 m3 di sabbia non conforme, produttivo di un danno all'ambiente in quanto, come risultato anche dagli accertamenti tecnici e dagli esami testimoniali, la realizzazione dell'isola artificiale ha provocato intorbidamento delle acque e disturbo della quiete, alterazioni delle correnti prima che fosse disposto il sequestro, con interferenza sull'ambiente marino di lavori che hanno coinvolto diverse navi e mosso il fondo sabbioso.
Il rilievo del ricorrente, secondo il quale, tale condotta sarebbe non sussumibile nella fattispecie astratta prevista dalla norma incriminatrice è priva di fondamento posto che si ha deterioramento di una cosa o di un bene, integrandosi una delle condotte del reato di danneggiamento, quando la capacità della cosa a soddisfare i bisogni umani o l'idoneità di essa di rispettare la sua naturale destinazione risulta ridotta, venendone compromessa la funzionalità, circostanze che i giudici del merito hanno ritenuto ampiamente configurate mediante un accertamento di fatto che, congruamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità.
4. Neppure il reato di danneggiamento potrebbe ritenersi non configurabile per effetto dell'entrata in vigore del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, che ha modificato, con l'art. 2, comma 1, lett. l), l'art. 635 c.p., comma 1, che ora punisce "chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall'art. 331 (...)" mentre, al comma 2, contempla ipotesi autonome di reato, laddove dispone che, alla stessa pena prevista dal comma 1, soggiace chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le categorie di beni già previste nella precedente formulazione della norma.
Pertanto, vi è continuità del tipo di illecito tra quanto originariamente contestato al ricorrente e lo ius superveniens, nel senso che, immutati gli altri elementi del fatto tipico, talune circostanze aggravanti (nel caso specifico, l'aver commesso il fatto su beni esposti per necessità, consuetudine e destinazione alla pubblica fede nonchè con l'aver commesso il fatto su beni destinati al pubblico servizio e utilità con riferimento alle aree del demanio marittimo e alla zona di mare in area naturale protetta da vincoli ambientali e paesaggistici), pur costituendo ora elementi costitutivi del reato (art. 635 c.p., comma 2), rientrano nel modello legale del tipo di illecito sia con riferimento alla previgente formulazione della fattispecie incriminatrice sia con riferimento all'attuale formulazione.
Peraltro, rispetto alla formula terminativa del giudizio ("fatto non costituisce reato"), le disposizioni ex lege n. 7 del 2016 mai potrebbero essere applicate al caso di specie.
Infatti, il D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 4, comma 1, lett. c), prevede che "soggiace alla sanzione pecuniaria civile da Euro cento a Euro ottomila (...) chi distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui, al di fuori dei casi di cui agli artt. 635, 635-bis, 635-ter, 635-quater e 635-
quinquies c.p.", con la conseguenza che il fatto originariamente contestato, qualora privo di rilevanza penale perchè depenalizzato, costituirebbe comunque un illecito extrapenale.
Il D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 12, comma 1, regolando il regime transitorio, chiarisce, che "le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili".
Quantunque con riferimento agli illeciti amministrativi (mentre nel caso di specie si è invece al cospetto di sanzioni pecuniarie civili), le Sezioni Unite Campagne Rudie, prendendo precisa posizione tra quanto affermato dalle Sezioni Unite Mazza (Sez. U, n. 7327 del 16/03/1994) e le Sezioni Unite Li Calzi (Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 2005), hanno definitivamente chiarito che - anche quando il fatto non è previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo - il giudice non ha l'obbligo di trasmettere gli atti all'autorità amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo qualora la legge di depenalizzazione non preveda norme transitorie analoghe a quelle di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 40 e 41, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione (Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012, Campagne Rudie, Rv. 252694).
Nel caso di specie, il D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 12 prevede una disposizione simile alla L. n. 689 del 1981, art. 40, ma coerentemente non contempla una disposizione analoga alla L. n. 689 del 1981, art. 41, dovendosi applicare sanzioni pecuniarie di tipo e natura diverse da quelle che puniscono l'illecito amministrativo.
Ne consegue che - nell'ipotesi in cui, come nella specie, la legge di depenalizzazione preveda a carico dell'imputato obblighi accessori e sanzioni per fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge di depenalizzazione (D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 12) -
l'assoluzione con la formula "il fatto non costituisce reato", per difetto dell'elemento soggettivo, è più favorevole rispetto alla formula assolutoria "perchè il fatto non è preveduto dalla legge come reato" sicchè, qualora l'imputato sia stato assolto in primo grado con la prima formula, il giudice dell'impugnazione non può proscioglierlo - intervenuta nelle more la depenalizzazione degli illeciti e in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero - con la formula "perchè il fatto non è preveduto dalla legge come reato" perchè, in tal caso, il mutamento della formula si risolverebbe in una reformatio in peius non consentita, facendo residuare l'applicabilità nei confronti dell'imputato delle disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili, precluse dall'assoluzione "perchè il fatto non costituisce reato" in quanto il D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 3, nel disciplinare la responsabilità civile per gli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie, chiarisce che i fatti previsti dall'art. 4, esclusivamente se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita.
Siccome la prevalenza di una formula assolutoria su un'altra va valutata in concreto, ossia sul piano delle conseguenze pratiche e attuali della pronunzia con riferimento alle potenziali interferenze giuridiche rilevanti per l'imputato, la sentenza impugnata non sarebbe soggetta ad annullamento neppure per effetto della depenalizzazione dell'illecito, nel caso di specie comunque non verificatasi.
5. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2016.
Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2016