Cass. Sez. III n. 39400 del 3 settembre 2018 (Ud 30 mag 2018)
Pres. Lapalorcia Est. Di Stasi Ric. Sanna
Rifiuti.Materiale plastico destinato alla produzione di pile tessile

Un materiale plastico non può qualificarsi come sottoprodotto se difettano sia i requisiti di cui alla lett. a)-(trattandosi non di residui di produzione ma di scarti di produzione) che quelli della lett. c)- dell’art 184-bis d.lgs 152/2006 (non vertendosi in fattispecie di utilizzo diretto senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, ma anzi dovendo il materiale plastico essere sottoposto ad un diverso ed ulteriore trattamento al fine di diventare materiale tessile – pile-, con conseguente perdita delle originarie caratteristiche merceologiche e di qualità ambientali).


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14/07/2017, il Tribunale di Cagliari dichiarava Sanna Salvatore responsabile del reato di cui all’art. 256 del d.gls n.152/2006 – perché, nella qualità di legale rappresentante della Delta Eco s.rl., in mancanza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni e comunicazioni, in recuperava, trasportava e commercializzava kg 6.690 di rifiuti plastici non pericolosi, immettendoli all’interno del container XLXU6163054 destinato alla Cina- e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di euro 8.000,00 di ammenda.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Sanna Salvatore, a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo motivo deduce vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato contestato.
Argomenta che erroneamente il Tribunale aveva fondato l’affermazione di responsabilità sulle dichiarazioni rese dall’imputato in sede di esame e ritenuto, invece, irrilevanti le contrarie dichiarazioni rese in sede di dichiarazioni spontanee, con le quali aveva chiarito di aver fatto parte dell’operazioni contestata solo limitandosi a consigliare la sua ex moglie, Pippia Bonuccia, amministratore unico della Delta Eco srl, imputata per il medesimo fatto in altro procedimento penale definito mediante l’istituto della messa in prova.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione alla erronea qualificazione del materiale oggetto di causa quale rifiuto, trattandosi, invece, di sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis lett. a) e c), direttamente utilizzabile mediante una normale pratica industriale.
Con il terzo motivo deduce carenza della responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, invocando la sussistenza della buona fede, quale convincimento della liceità del fatto commesso, come emergente dalle stesse dichiarazioni rese dal Sanna in sede di esame.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il primo motivo di ricorso è inammissibile non soltanto perché non svolge alcun confronto argomentativo con la sentenza impugnata, che ha chiarito che l’affermazione di responsabilità si fondava sulla circostanza che il Sanna era stato di fatto l’organizzazione della spedizione dei materiali plastici di cui alla imputazione (ex plurimis, Sez. 3, n. 31939 del 16/04/2015, Falasca Zamponi, Rv. 264185; Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, Kasern, rv. 259456), ma anche perché propone doglianze eminentemente di fatto, riservate al merito della decisione.
Nel motivo in esame, in sostanza, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).
Va ribadito, a tale proposito, che, anche a seguito delle modifiche dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 non è consentito dedurre il "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez.6,n.27429 del 04/07/2006, Rv.234559; Sez. 5, n. 39048/2007, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 2012, Rv.253099) ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, Rv. 234148).
La Corte di Cassazione deve, infatti, circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989; Sez.5, n.6754 del 07/10/2014, dep.16/02/2015, Rv.262722).
Il ricorrente, invece, attraverso una formale denuncia di vizio di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze processuali.
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va osservato che, ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d. l.gs. n. 152 del 2006, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi; esattamente quel che accade con gli scarti di produzione, come nel caso di specie, salva la possibilità della diversa qualificazione in sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge.
L’art. 183, lettera qq), indica, infatti, come sottoprodotto “qualsiasi sostanza che soddisfa le condizioni di cui all’art. 184 bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’art. 184 bis, comma 2”.
L'art. 184-bis d.lgs 152/2006 (articolo inserito dall’art. 12 del d.lvo 3.12.2010 n. 205) stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni: a) la sostanza o l'oggetto deve trarre origine da un processo di produzione, di cui costituisca parte integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto; b) deve esserne certa l'utilizzazione nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, con pronunce intervenute dopo la novella del 2010, la presunzione legale iuris tantum della qualifica di rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di sottoprodotto della sostanza derivante dalle predette attività (da ultimo, Sez. 3, n. 37168 del 09/06/2016, Bindi, non mass.), laddove, trattandosi di invocare una condizione per l'applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario dei rifiuti, incombe sull'interessato l'onere di provare che tutti i requisiti, richiesti dall'articolo 184- bis per attribuire alla sostanza la qualifica di sottoprodotto, siano stati osservati (" ... fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis"), mentre al giudice compete la verifica se il materiale probatorio fornito dalla parte abbia assolto tale onere.
E la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di gestione dei rifiuti, ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari, Rv. 262129; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504).
In questo senso è anche il decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 che, all'articolo 4, nel dettare le condizioni generali di applicabilità, esordisce affermando che, ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, i residui di produzione, cui all'articolo 2, comma 1, lettera b), ossia "ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto") sono sottoprodotti e non rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati prodotti volontariamente e come obiettivo primario del ciclo produttivo, sono destinati ad essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da parte di terzi e, a tal fine, in ogni fase della gestione del residuo, è necessario fornire la dimostrazione che sono soddisfatte tutte le condizioni di cui alle lettere a), b), c) e d) dell'articolo 4 del decreto.
Nella specie, il Tribunale, in conformità al disposto legislativo, e con diffuse ed ampie argomentazioni in aderenza alle risultanze istruttorie , ha rilevato che il materiale plastico di cui all’imputazione non poteva qualificarsi come sottoprodotto, difettando sia i requisiti di cui alla lett. a)-(trattandosi non di residui di produzione ma di scarti di produzione) che quelli della lett. c)- dell’art 184-bis d.lgs 152/2006 (non vertendosi in fattispecie di utilizzo diretto senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, ma anzi dovendo il materiale plastico essere sottoposto ad un diverso ed ulteriore trattamento al fine di diventare materiale tessile – pile-, con conseguente perdita delle originarie caratteristiche merceologiche e di qualità ambientali).
La motivazione è congrua e non manifestamente infondata e si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità, mentre le censure proposte dal ricorrente sconfinano in inammissibili censure in fatto, riservate al merito della decisione.
3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
Il ricorrente si limita a richiamare a fondamento del motivo proposto il consolidato principio di diritto affermato da questa Suprema Corte, secondo il quale la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell'interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta (Sez.1, n.47712 del 15/07/2015, Rv.265424; Sez.3, n.42021 del 18/07/2014, Rv.260657;Sez.3, n.49910 del 04/11/2009, Rv.245863; Sez.3, n.172 del 06/11/2007, dep.07/01/2008, Rv.238600; Sez.3, n.4951 del 17/12/1999, dep.21/04/2000, Rv.216561).
Nulla, però, adduce di concreto in ordine al fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice che avrebbe determinato l’errore scusabile invocato; ne’ alcun elemento in tal senso si ricava dalla lettura della sentenza impugnata.
Il motivo di ricorso, pertanto, si connota per la sua aspecificità ed integra la violazione dell'art. 581 cod.proc.pen., lett. c), che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso per cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l'impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, "I motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"; violazione che, ai sensi dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), determina, per l'appunto, l'inammissibilità dell'impugnazione stessa (cfr. Sez. 6, 30.10.2008, n. 47414, Rv. 242129; Sez. 6, 21.12.2000, n. 8596, Rv. 219087).
4.. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
6. L'inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p., ivi compresa la prescrizione (Sez.U. n. 12602 del 25.3.2016, Ricci; Sez.2, n. 28848 del 08/05/2013, Rv.256463; Sez.U,n.23428 del 22/03/2005, Rv.231164; Sez. 4 n. 18641, 22 aprile 2004).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 30/05/2018