Cass. Sez. III n. 29070 del 9 luglio 2013 (Ud. 8 mag. 2013)
Pres. Squassoni Est. Mulliri Ric. Alagna
Beni Culturali. Appartenenza allo Stato e accertamento dell'interesse culturale

Ove si tratti di beni appartenenti allo Stato, non è richiesto l'accertamento del cosiddetto interesse culturale (né che i  medesimi siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo)  essendo sufficiente che la "culturalità" sia desumibile dalle caratteristiche del bene ed essendo sufficiente un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall'autorità giudiziaria.

RITENUTO IN FATTO

1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato - Con la sentenza impugnata, la Corte d'appello ha confermato la condanna inflitta al ricorrente per violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 176 perchè lo stesso si era impossessato di beni culturali rientranti nel cit.

D.Lgs., art. 10, appartenenti allo Stato. Si trattava, detto in breve, di un puntale ed un collo di anfora di tipo romano o greco, di frammenti di terracotta di produzione punica, frammenti di mosaico, frammenti metallici e 372 reperti, numismatici e metallici, in bronzo, argento ed oro.

2. Motivi del ricorso - Avverso tale decisione, il condannato ha proposto ricorso, tramite difensore, deducendo:

1) l'avvenuta prescrizione del reato che, secondo il ricorrente, per reati con pena inferiore a cinque anni, dovrebbe essere di 6 anni e decorrere dal 21.12.05, data della perquisizione e, quindi, dell'accertamento;

2) violazione di legge per sua erronea applicazione dal momento che:

- manca una dichiarazione ex D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 13 di valore storico ed archeologico dei beni sequestrati;

- l'all. A) D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 2 decies, introdotto dal D.Lgs. n. 109 del 2005, non comprende, tra le collezioni di interesse storico e numismatico, quelle aventi ad oggetto monete antiche e moderne di modesto valore o ripetitive, come è il caso in esame;

- questa S.C., con sentenza 9470/99, ha escluso che la condotta in esame si possa realizzare con qualsiasi oggetto proveniente dall'antichità;

3) vizio di motivazione perchè la Corte attribuisce la illiceità della condotta all'imputato perchè i beni provenivano da una condotta illegittima di scavo quando, però, il reato di ricettazione è stato escluso ed il reato ascritto all' A. non è quello di scavo clandestino bensì di impossessamento ex D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 176. Si ricorda, inoltre, che le monete rinvenute non hanno alcuna rilevanza normativa come attestato anche dalla consulenza della dr.ssa M. che aveva indotto il P.M. a chieder l'archiviazione del procedimento.

Il ricorrente conclude invocando l'annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Motivi della decisione - il ricorso è infondato.

3.1. I rilievi svolti nel primo motivo allo scopo di sostenere la sopraggiunta estinzione per prescrizione del reato ipotizzato, non sono corretti.

Ed infatti, è ben vero che il reato punito dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 176 si prescrive ordinariamente nel termine di 6 anni ma è anche vero che detto termine è stato interrotto con il decreto di citazione del P.M. del 21.6.07. Per l'effetto, esso è ricominciato a decorrere ma, non potendo comunque superare il limite di cui all'art. 161 c.p.p., si estingue dopo 7 anni e 6 mesi dall'inizio, 21.12.05 (data dell'accertamento) e, quindi, il 21.6.13.

Peraltro - visto che la questione della estinzione della punibilità penale della presente fattispecie viene evocata al fine di ottenere la revoca della confisca - è appena il caso di soggiungere che è stato già stato precisato da questa S.C. (sez. 3, 3.2.09, Raffaele, rv. 244102) che, anche nella eventualità in cui il procedimento penale avente ad oggetto beni d'interesse artistico, storico o archeologico sia stato definito con archiviazione, "questi ultimi devono essere restituiti allo Stato, non soltanto, in caso di positiva verifica del loro "interesse culturale", ma anche, nel caso in cui, risoltasi negativamente detta verifica, il detentore non fornisca prova della legittimità della detenzione, in quanto il giudizio d'infondatezza della notizia di reato non impedisce l'operatività della presunzione della loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, ovvero al demanio pubblico".

Come meglio si preciserà in prosieguo, è da escludere che il ricorrente abbia fornito prova di una legittimità della sua detenzione.

3.2. Il principio di diritto appena enunciato, sgombra il campo da dubbi soverchi circa la validità della pronuncia qui in discussione cui i giudici sono pervenuti con motivazione specifica e corretta che ha bene smentito l'assunto svolto dal ricorrente nel secondo motivo.

Deve, infatti, osservarsi che tutte le questioni in esso sollevate sono già state esaminate in primo grado, riproposte dinanzi alla Corte d'appello e, da quest'ultima, argomentatamente disattese, sia pure, con richiamo ricettizio alla prima sentenza ove diffusamente (ff. 12 e 13) era stato affrontato il tema della necessità o meno di una dichiarazione ex D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 13.

Ricalcando, infatti, enunciazioni conformi della giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito sottolineano che "del tutto inconducente appare il riferimento fatto dallo stesso imputato alla presunta necessità - al fine di poter acquistare la qualità di bene culturale - della dichiarazione prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 13 posto che.. tale dichiarazione riguarda i beni appartenenti a soggetti diversi dallo Stato (lett." a") ovvero le collezioni legittimamente formate che presentino determinate caratteristiche e, dunque, situazioni affatto diverse da quella in esame".

La giustezza del discorso trova conferma in plurime decisioni di questa stessa sezione che (disattendendo l'unico ed alquanto risalente, precedente di segno opposto - Sez. 3, 27.5.04, Mugnaini, Rv. 229491) ha, invece, più volte, ed anche di recente, (sez. 3, 7.7.11, Saccone, rv. 251295; sez. 3, 28.6.07, Signorella, rv. 237403; sez. 3, 24.10.06, Palombo, Rv. 235410) - e proprio ai fini della valutazione del reato qui contestato - affermato che, ove si tratti di beni appartenenti allo Stato, non è richiesto l'accertamento del cosiddetto interesse culturale (nè che i medesimi siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo), "essendo sufficiente che la "culturalità" sia desumibile dalle caratteristiche del bene" essendo sufficiente "un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall'autorità giudiziaria" (rv. 237403 dt).

Il presupposto logico di tali asserzioni risiede nel principio secondo cui i reperti archeologici, a mente del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 91, "appartengono allo Stato" "da chiunque ritrovati", salva la prova, fornita dal detentore, di averli legittimamente acquisiti.

Ciò è tanto vero che l'appartenenza allo Stato delle cose di interesse archeologico rinvenute fortuitamente, ovvero a seguito di ricerche od opere in genere, era stata affermata già in una legge del 1909 (L. 20 giugno 1909, n. 364) e, successivamente, in epoca relativamente recente, anche questa S.C. (sez. 2, 22 giugno 1995, Dai Lago, rv. 203105) aveva espresso il medesimo concetto - ribadito anche in anni prossimi (sez. 3, 24.10.06, palombo, rv. 235410) secondo cui "i beni di cui al cit. D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 10 appartengono allo Stato sulla base del semplice accertamento del loro interesse culturale, salvo che il possessore non fornisca la prova della legittima proprietà degli stessi".

Irrilevante, quindi, si appalesa il richiamo, da parte del ricorrente, ad una sentenza di questa Corte del 1999 (sez. 3, 27.4.99, Cipolla, rv. 214324) ove si enunciava un principio generale relativo al fatto che esiste un sistema di tutela graduata dei beni (a seconda della loro natura) perchè ciò non è incompatibile con il concetto fin qui espresso secondo cui, per l'appunto, la tutela dei beni archeologici ha una soglia particolarmente elevata proprio in considerazione del valore storico che essi rappresentano.

Nè vi è dubbio che gran parte dei beni dei quali l' A. è stato trovato in possesso siano riconducibili in tale ambito.

E', del resto, lo stesso imputato a tentare una differenziazione solo con riguardo alle monete assumendo - attraverso la evocazione dei disposto di cui all'all. A), D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 2 decies - che si sia al cospetto di monete di scarso valore e ripetitive.

L'argomento, di natura fattuale, non può che essere apprezzato dal giudice di merito che, a riguardo, si è, però, espresso in termini chiari e basati su precise emergenze processuali osservando che le asserite caratteristiche di modestia delle monete "risultano nella specie escluse alla stregua di quanto emerge dalla relazione tecnica della dr.ssa M.". Il tutto, non senza ribadire che la disciplina invocata dal ricorrente avrebbe, eventualmente, escluso obblighi di denunzia per beni detenuti legittimamente ma non avrebbe, di certo, inciso sulla "condotta di impossessamento di reperti appartenenti allo Stato, a seguito di una illegittima attività di scavo quali appunto quelli in esame".

3.3. Le ragioni illustrate nel trattare i motivi che precedono rendono quasi superfluo ribadire, a questo punto, la (quasi manifesta) infondatezza della tesi della sussistenza di un vizio di motivazione nel provvedimento impugnato dal momento che sono, appunto, gli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 176 quelli che i giudici di merito hanno bene lumeggiato, e documentatamente illustrato, anche attraverso la evocazione di elementi fattuali indiziariamente molto gravi come il rinvenimento, in possesso dell'imputato, di un metal detector.

Irrilevanti sono, infine, il richiamo, dell'imputato, ad una consulenza (quella della dr.ssa M.) - di cui nulla si allega, e fermo restando che non competerebbe, comunque, a questa S.C. il suo apprezzamento - nonchè alla circostanza che, in un primo tempo, grazie a tale consulenza, il P.M. avrebbe avanzato una richiesta di archiviazione del procedimento che qui, comunque, non rileva visto che essa è stata certamente superata (ed assorbita) da quella di rinvio a giudizio da cui sono scaturiti il presente procedimento e le relative sentenza di condanna (sicuramente da ribadire attraverso la reiezione di tutte le censure mosse).

Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Visti l'art. 615 c.p.p. e ss.;
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 8 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2013