Consiglio di Stato Sez. VI n.2507 del 26 maggio 2017
Beni Culturali.L’atto che impone un vincolo non può essere assimilato ad un atto di natura regolamentare

L’atto che impone un vincolo (archeologico, artistico, storico, ecc.) non può essere assimilato ad un atto di natura regolamentare: con esso non sono introdotte norme giuridiche, ma si rende applicabile la disciplina prevista dalla legge ai beni che ne costituiscono l’oggetto. L’atto che impone un tale vincolo è immediatamente lesivo ed impugnabile, anche quando si tratta di un atto che conforma una pluralità di beni. Quando l’atto di imposizione del vincolo è divenuto inoppugnabile (per la mancata tempestiva impugnazione del soggetto legittimato), la sua legittimità non può essere posta in contestazione, in occasione della impugnazione di provvedimenti ulteriori, basati sulla esistenza del vincolo.

Pubblicato il 26/05/2017

N. 02507/2017REG.PROV.COLL.

N. 05774/2010 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5774 del 2010, proposto dal signor Luciano Contreras, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Basile, con domicilio eletto presso lo studio della signora Antonia De Angelis in Roma, via Portuense, n. 104;

contro

Il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
il Comune di Pozzuoli, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Campania, Sede di Napoli, Sez. VI n. 2370/2009, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i beni e le attività culturali e della Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 maggio 2017 il pres. Luigi Maruotti e uditi per le parti l’avvocato Orazio Abbamonte, in dichiarata sostituzione dell'avvocato Giovanni Basile, e l’avvocato dello Stato Maria Vittoria Lumetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con una istanza proposta in data 16 maggio 1995 ai sensi della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, l’appellante ha chiesto il condono edilizio di un edificio realizzato senza titolo su un’area (di proprietà prima dell’Opera nazionale combattenti e poi della Regione Campania), sita nel territorio del Comune di Pozzuoli.

Il Comune di Pozzuoli ha comunicato al richiedente il parere negativo della Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta con la nota n. 1813 del 24 gennaio 2005.

2. Con il ricorso n. 3611 del 2005 (proposto al TAR per la Campania, Sede di Napoli), l’appellante ha impugnato la comunicazione del Comune ed il presupposto parere negativo statale, chiedendone l’annullamento, e poi con motivi aggiunti ha impugnato anche il decreto del Ministro della pubblica istruzione di data 24 settembre 1947, che ha imposto il vincolo indiretto di inedificabilità assoluta sul suolo in questione, e l’atto n. 16130 del 24 maggio 2005, con cui la Soprintendenza ha respinto la richiesta di riesame del parere negativo n. 1813 del 24 gennaio 2005.

4. Con la sentenza impugnata, il TAR ha respinto il ricorso principale e i motivi aggiunti ed ha condannato l’interessato al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Amministrazione statale, liquidate in euro 2.500.

5. Con l’appello in esame, l’interessato ha chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, siano accolti il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta, i quali hanno chiesto che l’appello sia respinto.

All’udienza dell’11 maggio 2017, la causa è stata trattenuta per la decisione.

6. L’atto di appello:

- sino a p. 10, ha analiticamente ricostruito i fatti che hanno condotto al secondo grado del giudizio;

- da p. 10 a p. 31, contiene quattro articolate censure, con cui sono state riproposte le doglianze di primo grado, respinte dal TAR.

7. Col primo motivo, è dedotta la violazione dell’art. 7 e ss. della legge n. 241 del 1990, nonché la presenza di vizi nella sentenza appellata, ed è stato chiesto l’accoglimento della censura sulla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, proposta col ricorso principale di primo grado.

Ad avviso dell’appellante, non rileva il fatto – rilevato dal TAR - che gli atti impugnati siano stati emessi all’esito di un procedimento attivato ad istanza di parte.

8. Ritiene la Sezione che la censura così sintetizzata vada respinta.

Va condivisa la statuizione del TAR, sulla mancata necessità della comunicazione, trattandosi di un procedimento unitario ad istanza di parte, le cui fasi sono state predeterminate dalla legge: non occorreva formalmente consentire la formulazione di osservazioni, dopo la proposizione della istanza.

Va inoltre condivisa l’ulteriore statuizione del TAR, che ha evidenziato come tutti i pareri della Soprintendenza avevano un contenuto vincolato, ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985, per il quale «le opere di cui all’art. 31 non sono suscettibili di sanatoria» quando siano state realizzate in violazione di un vincolo di in edificabilità, imposto prima della esecuzione.

Infatti, il decreto ministeriale ha imposto un vincolo indiretto assoluto di inedificabilità, ciò che ha precluso ogni possibile valutazione della Soprintendenza, diversa da quella sulla reiezione della istanza di condono.

Inoltre, l’infondatezza della formulata censura emerge anche dall’esame della normativa vigente alle date di emanazione degli atti impugnati col ricorso principale.

Infatti, a tali date, nessuna disposizione di legge aveva previsto il dovere dell’Amministrazione di comunicare al richiedente, nei procedimenti ad istanza di parte, le ragioni ostative all’accoglimento della domanda, prima della formale emanazione di un provvedimento negativo.

Tale regola è stata innovativamente introdotta nel sistema con la legge n. 15 del 2005 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 21 febbraio 2005), che ha inserito nella legge n. 241 del 1990 l’art. 10 bis, che nella specie risulta dunque irrilevante, perché entrato in vigore l’8 marzo 2005, dopo le date di emanazione degli atti impugnati col ricorso principale.

9. Col terzo motivo, è stata lamentata la presenza di vari errori in iudicando e la violazione delle disposizioni succedutesi nel tempo in tema di vincoli archeologici (gli artt. 20 e 21 della legge n. 1089 del 1939; l’art. 49 del t.u. n. 490 del 1999 e l’art. 45 del codice n. 42 del 2004).

L’appellante ha dedotto che il TAR avrebbe erroneamente dichiarato la tardività della impugnazione – avvenuta con i motivi aggiunti - del decreto di data 24 settembre 1947, con cui il Ministero della pubblica istruzione ha imposto sull’area in questione il vincolo di in edificabilità assoluto.

Ad avviso dell’appellante, le censure non sarebbero tardive, poiché:

- «gli atti regolamentari non sono immediatamente impugnabili»;

- l’interesse ad ottenere l’annullamento del decreto impositivo del vincolo sarebbe sorto unicamente a seguito delle determinazioni negative sulla istanza di condono e comunque a seguito dell’atto con cui la Soprintendenza ha respinto la richiesta di riesame del precedente parere negativo.

Oltre a censurare la statuizione del TAR sulla tardività delle censure rivolte contro il decreto ministeriale del 24 settembre 1947, l’interessata ha riproposto le censure complessivamente formulate contro il medesimo decreto e contro gli atti della Soprintendenza, deducendo che:

- la Soprintendenza avrebbe dovuto accogliere l’istanza volta alla modifica del vincolo a suo tempo imposto, per la sua ‘esorbitanza’, per l’errata percezione della realtà ‘al momento della imposizione’ e per l’ampia ‘trasformazione edilizia dei luoghi, ad iniziativa dei privati e della mano pubblica’;

- sarebbero contraddittorie le osservazioni sul fatto che l’ex lago di Licola sia stato bonificato nel 1922, prima della imposizione del vincolo, e che i terreni furono dapprima assegnati come aree agricole all’ex Opera nazionale combattenti, poiché l’esigenza di proteggere i terreni attigui al lago, con il vincolo di in edificabilità, non era più esistente;

- sarebbe ‘abnorme’ - e anche non indicata con precisione - l’estensione del vincolo, per circa 450 ettari ed un decimo del territorio del Comune di Pozzuoli, anche perché il decreto ministeriale intendeva individuare l’Acropoli dell’antica Cuma come obiettivo di tutela;

- sarebbero incomprensibili le ragioni per le quali è stata individuata – anche con violazione del principio di proporzionalità - una così vasta zona di rispetto, indicando ‘pedissequamente’ una serie di particelle, poste anche a distanza notevole dalla medesima Acropoli;

- sarebbe ‘stereotipata’ la motivazione posta a base del decreto ministeriale, sulla necessità di tutelare «la prospettiva e la luce» del complesso monumentale e di non alterare «le condizioni di ambiente e di decoro» non più esistente all’epoca di imposizione del vincolo, anche perché non si sarebbe tenuto conto degli interessi coinvolti;

- anche gli atti di diniego di riesame sarebbero motivati apoditticamente, perché non si potrebbe considerare sufficiente il richiamo alle esigenze di tutela poste a base del decreto ministeriale del 24 settembre 1947;

- in altre occasioni, la Soprintendenza avrebbe autorizzato deroghe per la sanatoria di edifici realizzati nella zona, tanto da far poter ritenere un ‘mero arbitrio’ i suoi atti.

10. Ritiene la Sezione che le censure così riassunte siano tutte infondate e vadano respinte.

10.1. Va confermata la statuizione sulla tardività della impugnazione del decreto di data 24 settembre 1947, con cui il Ministero della pubblica istruzione ha imposto sull’area in questione il vincolo di inedificabilità.

Contrariamente a quanto è stato dedotto dall’appellante, l’atto che impone un vincolo (archeologico, artistico, storico, ecc.) non può essere assimilato ad un atto di natura regolamentare: con esso non sono introdotte norme giuridiche, ma si rende applicabile la disciplina prevista dalla legge ai beni che ne costituiscono l’oggetto.

L’atto che impone un tale vincolo è immediatamente lesivo ed impugnabile, anche quando si tratta di un atto che conforma una pluralità di beni.

Quando l’atto di imposizione del vincolo è divenuto inoppugnabile (per la mancata tempestiva impugnazione del soggetto legittimato), la sua legittimità non può essere posta in contestazione, in occasione della impugnazione di provvedimenti ulteriori, basati sulla esistenza del vincolo.

Tale principio rileva sia quando tali provvedimenti siano emessi nei confronti di coloro che risultavano già proprietari al momento della imposizione del vincolo, sia quando siano emessi nei confronti dei loro aventi causa sulla base di atti inter vivos o mortis causa.

Infatti, l’acquisto del bene da parte del subacquirente comporta il suo ingresso nella situazione giuridica nella quale si trovava il dante causa, ivi comprese le preclusioni di carattere processuale, derivanti dalla mancata impugnazione di atti rimasti inoppugnati (o che siano stati impugnati, con ricorsi non accolti).

Nella specie, il decreto del 24 settembre 1947 risulta notificato in data 14 dicembre 1947 all’Opera nazionale combattenti.

Pertanto, anche nei confronti dell’appellante rileva l’inoppugnabilità del decreto ministeriale del 1947, che non è venuta meno per il fatto che esso sia stato posto a base di successivi atti.

10.2. Le censure sono comunque anche infondate nel merito.

Dall’esame della documentazione acquisita emerge che:

- il decreto ministeriale del 24 settembre 1947 ha inteso tutelare – per il suo notevolissimo valore di «complesso archeologico monumentale di eccezionale importanza» – l’area circostante l’Acropoli della vecchia Cuma, con un «vincolo indiretto»;

- del tutto ragionevolmente, con chiarezza e con adeguata motivazione, il medesimo decreto ha inteso così salvaguardare l’integrità del complesso monumentale, con l’apposizione del vincolo su un’area analiticamente determinata, con l’indicazione delle particelle e dei relativi complessivi confini.

La legge n. 1089 del 1939 (così come poi il testo unico n. 490 del 1999 ed il codice n. 42 del 2004) ha attribuito all’Amministrazione il potere di vietare l’edificabilità anche di un’area estesa, per salvaguardare il decoro, la visibilità e il peculiare contesto ambientale nel quale si trova il bene archeologico da tutelare: la valutazione sulla sussistenza delle esigenze di salvaguardare un complesso monumentale rientra nell’ambito dei suoi poteri tecnico-discrezionali (Cons. Stato, Sez. IV, 13 marzo 1979, n. 199) ed è insindacabile in quanto tale, circa la determinazione dei terreni circostanti, da considerare come parte integrante e funzionale del complesso (Sez. VI, 23 maggio 2006, n. 3078; Sez. IV, 11 luglio 1969, n. 368).

Quando si tratti di un’area archeologica situata in cacumine elati montis (sia essa un castrum ovvero un’acropoli di epoca greco-romana), e da tale sommità siano dominati i terreni circostanti, ben può l’Amministrazione statale sottoporre a vincolo indiretto tali terreni (e, se del caso, l’antico sistema viario), per salvaguardare e lasciare inalterate quelle caratteristiche dei luoghi sui quali l’area archeologica si erge nella sua possenza.

Con riferimento al caso di specie, l’Amministrazione statale ha ben potuto dunque salvaguardare la visione non solo ‘dal basso’ della Acropoli di Cuma, ma anche quella ‘dall’alto’, dalla Acropoli sui luoghi circostanti, per consentire anche alle future generazioni di comprendere quale sia stata l’importanza dei luoghi in questione (la cui conservazione pressoché integrale, fino all’epoca degli abusi commessi, è dipesa anche dalle peculiarità della sua storia).

In altri termini, per salvaguardare «le condizioni di ambiente e di decoro» del sito archeologico, e come bene emerge dall’atto del 24 settembre 1947, l’Amministrazione a suo tempo ha ben potuto disporre il vincolo di inedificabilità, in connessione anche al cono visivo riferibile al punto più alto, per un’area sì estesa, ma giustificata proprio dalla peculiarità del bene da proteggere.

Dal momento che il decreto in questione ha mirato alla salvaguardia della Acropoli, risultano irrilevanti i richiami che hanno riguardato la precedente bonifica del lago di Licola.

Peraltro, proprio l’effettuazione dei lavori di bonifica, che hanno reso materialmente possibile l’antropizzazione dei luoghi, è stata ragionevolmente richiamata per ulteriormente evidenziare come l’imposizione del vincolo risultava viepiù opportuna per evitare lo stravolgimento dei luoghi.

Neppure risulta fondata la censura di difetto di motivazione per mancata valutazione degli interessi coinvolti.

A parte la sopra evidenziata diffusa motivazione sulla sussistenza di specifici e rilevantissime esigenze sotto il profilo archeologico, a suo tempo i beni in questione non risultavano di proprietà privata e avevano la univoca vocazione agricola: il fatto che poi siano stati alienati a privati, che abbiano ivi realizzato costruzioni abusive, non può retrospettivamente far ritenere inadeguata la motivazione dell’atto.

Quanto alla prospettata disparità di trattamento, per le ‘deroghe’ che sarebbero state in precedenza consentite, osserva la Sezione che la relativa deduzione – rivolta evidentemente avverso le determinazioni della Soprintendenza - risulta generica, perché non sono stati indicati specificamente i relativi casi, e comunque è anche infondata, poiché, nell’esercizio dei propri poteri tecnico-discrezionali, l’autorità preposta alla tutela del vincolo deve tenere conto delle peculiarità degli specifichi luoghi rispetto ai quali esercita i suoi poteri.

Anche se l’area risulta degradata, e anzi proprio perché l’area risulta degradata, è del tutto ragionevole un esercizio rigoroso dei poteri tecnico-discrezionali, volti a rimuovere gli abusi (e aventi anche l’obiettiva funzione, sia pure non esplicitata, di evitare che altri – stimolati dalla sanatoria degli abusi altrui – siano indotti a loro volta a violare la legge).

Neppure è configurabile una contraddittorietà con la dedotta realizzazione di opere pubbliche, poiché nessun confronto plausibile può essere effettuato tra la realizzazione abusiva di opere private e la realizzazione di opere pubbliche, avvenuta all’esito dei relativi procedimenti.

11. Col terzo motivo (connesso ad osservazioni secondo cui la Soprintendenza – in un ottica di favor per la sanatoria - avrebbe dovuto diversamente valutare la richiesta di riesame, perché le opere abusive sarebbero state realizzate senza conoscere il vincolo), l’appellante ha dedotto che il decreto ministeriale del 24 settembre 1947 non sarebbe stato trascritto e che dunque il vincolo non si dovrebbe considerare sussistente, non essendosi perfezionata la fattispecie prevista dall’art. 21 della legge n. 1089 del 1939.

12. La censura va respinta.

La sentenza impugnata ha dato atto della produzione (incontestata) della nota di trascrizione presso la Conservatoria delle ipoteche.

Si tratta di una statuizione, concernente la sussistenza di una circostanza di fatto, che non è stata oggetto di specifica contestazione neanche in questa sede, a parte la generica affermazione che la trascrizione non vi sarebbe stata.

Peraltro, dalla documentazione risulta che:

- il Ministero della pubblica istruzione ha chiesto la trascrizione dell’atto, con la nota prot. 1796 del settembre 1952;

- il Conservatore delle Ipoteche, Ufficio di Napoli, ha dato atto della trascrizione, avvenuta in data 9 settembre 1952, con l’atto n. 24188 del registro generale e n. 15528 del registro particolare.

13. Col quarto motivo, è lamentato che le determinazioni di ‘riesame negativo’ della Soprintendenza sarebbero illegittime, perché – in violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, nel frattempo entrato in vigore – la Soprintendenza non avrebbe comunicato preventivamente le ragioni di rigetto della istanza.

L’appellante ha richiamato molteplici precedenti giurisprudenziali, riguardanti la ratio dell’art. 10 bis e il suo ambito di applicazione.

Ritiene la Sezione che anche tale censura è infondata, per le seguenti considerazioni.

13.1. In primo luogo, il successivo atto negativo della Soprintendenza va considerato meramente confermativo del precedente parere.

Infatti, la Soprintendenza – con una nota sostanzialmente ‘di cortesia’ - ancora una volta ha dato atto dell’esistenza del vincolo disposto dal decreto ministeriale del 24 settembre 1947, negando la possibilità di esercitare una discrezionalità contrastante con le esigenze di tutela poste a sua base, ribadendo il contenuto del precedente parere negativo e considerando ‘illecita’ una sanatoria che avrebbe consentito il mantenimento delle ‘alterazioni ambientali’.

13.2. Peraltro, le censure proposte non risultano fondate e vanno respinte.

L’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento della sua istanza.

La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’, cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il contraddittorio da instaurare consente di valutare già in sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e che non proponga dunque ricorso.

L’art. 10 bis non si applica invece quando sia proposta una istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.

In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di effettuare una ulteriore valutazione della situazione di fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a sorpresa’.

Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità della precedente valutazione, non occorre dunque una ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato: l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione prevista dall’art. 10 bis, se intende respingerla perché ritiene immodificabile la precedente valutazione.

14. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.

La condanna al pagamento delle spese e degli onorari segue la soccombenza. Di essa è fatta liquidazione nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello n. 5774 del 2010.

Condanna l’appellante al pagamento di euro 5.000 (cinquemila) in favore delle appellate Amministrazioni statali, per spese ed onorari del secondo grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del giorno 11 maggio 2017, con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente, Estensore

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Francesco Mele, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere

Italo Volpe, Consigliere