I RIFIUTI INDUSTRIALI ED URBANI AMMESSI AL REGIME DELLE FONTI RINNOVABILI (Prime considerazioni sull’art. 17 del D.Lgs. 29/12/2003 n. 387, di attuazione della direttiva 2001/77/CE).
di Pasquale Giampietro
- Il contenuto della norma.
Con un lieve ritardo di marcia, rispetto a quanto imposto dalla U.E. (27 ottobre 2003, ex art. 9), il Governo ha varato il D. Lgs n. 387 del 29 dicembre 2003, di attuazione della direttiva 2001/77 CE, sulla “promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”.
Ometto, per ragioni di spazio, il significato, la portata e il contesto normativo in cui tale rilevante provvedimento si colloca [1], per concentrare la mia attenzione su di un tema cruciale – anche se visto con sospetto dai più… - rappresentato dalla estensione del regime di sostegno finanziario, introdotto per le fonti rinnovabili c.d. “pure”, ai rifiuti, cioè a quelle sostanze (residue della produzione o del consumo) considerate, e spesso non a torto, con apprensione, proprio in ragione della loro pericolosità (siccome “impure” …).
Lo scabroso argomento è, dunque, affrontato, in modo diretto (anche se non senza residue ambiguità) dall’art. 17 il quale prevede, per l’appunto, come anticipato dalla sua rubrica, la “inclusione dei rifiuti tra le fonti energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili”.
Con tale disposto il Governo certamente amplia la materia, a suo tempo delimitata dalla direttiva 2001/77 CE, che adottava una definizione di fonti energetiche rinnovabili assai più ristretta (tanto si desume dalla lettura del suo art. 2, ove non compare la parte non biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani).
Ma tale dilatazione (già esplicitata dall’art. 2 del nuovo decreto legislativo, destinato alle “definizioni”), oltre ad essere stata ritualmente annunciata dal nostro Esecutivo in sede comunitaria (per gli obiettivi, del tutto ragionevoli, indicati nella nota 1 dell’unico Allegato alla direttiva cit.), risulta del tutto legittima, secondo l’ordinamento interno, perché espressamente voluta dal Parlamento italiano nella legge di delega n. 39/2002, il cui art. 43 indica, fra i suoi “principi e criteri direttivi”:
a) la necessità di “individuare gli obiettivi indicativi di consumo futuro di elettricità da fonti rinnovabili di energia sulla base di previsioni realistiche, economicamente compatibili con lo sviluppo del paese”;
b)
“assicurare che i regimi di sostegno siano compatibili con i
principi di mercato dell’elettricità e basati su meccanismi che favoriscano
la competizione e la riduzione dei costi”;
c) “includere, tra le fonti energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, i rifiuti, ivi compresa la frazione non biodegradabile”.
Nel dare esecuzione a tali criteri, con riferimento alla ammissione – dei rifiuti – ai benefici riservati alle fonti rinnovabili, l’art. 17 viene articolato in tre commi:
– nel primo, si ammettono al beneficio “i rifiuti, ivi compresa la frazione non biodegradabile ed i combustibili derivati da rifiuti”. Con la conseguenza che “agli impianti, ivi comprese le centrali ibride, alimentati da suddetti rifiuti e combustibili si applicano le disposizioni del presente decreto” (con esclusione, quanto alle frazioni non biodegradabili, dell’applicabilità dell’art. 11);
– nel terzo comma si prevede che, entro 120 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento, con decreto del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente, sentite le competenti Commissioni parlamentari e d’intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni, saranno individuati ulteriori rifiuti, in aggiunta a quelli individuati dal comma 1, ammessi a beneficiare dello stesso regime giuridico proprio delle fonti rinnovabili, “ferme restando” le esclusioni del comma 2;
– in detto secondo comma, del tutto inopinatamente, rispetto alle precedenti bozze del decreto (salvo l’ultima), e in evidente allontanamento dal “criterio direttivo” dell’art. 43, lett. e) della legge delega, sopra richiamato, si escludono dal regime riservato alle fonti rinnovabili, una rilevante ed estesa tipologia di rifiuti, quali:
o le fonti assimilate alle fonti rinnovabili, di cui all’art. 1 comma 3, della legge 9/1/1991 n. 9;
o i beni, i prodotti e le sostanze derivanti da processi il cui scopo primario sia la produzione di vettori energetici o di energia;
o i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite nel D.P.C.M. 8/3/2002 e successive modificazioni.
- Primi
rilievi sulla redazione del testo.
Benché lo scopo delle presenti note sia quello di verificare la opportunità, ragionevolezza e legittimità delle esclusioni poste dal comma 2 (v. par. successivo), non può tacersi che i commi 1 e 3 suscitano alcuni dubbi interpretativi certamente dovuti ad una scrittura del testo che presenta delle approssimazioni e significative incoerenze.
In particolare, per quanto riguarda “la frazione non biodegradabile” dei rifiuti, l’ammissione al beneficio del regime riservato alle “fonti rinnovabili” (v. commi 1 e 3) comprende “anche” (cioè si estende) “a misure promozionali” – come sembra indicare l’espressione parentetica citata (“anche tramite il ricorso a misure promozionali”) - ovvero, per questa “frazione non biodegradabile”, saranno previste, in alternativa, solo “misure promozionali”(essendo il regime delle fonti rinnovabili riservato unicamente alla frazione biodegradabile dei rifiuti)?
Ma, a causa della incerta costruzione sintattica del periodo, neppure risulta chiaro se il ricorso a “misure promozionali” sia esclusivamente rivolto alla frazione non biodegradabile dei rifiuti, di cui al primo comma, in quanto il ricorso eventuale - a tali misure - è ripreso dal comma terzo, in relazione alla futura individuazione degli “ulteriori rifiuti e combustibili derivati da rifiuti ammessi a beneficiare al regime riservato alle fonti rinnovabili”, senza alcuna limitazione alla “frazione non biodegradabile”.
Con riferimento ai rifiuti recuperabili, siano essi urbani, speciali o pericolosi, la citazione degli artt. 31-33 del D.Lgs. 5/2/1997 (decreto Ronchi) - concernenti l’individuazione dei rifiuti ammessi alle procedure semplificate di recupero - rinvia, logicamente, agli adottati DD.MM. 5/2/1998 e 12/6/2002 n. 161, attuativi di quei disposti. Ma, mentre per i rifiuti urbani e speciali, sono stati già individuati i rifiuti recuperabili come “combustibili o come altro mezzo per produrre energia” (v. Allegato 2, Suballegato 1, del D.M. del ’98 cit.); per i rifiuti pericolosi manca del tutto tale individuazione (il D.M. n. 161/02 disciplina unicamente il recupero dei rifiuti pericolosi per produrre materia, senza estendersi al recupero energetico).
A questo punto ci si deve chiedere – con riferimento al tema della indicazione dei rifiuti ammessi ai benefici connessi al regime delle fonti rinnovabili – quando entrerà in vigore la norma in esame? La risposta del decreto ci sembra poco chiara, così come formulata dal comma 4 dell’articolo, il quale detta: ”Fatto salvo quanto disposto al comma 1, l’ammissione dei rifiuti e dei combustibili derivati dai rifiuti al regime giuridico riservato alle fonti rinnovabili è subordinata all’entrata in vigore del decreto di cui al comma 3”.
Orbene, se il precetto si rivolge a tutte le tipologie di rifiuti – quelli del comma 1, di cui agli artt. 31-33 cit. e “gli ulteriori rifiuti e combustibili derivati da rifiuti” (che saranno individuati dai decreti previsti dal comma 3) – essa non sembra del tutto logica, quantomeno per quei rifiuti, del comma 1, già elencati dal decreto attuativo del 5.2.1998 (per i quali il beneficio viene ritardato senza ragione, essendo stati già determinati).
Se, invece, ci si riferisce solo agli “ulteriori rifiuti e combustibili da rifiuti”, di cui al comma terzo (come sembra far supporre la frase d’esordio del comma: “ Fatto salvo quanto disposto dal comma 1”), allora sarebbe stato opportuno scrivere meglio detta limitazione (che, invece, appare onnicomprensiva nella sua dizione: “.. l’ammissione dei rifiuti e dei combustibili da rifiuti è subordinata all’entrata in vigore del decreto di cui al comma 3”).
- Profili
di legittimità del decreto secondo i principi della legge-delega: le
esclusioni.
Si è già sottolineato che, per il disposto in esame, solo i rifiuti già individuati espressamente nei citati decreti ministeriali 5/2/1998 e 12/6/2002 n. 161 ovvero di prossima individuazione con altro decreto, da emanare entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 387/2003, possono godere dei benefici riservati alle fonti energetiche rinnovabili, solamente o eventualmente tramite (“anche tramite”) misure promozionali diverse dai certificati verdi (con riferimento ai rifiuti non biodegradabili).
Peraltro, a tali benefici, non
possono accedere, ex comma 2:
- le cosiddette fonti assimilate, i prodotti derivanti da processi tesi alla produzione di vettori energetici o di energia, nonché i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche del D.P.C.M. 8 marzo 2002 (il quale disciplina espressamente e unicamente le caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell’inquinamento atmosferico).
Si tratta, a questo punto, di
verificare se tali esclusioni si pongano, o meno,
nell’area
segnata dai limiti
dell'investitura parlamentare del Governo, posti dalla
legge di delega del
1° marzo 2002, n. 39 ("Legge comunitaria 2001”), limiti
che segnano, com’è noto, il presupposto stesso di legittimazione - a
legiferare - dell'Esecutivo.
Nella specie, essi sono
costituiti, come accennato, "dai principi e criteri direttivi” posti dall'art.
43 della “delega”, tra cui si impone, come direttiva fondamentale e
inderogabile, quella di “includere,
tra le fonti energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti
rinnovabili, i rifiuti, ivi compresa la frazione non biodegradabile”
e, perciò, tutti i rifiuti senza
alcuna limitazione: urbani od industriali, organici od inorganici
(in coerenza, quindi, con la menzionata dichiarazione italiana
inserita nella nota all’Allegato unico della direttiva 2001/77/CE, sopra
evocata).
In tal modo, pur non recuperando una nozione unitaria di fonte
rinnovabile (come si trovava, invece, nel D.Lgs. 79/99, la c.d. legge Bersani) e
tenendo anche conto di quanto indicato nell’8° “Considerando” della
direttiva U.E. cit. (secondo il quale,
allorché utilizzano i rifiuti come fonti energetiche, gli Stati membri sono
tenuti a rispettare la normativa comunitaria vigente in materia di gestione
dei rifiuti), la legge-delega ha omesso - e dunque escluso – di
indicare ogni persistente e superata contrapposizione
fra parte "biodegradabile" e parte "non
biodegradabile" dei rifiuti (urbani e industriali), optando,
del tutto correttamente, sul piano tecnico oltre
che giuridico, per un regime privilegiato di ammissione ("sono ammessi a beneficiare..") "al regime giuridico riservato alle fonti rinnovabili"
di tutti i rifiuti (anche dei rifiuti
inorganici, come i residui di produzione
delle raffinerie), purché classificabili - come tali (rifiuti) - in
base alla normativa comunitaria e nazionale.
Sotto tale primo, specifico profilo il comma 2 dell’art. 17,
nell’introdurre le esclusioni indicate, contraddice la nozione unitaria e
onnicomprensiva di rifiuto, voluta dall’art. 43, comma 1, lett. e) cit., il
quale non prevede
né lascia spazio a distinguo e/o esclusioni.
Ma, a nostro avviso, detta discriminazione (fra rifiuti ammessi e rifiuti esclusi da qualsiasi regime di favore e/o “misura promozionale”) va a collidere, anche, con altri importanti principi e criteri direttivi della delega, ispirati a criteri di opportunità e ragionevolezza, individuati di seguito:
q quello di fare riferimento a previsioni realistiche, economicamente compatibili con lo sviluppo del Paese, nell’individuare gli obiettivi indicativi di consumo futuro di elettricità da fonti rinnovabili, ex art. 43, comma 1, lett. a);
q quello di compatibilità (ovviamente giuridica, economica e di sistema) fra i “regimi di sostegno ", riservati alle fonti rinnovabili ed estesi ai rifiuti (ivi "compresa la loro frazione non biodegradabile") e " i principi di mercato dell'elettricità" (fatta oggetto di liberalizzazione, sin dal '99). Si intende dire, fra l'altro, che tali regimi dovranno essere necessariamente "basati su meccanismi che favoriscono":
a) "la competizione" fra produttori, eliminando o riducendo normative privilegiate e/o sbilanciate in favore di alcune fonti - ammesse ai benefici - a danno di altre (parimenti ammesse); tali regimi di sostegno non potranno che essere "…basati su meccanismi che favoriscono la competizione ", effettiva e non di facciata,
b) "la riduzione dei costi" di produzione di tale energia, secondo tecnologie sempre più convenienti e a bassi costi (oltre che in conseguenza della prescritta "competizione"), ex art. 43, comma 1, lett. lett. c).
Non
può al riguardo essere sottaciuto anche il fatto che i
principi e criteri direttivi, posti dalla legge di delega, oltre
ad una valenza giuridica di obbligatorietà e di non superamento, onde
non incorrere nel vizio di incostituzionalità per eccesso di delega,
hanno anche una portata politica, rappresentando, nella fattispecie, le
prospettive di politica energetica ritenute valide ed approvate dal Parlamento,
in sede di delega, e poste come obiettivo indefettibile al Governo da cui è
incoerente discostarsi.
In definitiva, il suddetto art. 17, operando in eccesso di delega rispetto all’art. 43 della legge 1/3/2002 n. 39 ed, in particolare, allontanandosi dai principi e criteri direttivi elencati – i quali non contemplano né tollerano, sul piano della legittimità, la possibilità di porre esclusioni, limitazioni e/o discriminazioni nell’ambito di una nozione unitaria di rifiuto (che comprende esplicitamente anche la frazione non biodegradabile del rifiuto inorganico) – suscita serie perplessità di tenuta giuridica, sotto il profilo del prospettato eccesso di delega, con riferimento, per es., ai rifiuti petroliferi (di cui al comma 2), per i quali, come si dirà, non è più consentito riesumare una vecchia distinzione fra fonti rinnovabili pure e fonti assimilate (v., oltre, par. 4) respinta dal legislatore, a partire dalla riforma del mercato dell’energia di cui al decreto Bersani del ’99.
- Sulla
fonti assimilate.
Entrando - ora - nel merito delle esclusioni previste dal comma 2 dell’art. 17, possono evidenziarsi ulteriori profili di incoerenza con il sistema normativo vigente, oltre che di irragionevolezza sostanziale.
La lettera a), del comma 2, esclude dal regime riservato alle fonti rinnovabili e dalle previste (e/o alternative) “misure promozionali”, le “fonti assimilate alle fonti rinnovabili, di cui all’art.1, comma 3, della legge 9/1/1991 n. 10”.
Tale prima esclusione solleva gravi perplessità, innanzitutto perché, ed in via preliminare, si reintroduce inopinatamente una distinzione tra fonti rinnovabili e fonti assimilate a quelle rinnovabili, prevista dalle leggi nn. 9 e 10 del 1991 (in particolare, dall’ art. 1, comma 3 della legge n. 10/91 e dall’art. 22, comma 5 della legge n. 9/91) del tutto superata (recte, abrogata) dalla legislazione successiva, ispirata a criteri marcatamente innovativi dell’instaurato libero mercato dell’energia.
Tale ultima, vigente legislazione non contempla, infatti, né menziona più tale distinzione (ci riferiamo, in particolare, al quadro normativo delineato dal D.Lgs. 79/1999 - c.d. decreto Bersani - e dalla legge Comunitaria 2001, n. 39/02 cit., alle cui nuove definizioni - era verosimile attendersi – facesse esclusivo riferimento l’art. 17) .
Quando, con deliberazione 29/4/1992, il C.I.P. (con provvedimento n. 6/1992), a ciò incaricato dal legislatore (v. gli artt. 20 e 22 della legge n. 9 del 1991 nonché la legge n. 10/199l) metteva a punto tali nozioni, esso indicava come “fonti rinnovabili” (ex lett. a, della prima disposizione della delibera):
1) “il sole, il vento, l’energia idraulica, ecc… e la trasformazione dei rifiuti organici e inorganici o di prodotti vegetali”. Si sottolinea, dunque, sul punto che anche i rifiuti inorganici erano annoverati fra le fonti rinnovabili in senso stretto o “pure”.
Nella lett. b) della stessa disposizione, gli impianti alimentati da “fonti assimilate a quelle rinnovabili” erano indicati come quelli di:
2) “ cogenerazione.. ;
3) (e quelli che utilizzavano) “il
calore di risulta;
4) “i fumi di scarico”;
5) “altre forme di energia recuperabile in processi e in impianti; (quelli che utilizzavano)
6) “gli scarti di lavorazione e/o di processi;
7) “fonti fossili prodotte esclusivamente da giacimenti minori isolati”.
A parte l’approssimazione, genericità e vetustà di tali classificazioni, del tutto improponibili – e quindi incompatibili con l’attuale normativa di settore (dell’energia e della gestione dei rifiuti) - resta fermo che:
-
“la trasformazione dei rifiuti
organici ed inorganici” in energia (sub 1) viene collocata fra
le fonti rinnovabili.
Mentre sono considerati come “alimentati da fonti assimilate a quelle rinnovabili”:
- “gli impianti che utilizzano gli scarti di lavorazione e/o di processi (sub 6).
Resta – ora - da riflettere sulla contrapposizione, operata dal CIP/6 nel 1992, fra “rifiuti” e “scarti di lavorazione o di processo” che, dopo l’entrata in vigore del decreto Ronchi (d. lgs n. 22/97), risulta, com’è ben noto, totalmente caducata.
Quella
distinzione (o contrapposizione di categorie) era, evidentemente, formulata (e
giustificata) in base alla normativa dell’epoca, che considerava distintamente
lo “smaltimento dei rifiuti” e dall’eventuale recupero degli scarti o dei residui industriali (secondo la nomenclatura del DPR
10/9/1982 n. 915 e successive modifiche e integrazioni). In detto contesto si
intendeva per rifiuto, con previsione
limitativa, “qualsiasi sostanza od
oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o
destinato all’abbandono” (sicché tutte le altre sostanze residuali di
attività umane, suscettibili di recupero, rientravano nel concetto di scarti
di lavorazione; in effetti, come
evidenziato, il citato DPR 915/82 disciplinava il solo “smaltimento” dei
rifiuti).
Quando, pertanto,
l’art. 17, comma 2, lett. a) fa
nuovamente…. riferimento alla categoria delle “fonti assimilate alle fonti
rinnovabili, di cui all’art. 1, comma 3 della legge 9/1/1991 n. 10”,
l’odierno interprete (o comunque l’autorità pubblica – amministrativa o
giurisdizionale - chiamata ad applicare e a far applicare la previsione), non
soltanto dovrà tener conto della successiva
classificazione del CIP/6 del 1992, sopra riportata, ma anche della circostanza
fondamentale che la sopravvenuta
normativa, in materia di recupero energetico dei rifiuti, di cui al D.Lgs.
22/1997 (di matrice comunitaria… oltre che la nuova legislazione sul mercato
dell’energia) conosce un unico ed
unitario concetto di rifiuto. Il quale, a sua volta, comprende qualsiasi sostanza, oggetto,
scarto e/o residuo, di produzione o di consumo, destinato al recupero
(anche energetico)
o allo smaltimento.
La nuova definizione normativa
di rifiuto (“qualsiasi sostanza od
oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”), ha
espressamente cancellato (cioè abrogato) qualsiasi precedente
definizione, non solo del citato DPR 915/82 (v. l’art. 56 del d.lgs. n.
22/97 cit.) ma anche di quelle disposizioni del settore dell’energia
(si pensi alle leggi nn. 9 e 10 del 1991, citt. nelle esplicitazioni e
classificazioni del CIP/6) che richiamavano, ovvero recepivano le precedenti classificazioni e definizioni del
DPR n. 915/’82.
4.1 Conferme dal giudice comunitario.
E’ noto a tutti che la normativa attualmente vigente, come interpretata, in modo vincolante dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E., ha superato, sul piano giuridico e di fatto, la precedente distinzione tra rifiuto e scarto di lavorazione, ampliando al massimo il concetto di rifiuto, che abbraccia, al presente, tutte le tipologie indicate nelle voci dell'allegato A del d.lgs n. 22/97, qualora siano fatte oggetto di “disfarsi” cioè di un’attività di recupero (anche energetico oltre che di materia) o di smaltimento.
L’Allegato A riproduce il Catalogo Europeo dei Rifiuti, nell'ultima versione derivante dalle decisioni della Commissione CE 532/2000 e nn. 118 119/2001 CE) che si estendono a ricomprendere anche: i "Residui di produzione e di consumo" (Q1); i "Prodotti fuori norma" (Q2); i "Residui di processi industriali (ad esempio residui di distillazione)" (Q8); i "Residui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime" (Q11) quali, ad esempio, “i residui provenienti da attività petrolifere" (si veda altresì la classe o capitolo CER 05 00).
Dette tipologie possono formare oggetto non solo di un’attività di
smaltimento (come un tempo: "sostanza abbandonata o destinata
all'abbandono") ma anche di operazioni
di "recupero" (effettuate sul
residuo industriale, sottoprodotto,
materia di scarto, prodotto fuori specifica tecnica,
prodotto fuori norma, ecc.) al fine di ottenere "materia prima"
ovvero per "…. l’utilizzazione principale dei rifiuti come
combustibile o come altro mezzo per produrre energia" (v. art. 4,
comma 1, lett. b) e d); e art. 6, comma 1, lett. a) e lett. h) per la nuova
definizione di rifiuto, ex d. lgs
n. 22/97 cit.).
Diversamente argomentando, dovremmo concludere, infatti, che anche i rifiuti contemplati dai DD. MM 5/2/1998 e 12 /6/2002 n. 161, in quanto scarti di lavorazione, sono fonti assimilate, contrariamente a quanto previsto dal 1° comma dell’art. 17.
Coerentemente
e conclusivamente: l’art. 17,
comma 2, lett. a) – nel momento in cui richiama l’art. 1 della legge n.
10/91, con riferimento alle “fonti assimilate” – deve essere letto in
base all’odierna nozione, comunitaria e nazionale, di “rifiuto
recuperabile”, introdotta, ex novo, dal D.Lgs. 22/1997 (decreto Ronchi), ripresa dal
D.Lgs. 79/99 (decreto Bersani) e consacrata definitivamente dalla
Legge Comunitaria 2001 (legge n. 39/02).
Gli impianti che utilizzano, per produrre energia, “scarti di lavorazione e/o di processi”, da classificare come “rifiuti” in base alla vigente normativa comunitaria e nazionale appena richiamata, devono pertanto essere considerati alimentati da fonti rinnovabili (rectius, ammessi a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, ex art. 17, comma 1 e 3) e non più da “fonti assimilate”.
5.
I residui petroliferi: il significato di un’esclusione.
In ideale pendant con il testo dell’art. 23, del disegno di legge Marzano, nella versione approvata dalla Camera dei Deputati il 16 luglio 2003, il comma 2, lett. b) dell’art. 17 esclude dal regime delle fonti rinnovabili:
- “i beni, i prodotti e le sostanze derivanti da processi il cui scopo primario sia la produzione di vettori energetici o di energia”.
Il problema che intendiamo porre, con riferimento a tale esclusione, attiene alla sua riferibilità o meno a vicende industriali diverse dalla lavorazione (raffinazione/distillazione) dei greggi, “il cui scopo primario” è produrre oli combustibili (alias, “vettori energetici”).
Ci riferiamo, nello specifico, a
distinte attività produttive, come
quelle dell’industria petrolchimica la quale si contrappone al comparto
delle raffinerie tradizionali in quanto utilizza i prodotti petroliferi non
con lo "scopo primario di produrre vettori energetici o energia"
ma per realizzare merci o prodotti per
uso industriale quali sostanze plastiche, gomme sintetiche, ecc.).
Da tali premesse, in punto di fatto, possono logicamente trarsi le seguenti conclusioni:
-
la "regola"
della qualificazione dei rifiuti, come "fonti rinnovabili" (v.
sopra) ovvero ammessi al regime delle
fonti rinnovabili (rifiuti organici ed inorganici, urbani e industriali,
ecc.), di cui al primo e terzo comma dell’art. 17,
subisce una eccezione (comma
2) per i residui derivanti dai”.. processi
(segnatamente di raffinazione dei petroli greggi)
“il cui scopo primario sia la
produzione di energia e di vettori energetici”
(logicamente intesi come prodotti normalmente destinati a produrre energia,
dotati di energia potenziale e facilmente trasportabili sui luoghi di effettiva
utilizzazione come energia utile);
-
per nessuna ragione, logica e giuridica si è autorizzati, in
sede interpretativa ed applicativa, a
dilatare, in via analogica, tale eccezione a fenomeni (come quelli della
produzione della petrolchimica) affatto
diversi e specifici (non compresi e quindi esclusi
dal legislatore, nella esplicitazione tassativa
di vicende poste in eccezione alla regola).
Siffatta operazione ermeneutica e/o applicativa - volta ad estendere la
portata della previsione “eccezionale” a casi o vicende non
previste espressamente da essa - risulta, infatti, vietata dal nostro codice comune, ai
sensi dell'art. 14, delle "Disposizioni sulla legge in
generale" (dette "Preleggi") il quale, come è noto, esclude
l'interpretazione analogica delle norme
che "fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi" in quanto la
previsione, di natura eccezionale, "non
si applica oltre i casi e i tempi in essa considerati".
Come si è sottolineato, nella vigente legislazione (D.Lgs. n. 79/99,
legge n. 39/02, D.Lgs. n. 22/97 ed art. 17 del D.Lgs. 387/03), la norma generale è rappresentata dalla qualificazione dei
rifiuti, organici ed inorganici, come fonti di energia ammesse a beneficiare del
regime delle fonti rinnovabili.
Costituisce, invece, norma eccezionale l'esclusione di alcuni residui (indicati come
"prodotti, sostanze o beni") derivanti da "processi il cui scopo
primario sia la produzione di vettori energetici ed energia".
Dando retta applicazione all'art. 14, cit. non è consentito, dunque, estendere, in via analogica, tale previsione
"eccezionale" ad altri casi (ad esempio lavorazione dei greggi per la
fabbricazione di prodotti civili e industriali) non previsti né dalla
lettera della previsione derogatoria né riconducibili alla
sua ratio[2].
Per quanto detto, e conclusivamente, la lettera b) del
comma 2 dell’art. 17, non
consente, per il suo dato testuale
("significanza dei segni linguistici con i quali si esprime": residui
costituiti da "prodotti, sostanze e beni…. scopo primario dei
processi…. produzione di vettori energetici") e
per la sua ratio (volta ad
escludere, dall'area del beneficio dei certificati verdi, l’industria
della raffinazione per la produzione dei vettori energetici, come sopra
individuati) alcuna applicazione
estensiva o analogica a
casi - del tutto specifici e diversi -
come quello dell’industria petrolchimica.
6.
Delimitazione della nozione di combustibili, fuori norma, rilevanti per
l’inquinamento atmosferico.
Ancora più difficoltosa e suscettibile di censure si presenta la terza
previsione di esclusione di cui alla lettera
c), del comma 2 del disposto, in esame,
per la quale sono esclusi:
- “i
prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite nel DPCM
8/3/02 e successive modifiche ed integrazioni”.
Tale eccezione è frutto di una opzione legislativa molto sofferta e confusa che segue a scelte governative di segno
totalmente opposto ovvero in precedenza mancati.
In questa sede è sufficiente rammentare che detta esclusione era assente
in bozze anteriori alla stesura
assunta dal disposto, in commento, e che la formulazione, da ultimo ricordata,
riproduce, comunque, analoga dizione rintracciabile nell’art. 22, comma 8, di
una recente bozza del disegno di legge Marzano cit., poi ripresa dal Senato
(seduta del 16.7.2003) nell’art. 23, commi 7 e
8. Quivi si annoverano, infatti, tra le
esclusioni al regime giuridico de quo,
“i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche
definite dal DPCM 8.3.2002” (7°) mentre si
ricomprendono, fra i benefici, “i
combustibili derivanti da rifiuti anche se inclusi nei combustibili
di cui al D.P.C.M. 8.3.2002”.
Da tale pur sintetica
riflessione si possono formulare almeno due
constatazioni:
-
gli orientamenti parlamentari, sul tema, sono
risultati fortemente divaricati (e la divaricazione persiste nell’attuale
fase di approvazione della legge Marzano), in quanto alle scelte da compiere
sottostanno persistenti conflitti politici e (a volte solo) ideologici oltre che
significativi interessi corporativi;
-
l’uso dei termini tecnici e delle classificazioni giuridiche appare notevolmente approssimativo e sovente vengono impiegati, con
significati diversi e/o incerti, vocaboli in uso in un settore (quello
energetico: prodotti energetici, combustibili) riferiti a sostanze od oggetti
diversamente qualificati o denominati dalla normativa sulla gestione dei
rifiuti. Tale terminologia promiscua o di diversa provenienza crea
malintesi e/o equivoci (v. oltre).
Nel merito, partendo da una
interpretazione letterale e sistematica dell’art. 17, anche alla luce delle
considerazioni svolte al punto precedente, perfettamente estensibili
all’ipotesi ora in esame, sembra di poter affermare che la
lett. c) del comma 2, si limiti a concentrare la sua attenzione ai “prodotti
energetici”, senza alcun riferimento ai
rifiuti e ai “combustibili derivati
da rifiuti” (che, nell’ultima versione della bozza Marzano, erano
contemplati come eventualmente “.. inclusi nei combustibili del D.P.C.M.
2.3.2002”) i quali restano, dunque, ricompresi
nella disciplina del comma 1.
Quanto ai (soli) “prodotti energetici” essi vengono distinti
in conformi o difformi (“che non rispettano”) dalle caratteristiche
merceologiche e dalle altre prescrizioni tecniche introdotte dal D.P.C.M. 8.3.
2002 cit., con esclusione – per questi
ultimi – dal regime di favore riservato alle fonti rinnovabili.
Si tratta, a questo punto, di
verificare se tale categoria
merceologica e giuridica (di “prodotti energetici”, in specifica o
fuori specifica), desunta dalla normativa del settore energetico
- anche se di notevole rilevanza ai fini dell’inquinamento atmosferico
(si vedano le fonti richiamate nel preambolo del decreto relative al pet-coke,
ai combustibili e carburanti, ai grandi impianti di combustione, al contenimento
dei consumi energetici, al biodisel, ecc.) - sia riferibile, ed in che termini, alle imprese dell’industria
petrolchimica.
A noi sembra evidente, per ragioni testuali (“prodotti energetici”) e
di sedes materiae (normativa del
settore energetico) che l’esclusione della lett. c), riguarda unicamente i prodotti
appositamente ed espressamente fabbricati al fine di essere utilizzati per
produrre energia. Prodotti che, nel corso delle lavorazioni, per un qualsiasi motivo,
soprattutto e quasi sempre tecnologico, non risultino “a norma”, ma che
potrebbero essere ricondotti “a norma” attraverso una corretta rilavorazione
all’interno dello stabilimento di produzione.
Il legislatore, in altre parole, si
rivolge - per escluderli - a quei prodotti
petroliferi specificamente fabbricati per essere commercializzati ed
utilizzati come “carburanti” e/o “combustibili”, usciti dalla linea di
processo difformi,
in tutto o parte, dalle specifiche
“merceologiche e tecniche” (normativamente imposte) cioè non rispettosi
delle caratteristiche rilevanti per
l’inquinamento (fermo restando, come rilevato, che essi
sono suscettibili, sotto il profilo tecnico-economico, di essere
rilavorati all’interno della raffineria di provenienza, per essere ricondotti
a specifica legale e/o commerciale e, quindi, resi utilizzabili per lo scopo per
il quale sono stati fabbricati: quali carburanti o combustibili).
Non sembra d’altronde che
alla previsione della lettera c) possa darsi un significato più estensivo di
quello sopra indicato, perché, altrimenti argomentando, si arriverebbe alla
conclusione assurda che qualsiasi rifiuto, per
il solo fatto di poter essere recuperato mediante utilizzazione come
combustibile per la produzione di energia, diverrebbe un “prodotto
energetico”.
In conclusione, ci sembra
corretto e consequenziale affermare,
su questo punto, che:
-
il tenore testuale e la ratio
della lettera c) del comma 2 sono nel senso di escludere -
dall’incentivazione - quei prodotti appositamente
fabbricati per produrre energia (e per ciò definiti prodotti energetici)
che non risultino “a norma” con le disposizioni di carattere energetico e
ambientale ricordate. In effetti, tali prodotti, anche se conservano
l’attitudine e la destinazione propria e specifica di produrre energia,
non vengono ritenuti meritevoli dei benefici del comma 1 e 3;
-
ben diverso si presenta, viceversa, il caso di quel residuo di produzione
(dell’industria petrolchimica) che, pur avendo un contenuto energetico,
non è stato voluto o ricercato in quanto tale, ma è un residuo accessorio ed
ineliminabile (del quale il fabbricante cerca di limitare la quantità e di
“disfarsi”, se possibile recuperandolo) di una lavorazione diretta ad
ottenere prodotti per impieghi civili od industriali, ma non “prodotti
energetici”.
7.
I residui industriali della produzione petrolchimica come rifiuti.