Cass. Sez. III n. 44295 del 28 novembre 2007 (Ud 7 nov. 2007)
Pres. Postiglione Est. Lombardi Ric. P.M. in proc. Pellegrino
Rifiuti. Materiale di risulta da lavorazione del marmo

Il requisito della certezza ed effettività della riutilizzazione di materiale di risulta derivante dalla lavorazione del marmo non può ritenersi sussistente allorché i materiali residuati da una determinata lavorazione, di cui pertanto sussiste l'obbligo di disfarsi, siano stati accumulati per alcuni anni in palese violazione dell'art. 6, comma primo lett, m) n. 3), del D. Lvo n. 22-97, determinando, nel corso del tempo, la realizzazione di una discarica abusiva
Tali materiali non sono riconducibili nel novero delle terre e rocce da scavo direttamente utilizzate per reinterri o riempimenti (peraltro, il reimpiego di detti materiali, consentito dalla normativa attualmente vigente, deve avvenire, in ogni caso, previa valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell'art. 186 del D. L.vo n. 152-06, o di autorizzazione amministrativa ai sensi della normativa pregressa).
Egualmente non si palesa corretto il riferimento alla nozione di materie prime secondarie, di cui all'art. 181, comma tredici, del D. L.vo n. 152-06, in quanto queste ultime devono possedere, ai sensi del comma sei del predetto articolo, specifiche caratteristiche tecniche individuate da un apposito decreto ministeriale da emanarsi ovvero, in via transitoria, specificate dalla normativa secondaria vigente. Altrettanto errato si palesa il riferimento alla nozione di sottoprodotto di cui all'art. 183, comma primo lett. n), dello stesso decreto legislativo, richiedendosi anche dalla norma citata la certezza oggettiva del reimpiego del materiale costituente sottoprodotto, nel momento stesso della sua produzione, certezza che va esclusa in considerazione delle descritte modalità di accumulo per un lasso di tempo particolarmente rilevante

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale di Trapani in data 13 maggio 2005, ha assolto Pellegrino Mario dal reato di cui all’art. 51, commi primo, secondo e terzo, del D.L.vo n. 22/97 perché il fatto non sussiste.

Con la pronuncia di primo grado il Pellegrino era stato dichiarate colpevole del reato ascrittogli, perché quale legale rappresentante della S.p.A. Sud Marmi, esercente attività di taglio e lavorazione di blocchi di marmo, aveva depositato in modo incontrollato rifiuti speciali, costituiti pezzame e scarti derivanti dalla lavorazione del marmo, e realizzato così una discarica non autorizzata di rifiuti sulla quale aveva costruito in prosieguo di tempo due piazzali con copertura in aggregante.

Si è accertato in punto di fatto in termini univoci nei successivi gradi del giudizio di merito che l’azienda di cui è responsabile l’imputato aveva accumulato nel tempo, nella zona retrostante il capannone industriale, gli scarti della lavorazione del marmo in notevole quantità, tale da formare due aree sopraelevate circa dieci metri rispetto al piano di campagna, sulle quali erano stati realizzati due ampi piazzali ultimati nel primo semestre dell’anno 2000.

La sentenza di appello ha, invece, escluso in punto di fatto che successivamente a tale data l’imputato abbia proseguito l’attività di abbandono o deposito incontrollato dei predetti rifiuti, avendo stipulato un apposito contratto con una ditta specializzata per lo smaltimento dei residui della lavorazione del marino.

La sentenza ha, quindi, osservato in punto di diritto che il giudice di primo grado, nell’affermare la colpevolezza dell’imputato, aveva sostanzialmente disapplicato l’art. 14 della L. n. 178/2002, avendo ritenuto che l’interpretazione autentica della nozione di rifiuto contenuta in detta norma risulta in contrasto con l’art. 1 della direttiva europea 75/442/CEE, come sostituito dall’art. 1 della direttiva 91/156/CEE (attualmente sostituita dalla direttiva 2006/12/CE, che non contiene significative modificazioni della nozione di rifiuto); che, però, la direttiva comunitaria sui rifiuti non è self-executing e, pertanto, la natura dei materiali di cui alla contestazione doveva essere valutata alla luce della interpretazione normativa della nozione di rifiuto contenuto nella disposizione citata; che, pertanto, dal novero dei rifiuti devono essere esclusi i residui di produzione riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza pregiudizio per l’ambiente.

Si è, quindi, affermato, in sintesi, che alla luce del citato disposto non poteva attribuirsi natura di rifiuti agli scarti della lavorazione del marmo di cui alla contestazione, non essendovi prova che il detentore se ne fosse disfatto o avesse intenzione di disfarsene e risultando, invece, che detti materiali erano stati utilizzati per la realizzazione dei due piazzali, senza avere subito alcuna trasformazione preventiva e senza che vi fosse prova di un pregiudizio per l’ambiente.

Si è altresì osservato che, anche a seguito dell’abrogazione dell’art. 14 della L. n. 178/2002, disposta dall’art. 264 del D.L.vo 3 aprile 2006 n. 152, nel caso in esame doveva essere escluso che i predetti materiali rientrassero nella nozione di rifiuti speciali, non applicandosi, ai sensi dell’art. 181, comma 13, del D.L.vo n. 152/2006, la disciplina in materia di gestione dei rifiuti alle sostanze che, senza necessità di operazioni di trasformazione, presentino le caratteristiche di materie prime secondarie, allorché il detentore non se ne disfi, non abbia deciso e non abbia l’obbligo di disfarsene, ovvero, ai sensi dell’art. 183, comma primo, lett. n), del medesimo decreto legislativo, ai sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa produttrice, che pertanto non se ne è disfatta, né aveva l’intenzione o l’obbligo di disfarsene.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte territoriale, che la denuncia per violazione di legge e vizi della motivazione.

 

Motivi della decisione

Con un unico mezzo di annullamento la pubblica accusa ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 51 del D.L.vo n. 22/97, nonché la carenza e contraddittorietà della motivazione della sentenza.

Si deduce, in sintesi, che nel caso in esame la Corte territoriale ha erroneamente ravvisato nello sversamento continuativo sul suolo dei residui della lavorazione del marmo un’ipotesi di reimpiego degli stessi, qualificabile come attività produttiva e che, in ogni caso, il reimpiego dei residui di lavorazione, come la utilizzazione del sottoprodotto, prevista dall’art. 183, comma primo lett. n), del D.L.vo n. 152/06, deve avvenire senza pregiudizio per l’ambiente.

Si osserva, quindi, che l’attività posta in essere dall’imputato doveva correttamente essere qualificata quale smaltimento dei rifiuti, sia ai sensi dell’abrogato D.L.vo n. 22/97, che dell’art. 183, comma primo lett. g), del D.L.vo n. 152/06; che, secondo la previsione di carattere generale contenuta nell’art. 178 del decreto legislativo attualmente vigente, le operazioni di recupero e smaltimento dei rifiuti devono avvenire “senza danneggiare il paesaggio”, mentre nel caso in esame la sentenza di primo grado aveva evidenziato lo scempio paesaggistico provocato dal versamento di materiali di risulta fino alla realizzazione dei due terrapieni alti dieci metri, per il cui contenimento erano state costruiti due muraglioni in cemento armato di pari altezza, il tutto senza alcuna concessione edilizia o altro provvedimento autorizzatorio.

Si osserva, infine, che nell’ipotesi di reimpiego o riutilizzo di materiali l’attività deve avvenire non solo con modalità tali da non recare pregiudizio all’ambiente, ma deve altresì esplicarsi legalmente. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il reato ascritto all’imputato è estinto per prescrizione.

Emerge, invero, dall’accertamento dì fatto contenuto nella sentenza di appello che la gestione della discarica è cessata nel primo semestre dell’anno 2000 mediante la realizzazione di due piazzali e che successivamente a tale data non vi è stata prosecuzione dell’attività illecita di smaltimento dei rifiuti derivanti dalla lavorazione del marmo, sicché la prescrizione del reato si è verificata, ai sensi degli art. 157 n. 5) e 160 c.p., il 31 dicembre 2004, prima della stessa pronuncia del tribunale.

Tale accertamento di fatto, peraltro, non forma oggetto di impugnazione sotto alcun profilo da parte della pubblica accusa ricorrente e, pertanto, su di esso si è formato il giudicato.

Va altresì osservato che secondo l’indirizzo interpretativo assolutamente prevalente di questa Suprema Corte, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, i reati di realizzazione e di gestione di una discarica, in assenza della prescritta autorizzazione, possono realizzarsi solo in forma commissiva (cfr. sez. III, 8 giugno 2006 n. 31401, Boccabella, rv 234942; sez. III, 30 novembre 2006 n. 13456, Ciritti ed altro, rv 236327; sez. III, 200448402, Rigon ed altri, rv 230794) e, peraltro, nel caso in esame si palesa essere venuta meno la stessa esistenza della discarica a seguito della realizzazione dei predetti piazzali.

Per completezza di esame, poiché l’imputato è stato assolto con formula piena dalla Corte territoriale, deve essere inoltre esclusa, nel caso in esame, l’applicabilità dell’art. 129, comma secondo, c.p.p..

Orbene, ai fini che interessano tale valutazione, si deve rilevare che l’impugnazione del P.M. appare fondata.

Invero, la motivazione con la quale la sentenza impugnata ha escluso che i residui della lavorazione del marmo rientrino nel novero dei rifiuti non appare giuridicamente corretta.

Contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, infatti, per escludere che i residui di produzione abbiano natura di rifiuti, nel caso di reimpiego ai sensi dell’art. 14, comma secondo, della L. n. 178/2002, successiva all’epoca del fatto, ma eventualmente applicabile quale interpretazione autentica della nozione di rifiuto, occorre la prova positiva che la riutilizzazione degli stessi, nel medesimo, analogo o diverso ciclo produttivo, avvenga senza pregiudizio per l’ambiente (cfr. sez. III, 200430127, Piacentino, rv 229467 secondo la quale l’inesistenza di tale pregiudizio deve essere accertata mediante gli appositi “test di cessione”), mentre la sentenza di merito si è sostanzialmente limitata ad affermare la carenza di prove circa tale pregiudizio.

Inoltre, la disposizione citata richiede, per escludere la qualità di rifiuto, che la riutilizzazione nel medesimo o in un analogo o diverso ciclo produttivo delle sostanze sia oggettivamente certa ed effettiva.

Orbene, il citato requisito della certezza ed effettività della riutilizzazione non può ritenersi sussistente allorché i materiali residuati da una determinata lavorazione, di cui pertanto sussiste l’obbligo di disfarsi, siano stati accumulati per alcuni anni, secondo quanto accertato dai giudici di merito, in palese violazione dell’art. 6, comma primo lett. m) n. 3), del D.L.vo n. 22/97, determinando, nel corso del tempo, la realizzazione di una discarica abusiva, con la conseguente configurabilità, medio tempore, dei reati di cui alla contestazione nei confronti dell’imputato.

Nel caso in esame inoltre non si palesa corretto, in considerazione della natura dei materiali di cui si tratta, derivanti dalla lavorazione di blocchi di marmo, il riferimento, contenuto nella sentenza, alle terre e rocce da scavo direttamente utilizzate per reinterri o riempimenti, ai sensi dell’art. 10, comma primo, della L. n. 23 marzo 2001 n. 93, che ha introdotto la lett. f bis) nel primo comma dell’art. 8 D.L.vo n. 22/97.

Peraltro, il reimpiego di detti materiali, consentito dalla normativa attualmente vigente, deve avvenire, in ogni caso, previa valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell’art. 186 del D.L.vo n. 152/06, o di autorizzazione amministrativa ai sensi della normativa pregressa.

Egualmente non si palesa corretto il riferimento della gravata sentenza alla nozione di materie prime secondarie, di cui all’art. 181, comma tredici, del D.L.vo n. 152/06, in quanto queste ultime devono possedere, ai sensi del comma sei del predetto articolo, specifiche caratteristiche tecniche individuale da un apposito decreto ministeriale da emanarsi ovvero, in via transitoria, specificate dalla normativa secondaria vigente, mentre nel caso in esame non è stato effettuato alcun controllo da parte dei giudici di merito nei sensi indicati.

Egualmente errato si palesa il riferimento alla nozione di sottoprodotto di cui all’art. 183, comma primo lett. n), dello stesso decreto legislativo, richiedendosi anche dalla norma citata la certezza oggettiva del reimpiego del materiale costituente sottoprodotto, nel momento stesso della sua produzione, certezza che, secondo quanto in precedenza precisato, doveva essere esclusa dai giudici di merito in considerazione delle descritte modalità di accumulo per un lasso di tempo particolarmente rilevante dei materiali residuati dalla lavorazione dei blocchi di marmo, con conseguente integrazione prima della fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti e, successivamente, della realizzazione di una discarica abusiva.

Né si palesa sufficiente a soddisfare il requisito richiesto dalla norma il mero accertamento della successiva utilizzazione dei materiali di risulta, mediante un intervento che, peraltro, nel caso in esame, secondo quanto emerge dall’accertamento di fatto, si palesa avere assunto le caratteristiche di un’opera di bonifica dell’area già adibita a discarica.

Non ricorrono, pertanto, nel caso in esame, le condizioni richieste dall’art. 129, comma secondo, c.p.p. per tener ferma la pronuncia di assoluzione dell’imputato con la formula di cui alla sentenza impugnata.