Consiglio di Stato Sez. VI n. 10590 del 2 dicembre 2022
Beni Ambientali.Valutazione compatibilità paesaggistica

L’art. 167 del d. Lgs. n. 42/2004 prevede che «l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; …». Il successivo comma 5 dispone che «il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni». L’intenzione legislativa è chiara nel senso di precludere qualsiasi forma di legittimazione del "fatto compiuto", in quanto l'esame di compatibilità paesaggistica deve sempre precedere la realizzazione dell'intervento. Il rigore del precetto è ridimensionato soltanto da poche eccezioni tassative, tutte relative ad interventi privi di impatto sull'assetto del bene vincolato»


Pubblicato il 02/12/2022

N. 10590/2022REG.PROV.COLL.

N. 10646/2018 REG.RIC.

N. 10647/2018 REG.RIC.

N. 10648/2018 REG.RIC.

N. 10649/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10646 del 2018, proposto da
Julie Ann Flintoff e Hall Cavan Patrick, rappresentati e difesi dall’Avvocato Marialuisa Zanobini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Porto Venere, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Pietro Piciocchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Genova, via Assarotti n. 48/6;


sul ricorso numero di registro generale 10647 del 2018, proposto da
Flintoff Julie Ann e Hall Cavan Patrick, ciascuno in proprio e in qualità di membro del Gruppo Promotore Famiglia Hall-Flintoff in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocato Marialuisa Zanobini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Porto Venere, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Pietro Piciocchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Genova, via Assarotti n. 48/6;


sul ricorso numero di registro generale 10648 del 2018, proposto da
Julie Ann Flintoff e Hall Cavan Patrick, rappresentati e difesi dall’Avvocato Marialuisa Zanobini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Porto Venere, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Pietro Piciocchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Genova, corso Torino n. 30/18;



sul ricorso numero di registro generale 10649 del 2018, proposto da
Julie Ann Flintoff e Hall Cavan Patrick, rappresentati e difesi dall’Avvocato Marialuisa Zanobini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Porto Venere, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pietro Piciocchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio Pietro, in Genova, corso Torino n. 30/18;

per la riforma

quanto al ricorso n. 10646 del 2018:

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 00453/2018, resa tra le parti;

quanto al ricorso n. 10647 del 2018:

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 00454/2018, resa tra le parti;

quanto al ricorso n. 10648 del 2018:

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 00456/2018, resa tra le parti;

quanto al ricorso n. 10649 del 2018:

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 00457/2018, resa tra le parti;


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Porto Venere;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Cons. Marco Poppi e uditi per le parti gli Avvocati presenti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

La vicenda oggetto del presente giudizio concerne la progettata realizzazione di un un’area di parcheggio pertinenziale all’interno di una proprietà privata, a servizio di un immobile residenziale, la cui esecuzione comportava l’apertura di un varco carraio attraverso un muro di recinzione oggetto di tutela e l’esecuzione di interventi interessanti anche l’antistante area di proprietà pubblica, necessari per consentire l’accesso dei mezzi.

Per quanto riguarda gli interventi incidenti sulla proprietà privata, in data 23 giugno 2015, gli odierni appellanti, proprietari dell’immobile in questione, presentavano una S.C.I.A. per la realizzazione di un «parcheggio pertinenziale a raso con opere connesse» (apertura di un accesso carrabile e posa di un cancello) cui seguiva, il successivo 3 agosto, la presentazione dell’istanza di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del D. Lgs. n. 42/2004.

In merito a detta istanza la Commissione Locale per il Paesaggio (C.L.P.) si esprimeva favorevolmente nella seduta del 23 settembre 2015 con parere trasmesso, con nota del 29 settembre successivo, alla Soprintendenza affinché si esprimesse a sua volta ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. n. 139/2010.

L’inerzia della Soprintendenza, si allega, avrebbe determinato la formazione del silenzio assenso ai sensi del precedente comma 5 del medesimo articolo.

Si evidenzia sin d’ora che ai richiamati pareri favorevoli non seguiva il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, né risulta attivato da parte degli appellanti lo specifico rimedio ex art. 117 c.p.a. previsto a fronte dell’inerzia dell’amministrazione.

Per quanto riguarda le opere di adeguamento da eseguirsi all’esterno su area pubblica, necessarie per consentire il transito all’interno della proprietà privata, l’11 novembre 2015 veniva presentata istanza di autorizzazione all’esecuzione di un «microprogetto di interesse locale» ex art. 23 della L. n. 2/2009, consistente in «interventi di riqualificazione dell’area lungo via Libertà nella frazione Le Grazie», espressamente indicato dai richiedenti nella «Relazione generale» allegata (a pag. 2) «quale misura di compensazione per gli interventi su area pubblica necessari per l’attuazione di un opera di interesse dello stesso soggetto proponente …».

L’intervento da eseguirsi su area pubblica avrebbe comportato una modifica in riduzione di un’aiuola, la modifica del tracciamento dei parcheggi a raso ivi esistenti, lo spostamento del parcometro e il ripristino della pavimentazione stradale sulla superficie interessata dalla rimozione dell’aiuola (pag. 5 della Relazione).

La Relazione citata, deve evidenziarsi, non conteneva alcuna indicazione circa l’interesse pubblico perseguito mediante la realizzazione del microprogetto in questione.

Anche relativamente a quest’ultimo intervento veniva avviato, in data 5 dicembre 2015, il procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica che, tuttavia, l’amministrazione sospendeva con atto del 22 gennaio 2016 in attesa della ricezione della comunicazione, da parte del Settore Lavori Pubblici, dell’attivazione del microprogetto.

Accertato l’inizio dei lavori, con abbattimento di una porzione del muro di recinzione, nonostante il già evidenziato difetto dei necessari titoli abilitativi, l’amministrazione, con ordinanza n. 2787 del 21 luglio 2016 provvedeva alla loro sospensione e, con atto del 3 agosto 2016, avviava il procedimento teso all’adozione:

- della rimessione in pristino dell’area;

- dell’archiviazione della S.C.I.A.;

- del rigetto dell’autorizzazione paesaggistica relativa all’intervento da eseguirsi su area privata;

- del rigetto dell’autorizzazione paesaggistica relativa all’intervento da eseguirsi su area pubblica.

Con ordinanza n. 2803 del 19 agosto 2016 veniva disposto il ripristino dello stato dei luoghi e, con provvedimento n. 11726 del giorno successivo, veniva rigettata l’istanza di autorizzazione paesaggistica riferita alla realizzazione del parcheggio pertinenziale in ragione del mutato stato dei luoghi (alterati dalla demolizione eseguita in assenza di titolo) con contestuale conferma della sospensione della S.C.I.A. e «conseguente archiviazione della pratica».

Con ricorso iscritto al 818/2016 R.R., gli odierni appellanti impugnavano innanzi al Tar Liguria le citate ordinanze n. 2803/2016 e n. 11726/2016, nonché, la menzionata comunicazione del 3 agosto 2016.

Alla presentazione del ricorso seguiva, con istanza presentata al Comune il 15 novembre 2016, la «richiesta di compatibilità paesaggistica» postuma relativa all’intervento di «creazione di un varco in un muro» realizzato «in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica».

In pari data, relativamente al medesimo varco, gli appellanti presentavano «richiesta accertamento conformità urbanistica ed edilizia (A.C.U.E.)» ai sensi dell’art. 43 della L. R. n. 16/2008.

Con successiva nota del 28 novembre 2016 recante «richiesta di ritiro ed annullamento pratica edilizia», facendo seguito alla precedente istanza del 15 novembre, gli appellanti dichiaravano «di rinunciare - così come in effetti rinunciano – a tale richiesta e che la stessa deve pertanto intendersi come non presentata e di conseguenza ritirata» precisando che «la rinuncia deve intendersi circoscritta alla richiesta di A.C.U.E. e non si estende alla richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica presentata in pari data che viene pertanto confermata».

Con delibera della Giunta n. 229 del 24 novembre 2016, che seguiva il rituale preavviso di diniego del 29 agosto precedente, l’amministrazione respingeva l’istanza riferita al microprogetto sul duplice rilievo del difetto di un prevalente interesse pubblico connesso alla sua realizzazione e della prospettata necessità di non pregiudicare successivi e più radicali interventi di riqualificazione dell’area per mano pubblica in un contesto di eccezionale importanza storica e testimoniale.

Il provvedimento, veniva impugnato con ricorso iscritto al n. 208/2017 R.G..

Con nota del 20 gennaio 2017, il Comune comunicava ex art. 10 bis della L. n. 241/1990 i motivi ostativi all’accoglimento tanto della citata istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica (del 15 novembre 2016, come integrata il 28 dicembre successivo) per la «creazione di un varco» nel muro di cinta, quanto dell’istanza presentata il successivo 5 dicembre 2015 riferita al microprogetto.

Con atto n. 5782 del 22 aprile 2017, interveniva il conclusivo diniego all’accertamento di compatibilità paesaggistica riferito ad entrambe le iniziative.

Detto diniego veniva impugnato con ricorso iscritto al n. 483/2017.

Con ordinanza n. 2946 del 23 novembre 2017, l’amministrazione, all’esito di un complessivo riesame della vicenda amministrativa in atto, reiterava l’ordine di ripristino ai sensi dell’art. 37, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 167, comma 1, del D. Lgs. n. 42/2004.

La misura da ultimo intervenuta veniva impugnata con ricorso iscritto al n. 180/2018.

I quattro ricorsi, chiamati alla medesima udienza, venivano decisi dal Tar Liguria con separate sentenze del 15 maggio 2018.

Con sentenza n. 453/2018, il Tar dichiarava improcedibile il ricorso n. 818/2016 essendosi l’amministrazione rideterminata «sul complesso contendere con il provvedimento 23.11.2017, n. 2946».

Con sentenza 454/2018, veniva respinto il ricorso n. 208/2017.

Con sentenza n. 456/2017, veniva respinto il ricorso n. 483/2017.

Con sentenza n. 457/2018, veniva respinto il ricorso n. 180/2018.

Le citate sentenze venivano impugnate con appelli iscritti, rispettivamente, ai nn. 10646/2018, 10647/2018, 10648/2018 e 10649/2018 depositati il 29 dicembre 2018 cui seguiva, con atto del 17 gennaio 2019, la richiesta di riunione.

Il Comune si costituiva formalmente nei quattro giudizi con atti depositati in data 19 e 20 marzo 2019.

Nella camera di consiglio del 7 febbraio 2019, con ordinanza n. 672/2019, veniva respinta l’istanza di sospensione presentata dagli appellanti nel solo giudizio n. 10649.

Il Comune sviluppava le proprie difese in vista della discussione di merito con distinte memorie depositate in data 10 ottobre 2022.

In pari data, gli appellanti depositavano memoria conclusionale comune ai quattro giudizi.

In data 20 ottobre 2022, gli appellanti depositavano distinte memorie di replica riferite a ciascun giudizio mentre il Comune, in pari data, replicava alle avverse doglianze con un’unica memoria.

All’esito della pubblica udienza del 10 novembre 2022, le cause venivano trattenute in decisione.

Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei giudizi in epigrafe stante l’identità delle parti e l’unitarietà della vicenda controversa.

Come in parte anticipato, gli appellanti, proprietari di un immobile ricadente in zona vincolata di elevato pregio ambientale, storico e paesaggistico, censurano i provvedimenti adottati dall’amministrazione con i quali veniva loro impedito di realizzare un accesso carraio alla propria residenza ed una area di parcheggio interna «a raso» con esecuzione di interventi incidenti sulla antistante area pubblica.

La necessità, ai fini della realizzazione dell’intervento privato, di incidere sulla conformazione dell’area pubblica attrezzata antistante l’immobile residenziale (al momento adibita a verde pubblico, parcheggio e percorsi pedonali), come già evidenziato, determinava la necessità di presentare un «microprogetto di interesse pubblico» da sottoporre al vaglio dell’autorità comunale.

Quest’ultima iniziativa, tuttavia, non veniva assentita sul duplice presupposto, dell’incompatibilità paesaggistica dell’intervento e dell’assenza di un prevalente interesse pubblico all’esecuzione delle progettate modifiche.

Nonostante il difetto di qualsivoglia titolo abilitativo relativamente ad entrambi gli interventi preventivati, gli appellanti procedevano comunque alle demolizioni del muro necessarie alla realizzazione del varco presentando, ad intervento eseguito, istanza di accertamento di conformità tanto paesaggistica quanto urbanistica ed edilizia (la seconda successivamente rinunziata) in merito alle quali l’amministrazione si esprimeva negativamente.

Sintetizzata nei suesposti termini la vicenda in fatto, ai fini di un corretto inquadramento della presente fattispecie si rende necessario una preliminare descrizione dell’assetto urbanistico dell’area.

Sotto tale profilo, si rileva che l’immobile ricade in zona di P.U.C. CE. 7 «Versante Varignano Vecchio» e zona di P.T.C.P. «Assetto insediativo» in zona «NI.MA (Nucleo Isolato – Regime Normativo di mantenimento)», soggetta a vincolo paesaggistico ambientale «ambito costiero vincolato» ai sensi dell’art. 142 del D. Lgs. n. 42/2004 («vincolo generico») e vincolo paesaggistico («vincolo specifico») in quanto zona di notevole interesse pubblico nei sensi di cui all’art. 136, comma 1, lett. d) della medesima fonte normativa, nonché, in forza dei DD. MM. 6 giugno 1956, 3 agosto 1959 e 24 aprile 1985, dell’art. 93 del d.P.R. n. 380/2001 e, infine, ricadente nella fascia di rispetto di cui all’art. 55 cod. nav..

Ciò premesso, può procedersi allo scrutinio delle doglianze formulate dagli appellanti avverso le sentenze impugnate, nell’ordine di proposizione dei singoli appelli.

Con il primo motivo del ricorso n. 10646 proposto avverso la sentenza n. 453/2018, gli appellanti deducono «Violazione dell’art. 35 lett. c) del D.Lgs 104/2010 ed erroneità dell'appellata sentenza in ordine alla ritenuta mancanza di interesse all’accoglimento del ricorso. Illogicità», con riproposizione dei motivi del ricorso di primo grado assorbiti dal Tar in ragione della definizione del giudizio in rito.

Come anticipato, il Tar dichiarava l’improcedibilità del ricorso sul rilievo che l’amministrazione si fosse rideterminata sull’intera vicenda reiterando l’ordine di demolizione con un nuovo provvedimento adottato all’esito di una rinnovata istruttoria.

Deducono gli appellanti che l’intervenuta impugnazione della successiva ingiunzione, avrebbe dovuto indurre il giudice di prime cure a scrutinare con priorità il ricorso da ultimo proposto avverso l’ordinanza n. 2946/2017 (n. 180/2018 R.R.) e ritenere superata la prima ordinanza solo in caso di accertata legittimità del sopravvenuto riesercizio del potere.

La censura è infondata.

Premesso che, come si argomenterà in sede di scrutinio dell’appello n. 10649, ricorre nel caso di specie l’eventualità evocata dagli appellanti (legittimità dell’ingiunzione n. 2946 del 23 novembre 2017), non può che rilevarsi come la sopravvenienza di un nuovo provvedimento incidente sul medesimo assetto di interessi, cui deve imputarsi in via esclusiva l’effetto lesivo incidente nella sfera giuridico-soggettiva degli appellanti, elida ogni interesse allo scrutinio delle censure formulate avverso la precedente misura a prescindere dalla legittimità o meno della nuova determinazione.

L’ordinanza n. 2946/2017 veniva adottata preso atto dell’avvenuta presentazione dell’istanza di accertamento di conformità urbanistica ed edilizia dell’intervento ex art. 43 della L.R. n. 16/2008 del 15 novembre 2016; del rigetto dell’istanza di accertamento di conformità paesaggistica n. 5782 del 22 aprile 2017, nonché, del rigetto dell’istanza di autorizzazione all’esecuzione del menzionato microprogetto determinata con delibera di Giunta n. 229 del 24 novembre 2016.

Il provvedimento si fonda, quindi, su atti successivi all’adozione della originaria ingiunzione di demolizione risalente all’agosto precedente.

Sul punto, deve ritenersi superato l’orientamento per il quale la presentazione dell’istanza di sanatoria debba per ciò solo comportare l’improcedibilità del ricorso proposto avverso la misura sanzionatoria dell’abuso.

Come la Sezione ha avuto modo di affermare, con posizione non soggetta a successive rimeditazioni, la presentazione di una istanza di accertamento di conformità «non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta soltanto un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato sez. VI, 16 febbraio 2021, n. 1432)» (Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n.5746).

Nel caso di specie, l’ordinanza repressiva originariamente adottata veniva superata da una successiva analoga misura riferita al medesimo abuso: sopravvenienza che impone di apprezzare l’eventuale sussistenza di un effetto utile, a vantaggio dei ricorrenti, derivante dall’annullamento della precedente ingiunzione.

Ciò premesso, si rileva che è pacifico in giurisprudenza che l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse «si verifica quando l'eventuale accoglimento del ricorso non produrrebbe più alcuna utilità al ricorrente, facendo venir meno la condizione dell'azione dell'interesse a ricorrere (Cons. Stato, sez. IV, 24 luglio 2017, n. 3638)" (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 9 luglio 2018, n. 4191)» (Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2020, n.6485).

In relazione alla organaria ingiunzione, non può, quindi, dubitarsi dell’inesistenza di un concreto e attuale interesse allo scrutinio di legittimità atteso che, anche in caso di accoglimento della relativa impugnazione, permarrebbe il medesimo effetto ripristinatorio del provvedimento successivo che impone la ricostituzione del muro demolito nella sua precedente conformazione: situazione che non poteva che determinare la declaratoria di improcedibilità del ricorso (Cons. Stato, Sez. IV, 8 agosto 2019, n.5639).

L’improcedibilità per sopravenuto difetto di interesse del ricorso di primo grado n. 818/2016, determina il rigetto dell’appello n. 10646 proposto avverso la sentenza n. 453/2018 senza procedere allo scrutinio delle riproposte censure di merito formulate in quel giudizio.

Con il ricorso n. 208/2017, gli appellanti impugnavano la delibera di Giunta n. 229/2016 recante il diniego all’intervento di riqualificazione dell’area pubblica antistante il loro immobile deducendone la contrarietà al vigente Regolamento per la realizzazione di microprogetti di interesse locale.

Il Tar respingeva il ricorso con sentenza n. 454/2018 sul rilievo della contrarietà dell’intervento alla disciplina urbanistica di zona, nonché, dell’assenza di una effettiva «rilevanza pubblicistica» del progetto.

Gli appellanti censurano la sentenza deducendo con il primo motivo dell’appello n. 10647 «Erroneità dell'appellata sentenza per totale travisamento dei fatti, difetto dei presupposti, difetto di motivazione. Erroneità della sentenza per violazione del principio della separazione dei poteri. Erroneità della sentenza per non avere ritenuto violato e falsamente applicato il Regolamento per la realizzazione di microprogetti di interesse locale. e per aver ritenuto sussistenti i vizi rubricati con il primo motivo di ricorso».

Espongono che il Tar, «proteso a fare “amministrazione attiva”» sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione elaborando «un ulteriore presunto motivo di diniego, neppure prospettato dal Comune» specificato nel rilievo che i «muri di sostegno e di recinzione in pietra sono elementi tipici» e che tale carattere porrebbe l’intervento in contrasto con la disciplina urbanistica di zona.

L’affermazione, peraltro estranea alle contestazioni comunali, si fonderebbe sull’erroneo presupposto che il microprogetto consisterebbe «nell'apertura di un varco in un muro così da permettere l'accesso e il recesso alla proprietà» mentre riguarderebbe un’area pubblica «esterna all'area privata».

Errata sarebbe, altresì, l’affermazione per la quale il microprogetto da eseguirsi su area pubblica non specificherebbe «alcuna altra reale funzione di ridefinizione degli spazi urbani che verrebbe apportata dalla realizzazione del progetto», ulteriore alla sua funzionalità alla realizzazione del varco carraio.

Che l’intervento comporti una ridefinizione degli spazi pubblici esterni troverebbe, invece, conferma nello stesso provvedimento impugnato laddove si afferma che «la realizzazione della proposta progettuale pregiudicherebbe di fatto con le previste modifiche di un eventuale futuro intervento di riqualificazione complessiva dell'ambito».

Né potrebbe sostenersi, a parere degli appellanti, che il conseguimento di una utilità privata da parte dell’esecutore del microprogetto determini di per sé l’illegittimità dell’iniziativa stante la ragionevolezza di una positiva ricaduta a beneficio di chi realizza l’opera «a proprie esclusive spese» vertendosi in ambito esterno alla «beneficienza»

Il beneficio che la realizzazione del microprogetto apporterebbe alla collettività sarebbe, invece, insito nel «riordino e razionalizzazione degli elementi urbani» contemplati.

Errata sarebbe, ulteriormente, l’affermazione dell’amministrazione per la quale, in virtù dell’intervento, si determinerebbe «un restringimento dell'area verde attuale» con «eliminazione delle piantumazioni esistenti e un restringimento e deviazione dei percorsi pedonali pubblici esistenti».

Nessuna considerazione, infine, veniva riservata dall’amministrazione al progettato «ampliamento della zona pubblica pavimentata in pietra (anziché in asfalto)» con abbattimento delle barriere architettoniche ed alla preventivata manutenzione degli elementi di arredo urbano esistenti.

Il motivo è infondato.

L’art. 23 del D.L. n. 185/2008, convertito in L. n. 2/2009, prevede la possibilità di realizzare gli interventi in questione «nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti o delle clausole di salvaguardia degli strumenti urbanistici adottati» (previsione ripresa dall’art. 4, punto b) del Regolamento locale).

Il «Regolamento per la realizzazione di microprogetti di interesse locale» approvato con delibera consiliare n. 22 del 30 giugno 2014, subordina l’approvazione dell’iniziativa all’esistenza di un interesse pubblico (art. 1, comma 2) e, in merito alla «Tipologia degli interventi» ammissibili, precisa che possono consistere in opere di pronta realizzabilità relative ad «arredo urbano», «verde pubblico», «forestazione urbana», «viabilità (marciapiedi, piazzali, parcheggi ecc.)», «Sport (aree attrezzate, ecc.)» e «Turismo, Cultura, Attività Sociali (aree destinate a manifestazioni, spettacoli, attività ricreative ecc.)» (art. 3).

La fonte regolamentare dispone, altresì, che non possano essere autorizzati interventi «non conformi agli strumenti urbanistici comunali o sovracomunali vigenti, che siano carenti dei presupposti tecnici o giuridici richiesti dalla vigente normativa» (art. 4) e che «i pareri, visti e nulla osta previsi dalla normativa vigente in rapporto alla natura, consistenza tipologia e destinazione dell’opera, inclusi quelli rilasciati dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, ove necessari alla realizzazione dell’intervento» debbano essere conseguiti dal proponente (art. 11).

L’intervento oggetto del microprogetto contemplava, come in parte anticipato, «la rimodellazione della sagoma dell’aiuola esistente … con la manutenzione del verde all’interno del suo perimetro», «la manutenzione delle n° 2 panchine esistenti», «la modifica del tracciamento dei posti auto ed in generale della segnaletica orizzontale nell’ambito interessato», «lo spostamento in altro sito del parcometro attualmente funzionante nell’area si parcheggio», «la realizzazione di una nuova pavimentazione antistante gli ingressi della proprietà Flintoff-Hall …» e «l’apposizione di una targa recante il toponimo “Paèa” a memoria dell’attività tradizionale che si svolgeva anticamente» sul posto (art. 3 del citato Schema di convenzione), con obbligo di trasferimento al Comune delle opere realizzate (art. 5) e del relativo «onere di manutenzione straordinaria» restando affidata all’esecutore la sola manutenzione ordinaria e la sostituzione «se necessaria … delle essenze vegetali per due anni».

Il progetto veniva respinto con l’impugnata delibera n. 229/2016 richiamando le ragioni ostative oggetto del preavviso di diniego comunicato agli appellanti, al quale questi ultimi, peraltro, non replicavano.

Emerge dalla suesposta descrizione che l’intervento contempla unicamente le modifiche strettamente necessarie a consentire l’accesso alla proprietà privata attraverso il varco carraio senza apportare alcuna trasformazione traducibile in un incremento dell’utilità o fruibilità dell’area da parte della collettività.

Le singole opere anche quando incidenti su beni astrattamente riconducibili alla casistica di cui all’illustrato art. 3 del Regolamento locale, si traducono, infatti, in mere modifiche strumentali al soddisfacimento dell’interesse privato senza alcuna implementazione del verde pubblico (al contrario è prevista l’eliminazione del pitosforo esistente e di 4 piante di oleandro), delle aree di parcheggio e dei camminamenti pedonali la cui modifica (in riduzione) è realizzata nella misura strettamente necessaria a consentire il transito veicolare dalla via pubblica alla proprietà privata attraverso il varco progettato.

Né, d’altra parte, come già rilevato, la Relazione illustrativa del progetto specificava espressamente alcun interesse pubblico, in ipotesi, soddisfatto dall’iniziativa.

Ciò premesso deve in primis evidenziarsi che il Tar non è incorso in alcun vizio di ultrapetizione né si è sostituito all’amministrazione individuando autonomamente profili di illegittimità dei provvedimenti impugnati non oggetto di contestazione da parte del Comune.

Il censurato riferimento ai profili di conformità edilizia operato dal Tar integra una mera premessa illustrativa della disciplina di settore che non fonda, come insinuato dagli appellanti, il rigetto della censura.

Il richiamo operato dal Tar alla «normativa relativa all’ambito CE», in cui ricade l’immobile degli appellanti, nella parte in cui prescrive che «sono da mantenere in quanto elementi tipici e di valore testimoniale i muri di sostegno e di recinzione in pietra esistenti», lungi dall’integrare un profilo di illegittimità autonomamente rilevato da giudice, evidenzia unicamente la legittimità dell’articolato motivazionale del provvedimento impugnato che di detta normativa replica il contenuto.

Non può, infatti, sfuggire che l’amministrazione, con la delibera impugnata, inibisce la realizzazione del microprogetto evidenziando che interessava un’area «prospiciente una pregevole muratura storica in pietra e adiacenti percorsi, nei pressi dell’antico convento degli Olivetani delle Grazie» (lo «Schema di convenzione» allegato all’istanza di autorizzazione specifica «presso l’ex Monastero Olivietano di Santa Maria»), inserita «in un sito di eccezionale importanza storica e testimoniale».

In ogni caso, deve evidenziarsi che il Tar, riferendosi «alla specifica questione posta dai ricorrenti», in perfetta coerenza con quanto dagli stessi dedotto, si esprime in ordine alla congruità e sufficienza della motivazione posta alla base del diniego riconoscendo l’inesistenza di un allegato e documentato interesse pubblico alla «ridefinizione degli spazi urbani che verrebbe apportata dalla realizzazione del progetto»: affermazione che si condivide per le ragioni già esposte.

Conferma di ciò, peraltro, si ricava anche dalla stessa documentazione di parte appellante laddove viene affermato che le modifiche oggetto dell’intervento «risultano indispensabili» per l’attuazione del progetto di interesse privato (pag.5 della «Relazione generale stima dell’intervento» allegata all’istanza di autorizzazione).

Con il secondo motivo, gli appellanti deducono «Erroneità dell'appellata sentenza per totale travisamento dei fatti, difetto dei presupposti, difetto di motivazione. Erroneità della sentenza per violazione del principio della separazione dei poteri. Erroneità della sentenza per non avere ritenuta violato e falsamente applicato il vigente Regolamento per la realizzazione di microprogetti di interesse locale e del Regolamento Cosap. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto dei presupposti. Eccesso di potere per difetto di motivazione e sviamento».

Con il presente capo d’appello gli appellanti censurano la sentenza laddove ritiene la legittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui afferma che la realizzazione della proposta progettuale pregiudicherebbe di fatto un eventuale futuro intervento di riqualificazione complessiva dell'ambito, compresa una eventuale riorganizzazione dei posti auto su fronte stradale o eventuale loro incremento.

L’articolato motivazionale sarebbe estremamente generico e tradirebbe «l'intento sviato di impedire, ad ogni costo, l'intervento».

Gli appellanti riconoscono che l’art. 4 lett. c) del più volte richiamato Regolamento, vieta progetti che siano «in contrasto con azioni o progetti inseriti negli strumenti di pianificazione o programmazione dell'ente», ma rilevano che nel caso di specie la ragione ostativa non veniva individuata nella contrarietà ad uno strumento urbanistico approvato ma ad un ipotetico futuro intervento pianificatorio.

A parere degli appellanti, la censura, già formulata in primo grado, avrebbe «talmente colto nel segno che il Giudice di primo grado non trova altro modo per non accoglierla che tirare in campo, per l'ennesima volta, il già lamentato richiamo alla contraddittorietà tra Puc e progetto» nonostante tale profilo di contrasto non abbia costituito oggetto di contestazione.

Il motivo, a tacere dei toni irriverenti e della non pertinenza alle statuizioni contenute in sentenza, è infondata.

L’amministrazione, come si evince dai contenuti della delibera impugnata, rilevava che l’intervento consisteva «unicamente ed in sostanza, nella risistemazione dell’area nella zona antistante la proprietà dei proponenti, al fine di consentire agli stessi di realizzare un accesso carrabile alla proprietà stessa» e che per tale ragione «la proposta non prevede quindi elementi di prevalente interesse pubblico e/o pubblica utilità ma al contrario [ovvero, in contrasto all’interesse pubblico, ndr] comporta un restringimento dell’area verde attuale ed eliminazione delle piantumazioni esistenti e un restringimento e deviazione dei percorsi pedonali pubblici esistenti».

L’assenza di un concreto interesse pubblico derivante dall’esecuzione dell’intervento, non altrimenti comprovata (e nemmeno allegata dagli appellanti), legittima di per sé il diniego impugnato.

È, infatti, pacifico in giurisprudenza che «qualora un provvedimento amministrativo sia sorretto da più motivi, “è sufficiente che almeno uno di essi risulti in grado di sorreggere per intero l'atto stesso” (Cons. St., sez. VI, 7 gennaio 2014, n. 12; 18 maggio 2012, n. 2894 e 27 aprile 2015, n. 2123; Cons. St., sez. V, 25 febbraio 2015, n. 927; Tar Napoli, sez. III, 22 settembre 2015, n. 4583)» (Cons. Stato, Sez. III, 1 giugno 2020.

In ogni caso deve rilevarsi che il provvedimento è supportato da ulteriori articolati motivazionali.

Come già evidenziato, la delibera richiama espressamente il preavviso di rigetto (al quale gli appellanti, come già rilevato, non replicavano) e ciò determina che le premesse in esso esplicitate ne integrino, supportandola, la motivazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 2020, n.1322).

In detta sede, oltre alla rilevata mancata previsione di «elementi di prevalente interesse pubblico e/o pubblica utilità» venivano contestati «un restringimento dell’area verde attuale» con «eliminazione delle piantumazioni esistenti e un restringimento e deviazione dei percorsi pedonali pubblici esistenti», nonché, «un’alterazione in riduzione del consolidato assetto ed utilizzo degli spazi verdi e percorsi utilizzati dalla popolazione che ivi transita e sosta secondo consuetudini consolidate nel tempo».

Pur nella sintesi propria delle determinazioni provvedimentali, è di tutta evidenza che ciò che viene contestato quale effetto dell’intervento, è un complessivo decremento del pregio e, prima ancora, della fruibilità dell’area in questione da parte della collettività, che rende ragionevole, e priva di evidenti profili di palese incongruità, la valutazione espressa circa l’impatto che le evidenziate limitazioni potrebbero determinare in sede di future pianificazioni.

La contestata valutazione espressa dall’amministrazione in sede procedimentale e successivamente legittimata dal Tar in giudizio («pregiudicherebbe di fatto con le previste modifiche un eventuale futuro intervento di riqualificazione complessiva dell’ambito»), non integra, pertanto, come prospettato, il rilievo di un profilo di contrasto con strumenti urbanistici non ancora approvati, ma esprime l’esigenza di preservare il territorio da interventi che possano minarne l’integrità modificando in senso peggiorativo lo stato di fatto esistente di un’area ricadente in un contesto ambientale protetto, suscettibile per tale ragione di futuri costanti e ripetuti interventi a tutela dello stesso, come ben evidenziato nella delibera impugnata (integrata per relationem).

Con il terzo motivo, gli appellanti deducono «Erroneità della sentenza per non aver ritenuto fondate le censure di eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto dei presupposti, eccesso di potere per difetto di istruttoria, di motivazione e sviamento, contraddittorietà intrinseca. Erroneità della sentenza per travisamento dei fatti, difetto di motivazione».

Con il presente capo di impugnazione viene censurata la sentenza laddove non rileva l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui si afferma che l'intervento avrebbe comportato l’alterazione di un sito di eccezionale importanza storica e testimoniale con alterazione del consolidato assetto e utilizzo di «spazi verdi e percorsi utilizzati dalla popolazione, che ivi transita e sosta secondo consuetudini consolidate nel tempo».

A parere degli appellanti il richiamato articolato motivazionale sarebbe estremamente generico e non conferente all’effettivo stato dei luoghi che vengono in appello descritti come «una piccola area verde non accessibile e quindi non utilizzata dalla popolazione, una panchina semi-distrutta, e sicuramente non utilizzata da ben prima che il contesto si fosse "consolidato", il decantato percorso pedonale invaso dai bidoni della spazzatura».

Benché la situazione rappresentata sia documentata fotograficamente, il Tar avrebbe erroneamente affermato come «la cattiva conservazione di una località non costituisca una buona ragione per apportarvi interventi abusivi, cosa che accadrebbe nella specie ove fosse stato approvato il microprogetto in contestazione».

La censura è infondata per le ragioni già esposte in sede di scrutinio del precedente motivo cui si rinvia.

Il pregio della zona è pacifico e avvalorato dall’esistenza del vincolo appostovi e la motivazione, come già rilevato da intendersi integrata dai contenuti del preavviso di diniego, è sul punto articolata ed esaustiva.

D’altra parte è la stessa Relazione allegata all’istanza di autorizzazione redatta dal Tecnico di parte a dare atto che «il muro riveste interesse storico in quanto sicuramente risalente ad un’antica sistemazione del complesso ex Monastero».

Gli appellanti sostengono la censura mediante deposito di scarna documentazione fotografica che attesta la presenza di un punto di raccolta rifiuti, di cabine di derivazione impianti e n. 2 panchine in pessimo stato di conservazione.

Tali allegazioni sono inidonee a sostenere l’illegittimità della delibera impugnata atteso che, anche quando deponessero per un generalizzato degrado dell’area (e così non è essendo le fotografie riferite a singoli particolari evidenziati in assenza di una rappresentazione di più ampia prospettiva del contesto nel quale si inseriscono), non potrebbero per ciò solo legittimare interventi ritenuti essere peggiorativi dell’area attrezzata pubblica.

Con il ricorso n. 483/2017, gli appellanti impugnavano il diniego di rilascio dell’accertamento di compatibilità paesaggistica n. 5782/2917 opposto all’accesso carraio.

Il Tar respingeva il ricorso con sentenza n. 456/2018 oggetto di impugnazione del giudizio n. 10648.

Ai fini di un corretto inquadramento delle disarticolate censure oggetto del giudizio in disamina, deve rilevarsi che, come in parte anticipato, con il provvedimento oggetto di contestazione in primo grado, il Comune si esprimeva in ordine all’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d. Lgs. n. 42/2004 del 15 novembre 2015 come integrata il 28 dicembre 2016, riferita alla creazione del varco nel muro, nonché, circa l’istanza presentata il 5 dicembre 2015 relativa al microprogetto di riqualificazione dell’area pubblica.

L’amministrazione, con rituale preavviso di diniego, rappresentava agli appellanti che i richiesti accertamenti di conformità, non potevano essere rilasciati poiché:

- la demolizione non rientrava nella definizione di «lavori» di cui alla «Circolare n. 33/2009 del MIBACT» in quanto riferita unicamente a «interventi che non comportano modificazioni alle caratteristiche peculiari del paesaggio», nonché, «conformi ai piani paesaggistici adottati»;

- l’apertura «di breccia irregolare nella muratura alterante lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore del muro» non è «ammissibile ad accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. 42/2004 non rientrano in alcuna tipologia d’intervento sul patrimonio edilizio esistente prevista dalla L.R. 16/08 e ss. mm. e ii. ammissibile a norma della strumentazione urbanistica ed edilizia esistente»;

- l’intervento «si appalesa, ad ogni modo, senz’altro difforme dalle pertinenti disposizioni del P.U.C. del Comune di Porto Venere (Sub ambito CE.7) in base al quale “sono da mantenere, in quanto elementi tipici e di valore ambientale e testimoniale i muri di sostegno e di recinzione in pietra esistenti …. Negli elementi riconosciuti di valore testimoniale sono ammesse le opere di manutenzione che non ne alterino i caratteri originari”».

In assenza di contributi partecipativi degli appellanti, l’amministrazione, con il provvedimento impugnato, disponeva il «diniego al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica» tanto in relazione al varco carraio quanto in relazione al microprogetto di riqualificazione.

Il Comune eccepisce in via pregiudiziale l’inammissibilità/improcedibilità dell’appello per difetto di interesse in ragione dell’intervenuto ritiro dell’istanza di accertamento di compatibilità urbanistico edilizia dell’opera che, anche in caso di accoglimento del presente gravame, non potrebbe che comportare il ripristino del muro ordinato con diverso provvedimento.

Può prescindersi dallo scrutinio dell’eccezione poiché l’appello è comunque infondato nel merito.

Ciò premesso, con il primo motivo gli appellanti deducono «Erroneità della sentenza per violazione dell’art. 112 cpc. Erroneità della sentenza per violazione del principio di separazione dei poteri» contestando quanto affermato dal Tar «preliminarmente all’esame dei motivi di merito» in quanto avrebbe operato una erronea ricostruzione della fattispecie conferendo una inesistente unitarietà alle vicende relative alla realizzazione dell’accesso carraio e alla riqualificazione oggetto del microprogetto.

La censura è irrilevante prima ancora che infondata atteso che gli appellanti censurano una considerazione del giudice di prime cure, come riconosciuto, preliminare allo scrutinio di merito delle censure oggetto di appello, riassuntiva dei contenuti dell’atto impugnato che nelle proprie premesse pone in risalto una sostanziale unitarietà sotto il profilo funzionale, del complessivo intervento risultante dalla realizzazione dell’accesso carraio e della riqualificazione/modifica dell’area esterna pubblica: tesi supportata, come già rilevato, dalle stesse affermazioni degli appellanti che qualificavano il microprogetto in termini di misura di compensazione a fronte dell’intervento progettato in area privata.

A tal proposito, sotto un primo profilo fattuale, deve evidenziarsi che la stretta correlazione fra gli interventi in questione emerge dal dato obiettivo che l’accesso carraio alla proprietà privata presuppone l’intervento progettato sull’area pubblica che, nell’attuale conformazione, non consentirebbe di accedere agevolmente all’area interna destinata a parcheggio.

Con il secondo motivo gli appellanti, riproponendo le censure già oggetto del primo motivo del ricorso di primo grado, non esaustivamente esaminate dal Tar, deducono «Erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto violati e falsamente applicati i principi generali in materia di accertamento di compatibilità paesaggistica. Eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti. Sviamento. Violazione e falsa applicazione dell'art. 167 d.lgs 22 gennaio 2004, n. 42. Violazione e falsa applicazione della Circolare 33/2009 del MIBACT. Eccesso di potere sotto il profilo della contraddittorietà tra atti. Erroneità della sentenza per violazione del principio della separazione dei poteri».

Con una prima doglianza, censurano la sentenza nella parte in cui il Tar, ritenendo «impossibile confermare la legittimità del provvedimento impugnato per come lo stesso era stato motivato …» afferma che «la violazione non consiste soltanto nella realizzazione della breccia nel muro, ma anche nella modificazione del tratto di suolo pubblico che dovrebbe congiungere la soglia su cui si appoggerà il cancello di ingresso alla via pubblica» non considerando che «l’accertamento di conformità non può riguardare parti di progetti ancora non realizzati».

Sul punto, espongono che il Tar avrebbe operato una «incredibile alterazione dei fatti» atteso che l’intervento abusivo consisterebbe nella sola apertura del varco nella muratura senza eseguire alcun intervento sull’area pubblica che, ancorché oggetto di una richiesta di autorizzazione, non ha mai avuto alcun principio di esecuzione.

Quanto alla dedotta violazione dell’art. 167, comma 4, del D. Lgs. n. 42/2994, non esaminata dal giudice di prime cure (da scrutinarsi in questa sede in virtù dell’effetto devolutivo/sostituivo dell’appello: fra le tante Cons. Stato, Sez. III, 9 aprile 2020, n.2349), gli appellanti, richiamato il principio enunciato dall’art. 146, comma 4, del D. Lgs. n. 42/2004 in base al quale «fuori dai casi di cui all' articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi», invocano la riconducibilità dell’intervento (apertura del varco) alla richiamata fattispecie derogatoria in quanto l’intervento non comporterebbe creazione di nuove superfici o volumi.

La censura, non priva di spunti polemici, è infondata.

L’art. 167 del d. Lgs. n. 42/2004 prevede che «l'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; …».

Il successivo comma 5 dispone che «il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni».

Circa la portata della disposizione, la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che «l’intenzione legislativa è chiara nel senso di precludere qualsiasi forma di legittimazione del "fatto compiuto", in quanto l'esame di compatibilità paesaggistica deve sempre precedere la realizzazione dell'intervento. Il rigore del precetto è ridimensionato soltanto da poche eccezioni tassative, tutte relative ad interventi privi di impatto sull'assetto del bene vincolato» (Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2019, n.895).

Nel caso di specie, gli appellanti realizzavano la demolizione di un muro costituente elemento tipico «di valore ambientale e testimoniale» rispetto al quale non può affermarsi l’inesistenza di un «impatto sull’assetto del bene vincolato»: circostanza che di per sé inibisce l’ammissione a sanatoria postuma.

Deve ulteriormente rilevarsi che ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 139/2010, «Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42» disciplinante le «procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità» in relazione ai quali operano le disposizioni in tema di autorizzazione postuma, dispone che «l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione, entro il termine di cui al comma 2 dell'articolo 3, verifica preliminarmente, ove ne abbia la competenza, la conformità dell'intervento progettato alla disciplina urbanistica ed edilizia».

Ciò premesso, deve evidenziarsi che la demolizione oggetto di contestazione si pone in insanabile contrasto con la disciplina del P.U.C. nella parte in cui disciplina i profili paesaggistici.

Ai sensi dell’art. 6.1 del citato Piano nell’ambito CE.7, infatti, «sono sottoposti a tutela, ni quanto riconosciuti come elemento di valore» i «muri a secco e muri di recinzione in pietra» i quali «sono da mantenere, in quanto elementi tipici e di valore ambientale e testimoniale».

La stessa disposizione stabilisce che «negli elementi riconosciuti di valore testimoniale sono ammesse le opere di manutenzione che non ne alterino i caratteri originari».

Il successivo art. 6.2 vieta «la demolizione e la modificazione delle recinzioni realizzate con muri in pietra a secco o con malta».

Rilevato, pertanto, che la demolizione contestata impatta sull’assetto del bene vincolato e che integra un intervento non ammesso dalla disciplina del P.U.C. (profilo mai sanato stante il già richiamato ritiro del relativo accertamento di conformità), non può che pervenirsi alla conclusione dell’inammissibilità della sanatoria postuma invocata.

La pacifica contrarietà della realizzazione alla disciplina urbanistica vigente determina l’irrilevanza della dedotta inconferenza dei richiami contenuti nel provvedimento impugnato alla Circolare del MIBACT n. 33/2009 (nella parte in cui, «detta talune linee interpretative» in tema di autorizzazione paesaggistica postuma prevedendo in ogni caso la conformità urbanistica dell’intervento) e della L.R. n. 16/2008 (nella parte in cui si afferma la non riconducibilità dell’intervento in questione ad alcuno di quelli rientranti nelle tipologie di intervento sul patrimonio edilizio previste da detta fonte).

L’operato dell’amministrazione è, inoltre, conforme a quanto prescritto dall’art. 4, comma 2, del già richiamato d.P.R. n. 139/2010, laddove dispone che «l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione, entro il termine di cui al comma 2 dell'articolo 3, verifica preliminarmente, ove ne abbia la competenza, la conformità dell'intervento progettato alla disciplina urbanistica ed edilizia».

Con il medesimo capo d’impugnazione, gli appellanti rilevano, altresì, un profilo di contraddittorietà della sentenza nella parte in cui (para. 4) dapprima afferma l’illegittimità del provvedimento laddove ricollega la non sanabilità dell’intervento alla contrarietà dello stesso alla disciplina urbanistica e, successivamente (para. 5), ne afferma la legittimità ritenendo che l’intervento collida con le previsioni del P.U.C. poste a tutela dei «muri storici esistenti»: contrarietà che viene negata dagli appellanti sulla base dei contenuti dalla Relazione paesaggistica redatta dalla propria consulente di parte (cui si rinvia).

La censura è infondata.

Pur riconoscendo la non assoluta univocità delle espressioni utilizzate dal Tar, che scontano un eccesso di sintesi, la contraddittorietà fra le richiamate affermazioni contenute in sentenza è solo apparente.

Circa lo specifico profilo deve, infatti, rilevarsi che l’affermazione del Tar (para. 4) per la quale la compatibilità paesaggistica non può essere apprezzata sulla base della conformità dell’intervento alla pertinente disciplina urbanistica non si pone in insanabile contrasto con quanto successivamente affermato (para. 5) circa il contrasto con le già illustrate prescrizioni del P.U.C. dettate con specifico riferimento alle esigenze di tutela paesaggistica.

Gli appellanti, mediante integrale rinvio alle deduzioni del tecnico di parte compendiate nella più volte citata Relazione, introducono ulteriori profili di censura incentrati su una pretesa estraneità dell’intervento alla disciplina del P.U.C..

In primis, affermano che il muro in questione sorgerebbe «in fregio non già ad uno dei tracciati storici menzionati dal PUC, ossia la strada vicinale del Varignano e la sua variante verso Villa Romana … bensì lungo Via Libertà che costituisce l’unico ed insostituibile asse stradale di collegamento tra la Provinciale Napoleonica e il borgo fino al polo militare di Varignano» avente «caratteristiche di una strada urbana contemporanea».

Il muro, inoltre, segnerebbe il confine fra l’ambito protetto CE.7 e la via Libertà che tuttavia non sarebbe ricompresa in detto ambito.

Le doglianze sono prive di pregio atteso che le suesposte allegazioni non contraddicono la tutela apprestata dall’art. 6.2 del P.U.C. («Disciplina delle recinzioni») che impone il mantenimento dei «muri di sostegno e di recinzione».

Preso, infine, atto che il P.U.C. tutela le recinzioni esistenti, gli appellanti sempre la fine di sottrarre la realizzazione del varco alla illustrata disciplina, negano che il manufatto sia riconducibile alla tipologia dei muri di recinzione trattandosi, invece, di un muro di fabbrica.

A sostegno della singolare deduzione richiamano l’art. 878 c.c. rubricato «muro di cinta» laddove contiene la locuzione «muro di cinta e ogni altro muro isolato» pervenendo alla conclusione che la qualificazione del manufatto quale muro di recinzione presupporrebbe «il possedere entrambe le facce totalmente libere» mentre «nel momento in cui al muro di cinta risulta addossato un fabbricato, il muro si configura come “di fabbrica”».

La descrizione del muro operata dal tecnico di parte (peraltro indimostrata) rappresenta una realtà incompatibile con l’intervento prospettato dagli appellanti atteso che, la configurazione del muro da demolire quale «muro di fabbrica» addossato ad un fabbricato e non libero in corrispondenza della «faccia interna», inibirebbe di per sé la realizzazione di un varco carrabile mediante la sola demolizione del muro.

Con il terzo motivo gli appellanti deducono «Erroneità della sentenza per non aver ritenuto violato e falsamente applicato l'art. 167 d.lgs 22 gennaio 2004, n. 42 sotto diverso profilo, per non aver ritenuto violati e falsamente applicati i principi del giusto procedimento. Sviamento. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Erroneità della sentenza per violazione del principio della separazione dei poteri».

Viene censurata la sentenza nella parte in cui legittimerebbe la decisione del Comune «di bloccare sul nascere» il procedimento di verifica di compatibilità paesaggistica omettendo di sottoporre l’istanza all’attenzione della C.L.P. e alla Soprintendenza.

L’arresto procedimentale sarebbe stato, a parere degli appellanti, preordinato ad impedire alla C.L.P. di esprimersi nuovamente in senso favorevole sul progetto.

La censura è infondata.

Rilevato che gli stessi appellanti allegano a sostegno della censura che «valgono al riguardo le medesime censure di cui al primo e secondo motivo del presente appello a cui, per non appesantire ulteriormente la trattazione, si rinvia», non possono che richiamarsi le considerazioni già esposte in dette sedi.

La già evidenziata contrarietà dell’intervento alla disciplina urbanistica, di cui all’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 139/2010, preclude l’assentibilità paesaggistica dell’intervento che, in ogni caso, come già descritto, non è mai intervenuta nonostante il richiamato parere della C.L.P..

Per le medesime ragioni deve ritenersi l’infondatezza anche del quarto motivo (numerato ancora come «3)») con il quale gli appellanti deducono «Erroneità della sentenza per non aver ritenuto violato e falsamente applicato i principi generali in materia di accertamento di conformità paesaggistica. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del DPR 13.2.1917, n. 31. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Erroneità della sentenza per violazione del principio della separazione dei poteri» ed a sostegno del quale richiamano le medesime censure di cui al primo e secondo motivo cui rinviano (già ritenute infondate).

Gli appellanti lamentano ulteriormente la mancata applicazione dell’art. 17 del d.P.R. n. 31/2017 («Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata») a norma del quale «nel caso di violazione degli obblighi previsti dal presente decreto, fermo restando quanto previsto dall'articolo 181 del Codice, si applica l'articolo 167 del Codice. In tali casi l’autorità preposta alla gestione del vincolo e il Soprintendente, nell'esercizio delle funzioni di cui all'articolo 167, comma 4, del Codice, dispongono la rimessione in pristino solo quando non sia in alcun modo possibile dettare prescrizioni che consentano la compatibilità paesaggistica dell'intervento e delle opere».

Allegano, a tal proposito, che la norma distinguerebbe gli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica, indicati nell’Allegato A al Regolamento, da quelli sottoposti a procedura semplificata, indicati nell’Allegato B.

La riconducibilità dell’intervento in questione alla casistica di cui all’Allegato B («B15. Interventi di demolizione senza ricostruzione di edifici e manufatti edilizi in genere, privi di interesse architettonico, storico o testimoniale») avrebbe dovuto indurre l’amministrazione «a fare applicazione della facoltà di recente attribuita dal legislatore».

La doglianza è infondata.

La disposizione invocata non trova applicazione al caso di specie non ricorrendo, come già esaustivamente illustrato, il presupposto applicativo dell’assenza di un valore «architettonico, storico o testimoniale» del muro demolito.

Con un ultimo capo di impugnazione (non numerato), rubricato «quanto al diniego di autorizzazione paesaggistica dell’area pubblica», gli appellanti affermano l’illegittimità dell’archiviazione dell’istanza di autorizzazione paesaggistica presentata il 5 dicembre 2015 relativamente al microprogetto di riqualificazione.

Censurano, pertanto, la sentenza impugnata nella parte in cui respinge il ricorso sul rilievo che il diniego di autorizzazione paesaggistica troverebbe fondamento nel diniego opposto all’istanza di autorizzazione alla realizzazione del microprogetto disposto con la delibera n. 229/2016 (a quel momento ancora sub judice).

Il motivo è infondato stante la già evidenziata infondatezza dell’appello n. 10647/2018 sopra scrutinato (relativo al diniego dell’autorizzazione al microprogetto).

Con il ricorso n. 180/2018 gli appellanti impugnavano l’ingiunzione di demolizione, da ultimo intervenuta, n. 2946/2017.

Il provvedimento gravato in primo grado, si rammenta, veniva adottato a seguito di sopralluogo eseguito dalla Polizia Locale in data 20 luglio 2016, all’esito del quale veniva accertata la demolizione di una porzione del muro di recinzione in assenza di titolo abilitativo.

Nell’occasione l’amministrazione, richiamata la disciplina paesaggistica vigente:

- prendeva atto dell’avvenuta presentazione, da parte degli appellanti, dell’accertamento di compatibilità paesaggistica dell’intervento e del rigetto dell’istanza intervenuto con provvedimento n. 5782/2017 (di interesse nell’appello n. 10648), nonché, del rigetto dell’istanza di autorizzazione del microprogetto di riqualificazione disposto con delibera n. 229/2015 (di interesse nell’appello n. 10647);

- richiamava il parere favorevole all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso espresso dalla C.L.P. con verbale n. 823 del 20 novembre 2017,

e, sulla base di dette premesse, disponeva il ripristino dello stato dei luoghi comminando contestualmente una sanzione amministrativa di importo pari a € 1.033,00.

Il ricorso, come già rilevato, veniva respinto dal Tar con sentenza n. 457/2018 impugnata con appello n. 10649 con il quale sono in larga parte riproposte le medesime censure già oggetto dei precedenti giudizi.

Ciò premesso, gli appellanti, con il primo motivo deducono «Erroneità della sentenza per non aver ritenuto violati e falsamente applicati i principi generali in materia di sanzioni in materia edilizia. Eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti. Violazione e falsa applicazione dell'art. 36 dpr 380/2001. Illogicità e perplessità» articolando una pluralità di censure.

Con una prima doglianza gli appellanti, rilevato che il provvedimento sanzionatorio veniva assunto «sotto la duplice valenza» edilizia e paesaggistica, espongono che nessuna sanatoria edilizia veniva mai chiesta e che, quindi, non sussistevano i presupposti per un esercizio del potere ripristinatorio già esercitato con la precedente ordinanza del novembre 2017 da ritenersi ancora efficace.

Anche sotto il profilo paesaggistico, si afferma, non sarebbe intervenuta alcuna «pronuncia nel merito» da parte del Comune che avrebbe «arrestato» il procedimento «con una pronuncia di inammissibilità».

In assenza di un’ulteriore valutazione da parte dell’amministrazione sotto il profilo edilizio, il potere dell’amministrazione dovrebbe ritenersi «consumato» e non riesercitabile.

Gli appellanti evidenziano, infine, la contraddittorietà fra quanto affermato dal Tar con sentenza n. 453/2018 e con sentenza n.457/2018, qui impugnata, affermando che il giudice di prime cure sarebbe incorso in un «infortunio logico» definendo il contenzioso «mediante un macroscopico diallele o ragionamento circolare» statuendo, dapprima, che «il ricorso sulla prima ordinanza viene giudicato improcedibile perché l’Amministrazione ha emanato una seconda ordinanza» mentre «la seconda ordinanza viene giudicata legittima perché il primo ricorso è stato dichiarato improcedibile».

Il motivo è infondato.

Le «circolari» censure di parte appellante sono infondate.

Preliminarmente deve rilevarsi che vige nel nostro ordinamento il «principio, fermo in giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 9 febbraio 2010 n. 633; IV, 4 giugno 2014 n. 2856; id., 6 ottobre 2014 n. 4987)», di continuità dell'azione amministrativa, che implica una tendenziale inesauribilità del potere attribuito al soggetto pubblico (Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2019, n.6881).

L’ordinanza censurata, pur replicando l’effetto lesivo dell’ordine di demolizione del 2016, si pone, come già evidenziato, quale fonte esclusiva del pregiudizio lamentato dagli appellanti e trova un proprio autonomo fondamento in una rinnovata istruttoria nell’ambito della quale venivano valutati e valorizzati una pluralità di provvedimenti sopravvenuti.

Come, infatti, già evidenziato, il provvedimento menziona in premessa il rigetto dell’istanza di accertamento di conformità paesaggistica n. 5782 del 22 aprile 2017, nonché, il rigetto dell’istanza di autorizzazione all’esecuzione del menzionato microprogetto determinata con delibera di Giunta n. 229 del 24 novembre 2016.

Tali atti, sulla cui legittimità ci si è già pronunziati, sono successivi all’adozione della originaria ingiunzione di demolizione risalente all’agosto 2016 e legittimano una rivalutazione complessiva dell’intera vicenda cui, per le ragioni ampiamente esposte, non poteva che seguire la necessaria adozione della misura ripristinatoria (Cons. Stato, Sez. II, 17 febbraio 2021, n.1452).

Con il secondo motivo gli appellanti deducono «Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso. Nullità per violazione/elusione del giudicato cautelare ai sensi dell'art. 21 septies l. 241/1990. Eccesso di potere per sviamento. Violazione dei principi di effettività della tutela giurisdizionale. Violazione del principio della separazione dei poteri» affermando il mancato rilievo, da parte del Tar, della nullità del provvedimento demolitorio ex art. 21 septies della L. n. 241/1990 per elusione o violazione del giudicato poiché emesso «nel momento in cui l’efficacia della prima ordinanza di ripristino era sospesa in virtù dell’ordinanza cautelare n. 267 del 1 dicembre 2016».

A sostegno della censura affermano che il riesame di atti sub judice dovrebbe «ritenersi in radice precluso allorquando il giudice amministrativo abbia statuito la sospensione della loro efficacia».

Espongono che l’amministrazione avrebbe adottato un ordine di ripristino «identico a quello già sospeso» in assenza «di un fondamento oggettivo diverso», «di sopravvenienze di nuovi significativi elementi», «di un corredo motivazionale diverso» e «di un riesame nel merito» che si risolverebbe in un tentativo di eludere la decisione cautelare.

Allegano ancora che il Tar avrebbe illegittimamente effettuato una «rivisitazione postuma del proprio provvedimento cautelare» ritenendo «che in tale sede si era tenuto conto del parere favorevole reso dalla commissione paesistica ma che questo è da ritenersi a posteriori incompleto e inidoneo a conformare la successiva azione della P.A. perché avrebbe indebitamente scisso il procedimento relativo alla breccia nel muro “da quello attinente la realizzazione del tratto di strada che congiungerà il giardino privato alla proprietà pubblica”»

Ciò integrerebbe una indebita sostituzione del giudice nell’espressione di valutazioni di esclusiva competenza dell’amministrazione atteso che, non solo tale contestazione non è presente nel provvedimento impugnato, ma nessuna strada di collegamento fra l’area pubblica e quella privata è mai stata prevista essendo l’intervento limitato all’apertura di un varco e alla realizzazione di un parcheggio a raso.

Il motivo è infondato.

Va in premessa precisato che, contrariamente a quanto sostenuto in appello, la rideterminazione dell’ordine di ripristino non interveniva «in assenza … di sopravvenienze di nuovi significativi elementi … di un corredo motivazionale diverso …di un riesame nel merito» atteso che, come già esposto, seguiva una pluralità di sopravvenute determinazioni sfavorevoli agli appellanti.

Quanto alla pretesa nullità dell’ordinanza per violazione del «giudicato cautelare», non può che rilevarsi come eventuali elusioni di una misura cautelare non possano mai riverberare nella nullità del provvedimento adottato, anche quando si risolvano in una mera conferma della misura sospesa (ipotesi che, in ogni caso, non ricorre essendo stato adottato, per le ragioni esposte, un nuovo ed autonomo provvedimento all’esito di una rinnovata istruttoria).

Come, infatti, pacifico in giurisprudenza «la nullità presuppone infatti il contrasto con sentenze formalmente passate in giudicato e non semplicemente il contrasto con una decisione cautelare priva, come tale, dell'efficacia di cosa giudicata (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1554)» (Cons. Stato, Sez. IV, 25 maggio 2022, n.4170).

Quanto alla censurata commistione fra i due interventi programmati, da eseguirsi sull’area pubblica e l’area privata che gli appellanti addebitano al Tar, non può che rilevarsi nuovamente che la stretta connessione fra le due iniziative, come più volte rilevato, è affermata dagli stessi appellanti che qualificano il secondo come «misura di compensazione» (oltre che, nel concreto, dalla stretta strumentalità delle opere esterne alla facilitazione del transito veicolare verso l’interno della proprietà privata) a fronte dell’esecuzione del primo.

È, altresì, evidenziato nelle narrative dei ricorsi proposti che la decisione di affiancare la realizzazione del microprogetto alla realizzazione del varco scaturiva da incontri informali con esponenti dell’amministrazione finalizzati ad individuare la soluzione più opportuna in vista del conseguimento di quest’ultimo risultato.

Tale accostamento, tuttavia, ha valore meramente descrittivo atteso che la misura ripristinatoria impugnata non trova fondamento nel rigetto dell’autorizzazione all’esecuzione del microprogetto (come emerge in tutta evidenza dai contenuti dell’ingiunzione impugnata) ma nel più volte rilevato contrasto dell’intervento con la disciplina urbanistica e paesaggistica, nonché, nell’abusiva esecuzione dello stesso nonostante il mancato conseguimento del necessario titolo abilitativo.

Con il terzo motivo, gli appellanti deducono «Error in iudicando sul terzo motivo di ricorso. Violazione e falsa applicazione che l’art. 47 comma 2 della L.R. 15 del 28.6.2017. Violazione e falsa applicazione dell'art. 37, comma 2, dpr 380/2001. Violazione del principio della divisione dei poteri» assumendo che l’unico profilo che differenzierebbe le due ordinanze di demolizione sarebbe rappresentato dal richiamo, contenuto solo nella seconda, all'art. 37, comma 2 DPR n. 380/2001, peraltro errato in quanto la norma disciplina l’esecuzione di interventi di restauro e di risanamento conservativo in assenza di S.C.I.A. mentre, nel caso di specie, si è in presenza di un intervento di demolizione senza ricostruzione».

A sostegno della pretesa illegittimità della misura impugnata allegano che ai sensi della L.R. n. 15/2017 recante norme per «adeguamento della legislazione regionale in materia di attività edilizia alla disciplina statale dei titoli abilitativi edilizi», i procedimenti edilizi e sanzionatori in corso alla data di entrata in vigore della medesima legge dovrebbero essere definiti sulla base della legislazione vigente al momento della presentazione della relativa istanza.

Espongono che dalla semplice lettura del provvedimento emergerebbe come il procedimento sanzionatorio fosse in corso al momento di entrata in vigore della legge regionale n. 15/2017 (si ricorda che l'ordinanza di sospensione lavori è del luglio 2016), per cui il provvedimento non avrebbe potuto essere assunto ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, dovendosi fare ancora applicazione della disciplina regionale.

La censura, a tacere dell’estrema genericità della formulazione che la rende di dubbia ammissibilità, è infondata.

Premesso che il generico richiamo alla disciplina di cui alla L. R. n. 15/2017 non è assistito da alcuna allegazione circa le ragioni per le quali l’intervento sarebbe in ipotesi assentitile ai sensi della normativa regionale, non può che rilevarsi, come peraltro ampiamente già illustrato, che la misura impugnata trova causa nella realizzazione di un intervento eseguito in difetto di «titoli legittimanti» in area vincolata in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (si rinvia sul punto al precedente inquadramento urbanistico dell’area interessata).

Il provvedimento, inoltre, richiama espressamente l’art. 167 del d. Lgs. n. 42/2004 a norma del quale «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese».

La necessaria adozione della misura ripristinatoria determina l’infondatezza del successivo capo di impugnazione (quarto motivo «Error in iudicando sul quarto motivo di ricorso. Violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di sanzioni edilizie. Violazione e falsa applicazione dell'art. 43 L.r. 16 del 2008, degli artt 6 bis, 22 e 37 dpr 380/2001. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, motivazione insufficiente, contraddittorietà estrinseca») con il quale viene dedotto che l’intervento avrebbe comportato la sola applicazione della sanzione pecuniaria in quanto da «considerarsi soggetto a CILA» ex art. 6 bis del d.P.R. n. 380/2001.

Con il quinto motivo, gli appellanti deducono «Error in iudicando sul quinto motivo di ricorso. Eccesso di potere per difetto di motivazione, travisamento dei fatti, contraddittorietà estrinseca. Violazione e falsa applicazione dell'art. 4 del dpr 9.7.2010, n. 139» evidenziando come l’ordinanza impugnata richiami genericamente il contrasto dell’intervento con il P.U.C. «non consentendo di cogliere lo specifico motivo di contrasto con lo strumento urbanistico».

A sostegno della censura invocano il già illustrato art. 4, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 139/2010 affermando che dette disposizioni imporrebbero «all’ufficio competente di poter proseguire con il procedimento paesaggistico solo dopo aver verificato la compatibilità paesaggistica dell’intervento con la disciplina urbanistica ed edilizia».

La doglianza non coglie nel segno.

Il richiamato art. 4, comma 2, dispone, infatti, che «l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione, entro il termine di cui al comma 2 dell'articolo 3, verifica preliminarmente, ove ne abbia la competenza, la conformità dell'intervento progettato alla disciplina urbanistica ed edilizia» prevedendo tuttavia che «in caso di non conformità dell'intervento progettato alla disciplina urbanistica ed edilizia, l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dichiara l’improcedibilità della domanda di autorizzazione paesaggistica, dandone immediata comunicazione al richiedente».

La censura, nei termini suesposti, sconta pertanto la mancata considerazione che il contrasto dell’intervento di demolizione con la disciplina urbanistica integra uno dei presupposti sui quali, come ampiamente esposto, si fonda l’ordinanza censurata.

Risulta, quindi, priva di fondamento l’affermazione degli appellanti per la quale «l’ufficio ha ritenuto l’intervento conforme alla disciplina urbanistica tant’è che ha proseguito nell’iter paesaggistico sottoponendola pratica all’esame della Commissione locale per il paesaggio e inoltrando il parer favorevole acquisito alla soprintendenza».

Basti sul punto rilevare che, come precedentemente esposto, il procedimento paesaggistico in questione non si è mai concluso con il rilascio della relativa autorizzazione, il cui difetto costituisce presupposto dell’ingiunzione di demolizione censurata (e che la C.P.L. in seguito si è espressa in senso favorevole alla demolizione).

Priva di pregio è, infine, l’affermazione per la quale il Comune avrebbe rinvenuto il contrasto con il P.U.C. non tanto nella demolizione del muro ma nella «natura irregolare e frastagliata dei bordi dell’apertura».

È infatti, pacifico, che l’amministrazione contestava l’avvenuta demolizione di un muro soggetto a vincolo in difetto di titolo disponendone il ripristino, prescindendo dalla linearità o meno dello squarcio creato nel manufatto che, in ogni caso, è elemento privo di significato ai fini del giudizio di abusività dell’intervento.

Con il sesto motivo gli appellanti deducono «Error in iudicando sul sesto motivo di ricorso. Difetto assoluto di motivazione. Violazione e falsa applicazione art. 37, comma 2 dpr 6.6.2001, n. 380. Eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria» censurando l’importo della sanzione definito nella misura di € 1.033,00 senza motivare circa la mancata applicazione del minimo edittale pari a € 516,00.

Circa tale specifico profilo, gli appellanti deducono che il Tar avrebbe omesso di scrutinare la censura richiamando «un sesto motivo in realtà non formulato» statuendo che «anche in questo caso la considerazione dell’attività edilizia va estesa alla incontestata volontà realizzativa anche della strada di collegamento, sì che non è possibile ritenere che la violazione sia consistita nella sola realizzazione della breccia nel muro».

Evidente sarebbe, quindi, il travisamento in cui incorreva il Tar nel ritenere che l’attività edilizia contestata comprendesse anche la realizzazione di una «fantomatica strada di collegamento né richiesta né realizzata».

Sul punto deve riconoscersi che la statuizione del Tar non è pertinente alla censura formulata in primo grado negli esatti termini riproposti in appello: profilo che comporta lo scrutinio della doglianza in questa sede in ossequio al già evocato effetto devolutivo dell’appello.

Ciò premesso, deve affermarsi che la censura, ancorché con differente motivatone non può che essere respinta.

Deve in premessa rilevarsi che ai sensi dell’art. 37, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, l’amministrazione, accertata l’abusività dell’intervento, «irroga una sanzione pecuniaria da 516 a 10329».

La sanzione nel concreto irrogata, come anticipato di importo pari a € 1.033,00 è, quindi, prossima al minimo edittale nonostante l’ordinanza impugnata offra una descrizione della condotta sanzionata non certo qualificabile come lieve.

Il provvedimento censurato, infatti, dà atto che nell’occasione si è «ritenuto doveroso adottare i debiti provvedimenti», ovvero l’ingiunzione di demolizione e la sanzione pecuniaria, «trattandosi di interventi su aree sottoposte a vincolo paesistico ambientale» evidenziando nel medesimo articolato motivazionale che la demolizione del muro avveniva «in assenza di titoli abilitativi e nonostante il mancato perfezionamento della S.C.I.A. … nonché, in assenza di autorizzazione paesaggistica».

Lo scostamento dell’importo irrogato dal minimo edittale, peraltro minimale, trova pertanto esaustiva giustificazione e va esente da evidenti profili di macroscopica illogicità.

Con il settimo motivo gli appellanti deducono «Error in iudicando sul settimo motivo di ricorso. Illegittimità derivata per illegittimità del provvedimento prot. 5782 del 22 aprile 2017 con cui il Comune di Porto Venere ha negato il rilascio dell'accertamento di compatibilità paesaggistica» lamentando l’illegittimità del diniego di autorizzazione paesaggistica riferito all’apertura del varco riportandosi alle censure già formulate in primo grado con il ricorso n. 483/2004.

Circa il presente capo d’impugnazione è sufficiente rilevare che detto giudizio veniva definito con sentenza di rigetto n. 456/2017, impugnata con appello n. 10648/2018, sopra scrutinato e già ritenuto infondato.

Con l’ottavo motivo, gli appellanti deducono «Error in iudicando sull’ottavo motivo di ricorso. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione. Perplessità».

Gli appellanti premettono che l’ordinanza disponeva il ripristino senza «indicazione delle modalità con cui lo steso deve essere effettuato» e censurano la sentenza impugnata laddove il Tar si sarebbe limitato «genericamente ad osservare» che «è stato più volte statuito in giurisprudenza che in determinati casi l’attività ripristinatoria successiva ad un abuso va assentita con un idoneo titolo, sì che è in tale sede che i dubbi palesati dalle parti private andranno risolti» senza, tuttavia, specificare «se e perché questo sia uno di quei casi».

Il motivo è infondato.

Premessa l’univocità dell’espressione lessicale «restituzione in pristino», da intendersi come riconduzione del manufatto alla consistenza preesistente all’abusivo intervento di demolizione, non può che rilevarsi come l’esecuzione materiale della ricostituzione del muro afferisca alla fase esecutiva dell’adempimento ordinato senza ricadute in punto di legittimità della misura demolitoria.

Per quanto precede gli appelli in epigrafe specificati, previa riunione, devono essere respinti con condanna degli appellanti al pagamento delle spese di giudizio nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti, come in epigrafe proposti, li respinge.

Condanna gli appellanti in solido al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in € 8.000,00 oltre oneri di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2022 con l'intervento dei magistrati:

Sergio De Felice, Presidente

Alessandro Maggio, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere

Marco Poppi, Consigliere, Estensore

Giovanni Pascuzzi, Consigliere