I confini del servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti solidi urbani.
di Ettore Paolo Di Zio

1. Il servizio pubblico delineato dal c.d. “Decreto Ronchi”

Il r.d. 2578 del 1925 e prima ancora la l. 29 maggio 1903, n. 103 avevano elencato tra le attività esercitabili direttamente dai comuni anche la “nettezza pubblica e lo sgombro di immondizie dalle case”, senza tuttavia prevedere un regime di privativa a favore della P.A., come era stato invece esemplificativamente disposto per i macelli, per i mercati e per le pubbliche affissioni[1].

In alternativa allo svolgimento diretto, i Comuni potevano concedere l’effettuazione del servizio “all’industria privata”.

La l. 20 marzo 1941, n. 66 consolidò l’ambito del servizio pubblico ampliando la nozione di rifiuti urbani[2] ed altresì riservandone ai Comuni la esclusiva gestione, in privativa, da esercitarsi “direttamente o mediante concessione”.

Il d.p.r. 10 settembre 1982, n. 915 confermò l’esclusività della gestione comunale sui rifiuti urbani, intesi tuttavia quali rifiuti di provenienza esclusivamente domestica[3] o giacenti su aree ad uso pubblico. Vennero così espunti dal servizio pubblico i rifiuti speciali, ovverosia quelli provenienti dalle attività produttive in senso lato, a meno che non fossero dichiarati assimilati ai rifiuti urbani.

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L’art. 21 del d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (noto come “Decreto Ronchi”) ha esplicitato analogo diritto di esclusiva a favore dei Comuni, avente ad oggetto la gestione dei rifiuti solidi urbani, nonchè la gestione dei rifiuti speciali assimilati agli urbani ed avviati allo smaltimento.

Come detto, per il Decreto Ronchi, come per il DPR 915/82 e per il vigente d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (d’ora in avanti anche indicato come Testo Unico Ambientale), che adottano una classificazione basata sull’origine, sono urbani i rifiuti di provenienza domestica, ma solo se generati in locali e luoghi ad uso abitativo, oltre ai rifiuti che si formano negli spazi ad uso pubblico.

Al contrario, i rifiuti speciali sono quelli che originano da attività produttive in senso lato.

Tra i rifiuti speciali, alcune tipologie possono acquistare lo status di rifiuto urbano, ed essere quindi attratte dal servizio pubblico, all’esito di un iter amministrativo di assimilazione di competenza dei singoli Comuni[4].

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Il presente approfondimento deve prendere le mosse proprio dall’articolazione dell’originaria formulazione dell’art. 21 del Decreto Ronchi, di cui trascrivo il primo ed il settimo comma:

21. Competenze dei Comuni

1. I comuni effettuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui alla legge 8 giugno 1990, n. 142 , e dell\'articolo 23.

...

7. La privativa di cui al comma 1 non si applica alle attività di recupero dei rifiuti che rientrino nell\'accordo di programma di cui all\'articolo 22, comma 11, ed alle attività di recupero dei rifiuti assimilati.

E’ invalsa una interpretazione in forza della quale:

-- l’art. 21 ha riservato alla mano comunale la gestione tout court dei rifiuti urbani, comprensiva di ogni fase del ciclo di vita del rifiuto[5];

-- ha inglobato nello stesso ambito prestazionale la gestione di quei rifiuti speciali che pur non originando da attività domestiche, erano stati equiparati agli urbani giusta assimilazione.

La gestione pubblica dei rifiuti speciali assimilati doveva però risolversi in un ciclo di smaltimento e non già in operazioni di recupero[6].

Si tratta di una distinzione fondamentale.

Le operazioni di smaltimento e di recupero, rispettivamente elencate dagli allegati B e C del medesimo Decreto Ronchi (ed in termini non dissimili dal vigente Testo Unico Ambientale), sono di norma collocate entrambe a valle della raccolta e del trasporto dei rifiuti, ma si pongono tra esse in regime di alternatività: vi può essere smaltimento solo se il rifiuto non sia stato avviato a recupero[7].

In virtù di tale classificazione, con riguardo ai rifiuti urbani prodotti nelle case (e negli spazi esterni ad uso pubblico) il servizio pubblico poteva essere configurato sia nella direzione dello smaltimento, per esempio in discarica, che in quella del recupero (si pensi al recupero di materiale cartaceo o al recupero di prodotti di concimazione ricavabili dagli scarti domestici di matrice organica). Anzi, al pari di oggi, la via del recupero era senz’altro preferibile in virtù del principio comunitario sulla gerarchia nella gestione dei rifiuti che statuisce la residualità dello smaltimento[8], mentre in relazione ai rifiuti speciali assimilati la pubblica amministrazione doveva limitarsi ad implementare una filiera di smaltimento.

Il protrarsi del sopra annotato regime di assimilazione ex lege fece sì che la distinzione non si concretizzasse all’entrata in vigore del Decreto Ronchi, ma si evidenziasse solo con l’abrogazione, nel 1998, della legge di assimilazione.

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Nel contempo tale distinzione tracciava il limite fra il campo della privativa comunale e quello del mercato concorrenziale liberamente accessibile dalle imprese.

Le imprese attive in regime di libero mercato non avevano diritto di competere con il gestore del servizio pubblico per intercettare i rifiuti urbani, ma potevano competere nella gestione dei rifiuti speciali (non assimilati), acquisendoli direttamente dai produttori o da loro intermediari (l’art. 10 del Decreto Ronchi ha infatti previsto l’onere per i produttori di consegnare i rifiuti ad una impresa autorizzata[9]).

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Com’è facile intuire le interferenze fra servizio pubblico e libera concorrenza si sono incentrate nella gestione dei rifiuti speciali assimilati.

Come cennato, l’art. 10 ha introdotto delle priorità, sancendo le regola che i produttori si disfacessero dei propri rifiuti avviandoli al libero mercato mediante “conferimento a terzi autorizzati ai sensi delle disposizioni vigenti” e solo in mancanza potendo essi procedere al “conferimento dei rifiuti ai soggetti che gestiscono il servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani, con i quali sia stata stipulata apposita convenzione” [10].

Sennonchè, in assenza di un criterio utile a modulare la soglia di inattuabilità del recupero, le aziende produttrici, al pari di oggi, verosimilmente non potevano che improntare la scelta a criteri mercantili di economicità.

E, di norma, il recupero era ed è più oneroso dello smaltimento.

Per di più, il produttore che avesse autonomamente avviato i rifiuti ad un ciclo di recupero, si sarebbe parimenti trovato esposto alla tassazione (o alla tariffazione) delle aree aziendali, ancorchè in misura ridotta[11].

Deve allora sottolinearsi che il sistema dell’assimilazione delineato dal Decreto Ronchi conduceva a due distorsioni della normativa di rango comunitario in materia di tutela ambientale e della concorrenza:

-- la prima, non compiutamente modificata dal Testo Unico Ambientale, consiste nel fatto che dietro l’apparente rispetto del principio di preferibilità del recupero, l’impossibilità di veder interamente detassate o detariffate le superfici produttive postula un vantaggio proprio per l’opzione dello smaltimento, i cui oneri sono almeno in parte coperti da quella tassazione o da quella tariffazione;

-- l’instaurazione del ciclo di smaltimento presuppone inoltre la stipula di apposita convenzione tra il produttore ed il soggetto che gestisce il servizio di raccolta dei rifiuti urbani. In guisa che l’affidatario del pubblico servizio viene parallelamente a trovarsi in una posizione che lo legittima alla stipula di nuove, specifiche convenzioni (definite “apposite”) con ogni titolare di utenza non domestica in cui si producano rifiuti speciali assimilati.

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Si badi che normalmente, trattandosi di attività commerciali, i produttori di tali tipologie di rifiuti generano scarti merceologicamente costanti, suscettibili d’esser facilmente e ripetitivamente prelevati in forma differenziata.

Atteso che la raccolta differenziata ha come naturale epilogo un’operazione di recupero[12], nei limiti di convenienza economica il produttore dei rifiuti speciali assimilati viene quindi portato a convenzionarsi, anche per l’eventuale recupero, con la stessa impresa affidataria del servizio pubblico di smaltimento.

In tale non infrequente caso, è di palmare evidenza che il gestore del servizio pubblico accede a convenzioni non sussumibili nel rapporto instaurato con la P.A. affidante, ed in relazione alle quali la contiguità con la privativa ha prodotto un privilegiato contatto con la clientela[13].

Per il vero, tale profilo di incompatibilità con le regole comunitarie parrebbe oggi attenuato dalla riformulazione dell’art. 195 del Testo Unico Ambientale ad opera del “secondo correttivo” di cui al d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4.

Mi riferisco alla lett. e), del secondo comma dell’art. 195, nella parte in cui specifica che alla nuova tariffazione “si applica una riduzione, fissata dall\'amministrazione comunale, in proporzione alle quantità dei rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero tramite soggetto diverso dal gestore dei rifiuti urbani[14].

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Con il quinto comma dell’art. 21 del Decreto Ronchi, l’ente pubblico era stato altresì facultizzato ad estendere il servizio ai rifiuti speciali non assimilati ma ciò solo in via integrativa al mercato (“I comuni possono istituire, nelle forme previste dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, servizi integrativi per la gestione dei rifiuti speciali non assimilati ai rifiuti urbani”).

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2. Le modiche recate dal c.d. “Ronchi Ter”

Le modifiche al Decreto Ronchi apportate dalla l. 31 luglio 2002, n. 179 hanno radicalmente mutato i confini del servizio pubblico, sostituendo il settimo comma dell’art. 21 con il seguente: “La privativa di cui al comma 1 non si applica alle attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati, a far data dal 1° gennaio 2003”.

Si è trattato di una inversione di prospettiva che ha virtualmente restituito agli operatori del mercato non affidatari di servizi pubblici una quota rilevantissima di rifiuti, costituita, come minimo, dai rifiuti urbani intercettati dalla raccolta differenziata, destinati per definizione al recupero e che, in base agli obiettivi indicati dal legislatore statuale, dovrebbero progressivamente ascendere ad almeno il sessantacinque per cento della produzione totale entro il 31 dicembre 2012.

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3. Il servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti urbani delineato dalla Legge Delega 308/04

Attraverso la l. 15 dicembre 2004, n. 308 il parlamento ha delegato il governo al riordino, al coordinamento ed all’integrazione della legislazione in materia ambientale.

Ne è seguita l’emanazione del vigente Testo Unico Ambientale (approvato con d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e con d.lgs. 11 gennaio 2008, n. 4).

In riferimento alla gestione dei rifiuti urbani, la legge ha approvato uno specifico criterio direttivo per pervenire alla razionalizzazione di un:

“sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, mediante la definizione di ambiti territoriali di adeguate dimensioni all’interno dei quali siano garantiti la costituzione del soggetto amministrativo competente, il graduale passaggio allo smaltimento secondo forme diverse dalla discarica e la gestione affidata tramite procedure di evidenza pubblica”.

Il criterio appena trascritto conferma il trend di liberalizzazione inaugurato con la novella del 2002 al Decreto Ronchi:

-- nel campo dei servizi cui sovrintende la mano pubblica restano infatti comprese le sole fasi della raccolta e dallo smaltimento dei rifiuti solidi urbani;

-- di contro non vi vengono incluse le fasi relative alle operazioni di recupero dei medesimi rifiuti urbani, nè vi appare inglobabile la gestione di altre categorie di rifiuti.

E’ a dirsi sin da subito che il Legislatore Delegato del 2006 ha preservato la possibilità che “ai fini della raccolta e dello smaltimento”, i rifiuti speciali assimilati agli urbani seguitino ad essere attratti alla gestione pubblica dei primi, ma al contempo ne ha drasticamente limitato la platea, disponendo che “non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti negli uffici, nelle mense, negli spacci, nei bar e nei locali al servizio dei lavoratori o comunque aperti al pubblico; allo stesso modo, non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle strutture di vendita con superficie due volte superiore ai limiti di cui all\'articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo n. 114 del 1998” (art. 195)[15].

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Quanto alle attribuzioni alla mano ambitale, propendo per interpretare la locuzione della legge delega (“sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti solidi urbani”) secondo un criterio teleologico, tale da identificare l’intera catena delle operazioni intermedie, ricomprendendovi quindi anche il trasporto, ancorchè non espressamente menzionato[16].

Mi persuade di ciò non tanto la dichiarata continuità fra le attribuzioni dei Comuni e quelle della nuova Autorità d’Ambito (l’art. 201 del Testo Unico Ambientale si esprime in termini di “trasferimento” delle relative competenze), quanto la rilettura della formula di partizione a suo tempo dettata dal Decreto Ronchi per distinguere i contorni del servizio pubblico in tema di smaltimento dei rifiuti assimilati. Il legislatore, infatti, pose l’accento sul momento in cui viene iniziata la gestione (“i comuni effettuano la gestione dei rifiuti urbani... e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento”).

A conforto di questa interpretazione aggiungerei un criterio eminentemente pratico: il contenimento di possibili interferenze fra servizio pubblico e mercato liberalizzato suggerisce di marcare ab origine le rispettive catene di gestione e di mantenere separate le relative operazioni.

Essendo innegabile che – fatti salvi casi assolutamente specifici – il trasporto si pone in intima connessione con il caricamento dei rifiuti sugli automezzi utilizzati per la raccolta, può quindi concludersi nel senso che anche le operazioni di trasporto accedono al servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti urbani[17].

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Di converso, l’avvio a recupero dovrebbe comportare l’esclusione dal servizio pubblico anche delle operazioni di raccolta differenziata e di trasporto propedeutiche alla lavorazione finale spettante al libero mercato del recupero[18].

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La delega si è espressa anche sul sistema di svolgimento del servizio pubblico, da realizzarsi “tramite procedure di evidenza pubblica”.

All’epoca, in materia di servizi pubblici locali era appieno vigente la normativa generale ed integrativa dell’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (che aveva sostituito l’art. 22 della L. 241/90) in cui si elencavano tre diverse soluzioni:

a) l’aggiudicazione concorsuale ad un impresa del settore;

b) la società mista;

c) la società pubblica.

Ciò posto, in relazione al servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani il d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, all’art. 202, ha inteso il criterio della Legge Delega con rigore restrittivo, riconoscendo la sola esperibilità di procedure finalizzate all’aggiudicazione ad imprese del settore.

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E’ ora a dirsi che la Legge Delega aveva altresì previsto che entro due anni dalla entrata in vigore del primo decreto legislativo, il Governo potesse completare il disimpegno della delega emanando disposizioni correttive, purchè rispettose degli originari criteri direttivi.

In occasione della predisposizione del c.d. “secondo correttivo” (che portò al d.lgs. 4/08) il Governo confezionò una bozza di modifica mediante la quale intendeva consentire anche le altre forme tipizzate dalla normativa generale di cui all’art. 113.

Sennonchè, chiamato ad esprimersi sulla bozza di modifica, il Consiglio di Stato ha sul punto formulato parere negativo, rilevando trattarsi di mutamento non meramente correttivo.

Dopo tale monito, la proposta di modifica governativa all’art. 202 è stata eliminata.

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In questo scritto non intendo analizzare le sopravvenute modifiche di cui all’art. 23-bis del d.l. 112/08, da considerarsi bensì prevalenti sulle normative di settore eventuale contrastanti[19].

Il mio attuale obiettivo è piuttosto quello di individuare i confini del servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti urbani rispetto alle operazioni di gestione dei rifiuti che costituiscono prerogativa delle imprese operanti in regime di libero mercato[20].

Pertanto, circa i sistemi di svolgimento del servizio pubblico posso limitarmi ad esporre che il quadro normativo è assolutamente condizionato dal diritto comunitario, rispetto al quale, indipendentemente dalle articolazioni che di volta in volta vengono presentate dal legislatore interno, mi pare corretto acclarare come tanto all’epoca della Legge Delega, quanto nel vigore del Testo Unico Ambientale (ed ancor oggi, fatta salva l’ultrattività dei rapporti in corso), si presentano come astrattamente ammissibili due modalità di svolgimento dei servizi pubblici:

1) in via ordinaria è ovviamente possibile che la mano pubblica esperisca una scelta di esternalizzazione, aggiudicando la gestione del servizio ad un’impresa del settore;

2) in subordine, è possibile che la mano pubblica mantenga una gestione internalizzata del servizio.

I

Nella prima ipotesi si collocano le procedure ad evidenza pubblica che individuino l’impresa portatrice della offerta migliore.

Nei singoli settori sono all’uopo previste specifiche norme di adattamento: per esempio l’art. 195 del Testo Unico Ambientale assegna allo Stato la determinazione delle “linee guida per la definizione delle gare d’appalto”; l’art. 202 prescrive taluni peculiari contenuti dell’offerta presentata dai soggetti partecipanti alla gara.

E’ pur certo, tuttavia, che si tratta dell’opzione in virtù della quale ogni impresa europea ha possibilità di competere nel rispetto di regole di evidenza pubblica standardizzate dal d.lgs. 163/06, per vedersi aggiudicata un’attività economica che, in deroga al libero mercato, è stata ritenuta di interesse generale e quindi assoggettata al “filtro” delle procedure d’affidamento da parte della mano pubblica.

Vale la pena sottolineare che dopo ultradecennale dibattito si è assodato che anche la gestione espletata tramite società miste, ancorchè a dominanza pubblica, rientra fra le ipotesi di devoluzione concorsuale al mercato.

A tale conclusione sono pervenute sia l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 3 marzo 2008, n. 1, sia la Commissione CE.

Mi riferisco alla Co­municazione Interpretativa del 5 febbraio 2008 che costituisce la summa degli approdi ermeneutici da parte degli organi comunitari in subiecta materia. La Commissione ha analizzato il fenomeno delle società miste per la gestione dei servizi pubblici locali confermando che la gara avente ad oggetto il contratto sociale vale ad esimere la stazione affidante da una seconda gara per l’aggiudicazione del servizio.

La Commissione si è così espressa all’unisono con le parallele conclusioni della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “le società aperte, an­che parzialmente, al capitale privato non possono essere con­siderate come strutture di gestione ‘interna’”.

Ma tali conclusioni si fondano su un indefettibile presupposto: ovverosia che la compagine sia davvero sussumibile nel “modello misto” che esige, a monte, una legittima immissione nel mercato di un contratto di società e di un connesso contratto avente ad oggetto una prestazione di servizio predeterminata.

La necessarietà di tale condizione era stata acutamente sottolineata da Cons. Stato, Sez. II, parere del 18 aprile 2007, n. 456, secondo cui non si può “configurare un ‘affidamento diretto alla società mista ma piuttosto un ‘affidamento con procedura di evidenza pubblica’ dell’attività ‘operativa’ della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo”.

In altri termini, come annotato dallo stesso Consesso consultivo, “l’attività che si ritiene ‘affidata’ (senza gara) alla società mista è nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio”.

II

Anche al fine di meglio comprendere in che senso la bozza del “secondo correttivo” avrebbe sotteso ad un modello anticoncorrenziale, va sottolineato che in senso diametralmente opposto si colloca la seconda ipotesi, oggi coincidente con il fenomeno delle società pubbliche, punto evolutivo di una progressiva trasformazione dell’agire amministrativo, capace di estrinsecarsi non più solo in via provvedimentale, ma altresì coi mezzi tipici del settore privato, fra cui il modulo societario.

Sul punto, mette conto osservare che un ormai consolidato orientamento dottrinario e giurisprudenziale è persuasivamente pervenuto alla conclusione che le compagini “serventi”, pur avendo veste societaria, restano un modo di provvedere in via diretta da parte dell’Ente, che non si estrania dalla gestione dei servizi, ma invero seguita a disimpegnarli direttamente, ancorchè attraverso l’assunzione di forme e strumenti mutuati dal codice civile.

La Corte di Giustizia CE, che ha approfondito la questione per saggiarne la compatibilità con i principi del mercato europeo in materia di libera circolazione, nonchè di libera concorrenza e di libertà di stabilimento, ammette l’ipotesi di assegnazione diretta dei servizi pubblici a detti organismi, purchè essi possano essere considerati una pura emanazione della pubblica amministrazione, alla stregua di un ufficio o di una direzione interna.

Il che avviene tutte le volte in cui nella relazione fra la Pubblica Amministrazione (formalmente) affidante e l’organismo assegnatario – (solo formalmente) estraneo – siano cumulativamente ravvisabili i seguenti requisiti, designati con l’espressione “in house providing”:

-- l’organismo assegnatario, se costituito in società, deve avere compagine esclusivamente pubblica;

-- l’affidante deve poter esercitare su quello assegnatario un “controllo analogo” a quello sui suoi uffici;

-- l’assegnatario deve realizzare la parte preponderante della sua attività mediante l’affidante.

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Come sopra riferito, nell’occuparsi della bozza di modifica al d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, il Consiglio di Stato ritenne che i poteri delegati correttivi non potessero innovare all’originaria formulazione dell’art. 202 per introdurre il secondo modulo gestionale.

Ma al di là del carattere procedimentale del rilievo, quell’Alto Consesso ha rimarcato come il Trattato comunitario impone di devolvere prioritariamente la prestazione dei servizi di rilevanza economica generale al confronto concorsuale fra imprese che vi aspirano, in quanto l’introduzione di normative limitative della concorrenza deve essere in ogni caso congruamente giustificata e contenuta sulla base dei principi comunitari di proporzionalità e di adeguatezza.

Secondo l’Organo consultivo, atteso che la diretta effettuazione di servizi economici da parte della P.A. costituisce radicale negazione della concorrenza, la presenza di operatori economici potenzialmente interessati a contendersi l’aggiudicazione del servizio, esclude di per sè la sussistenza di ragioni in grado di puntellare la previsione di un regime di svolgimento diretto da parte della P.A. (“il sistema in house deve essere pertanto considerato eccezionale, consentito laddove vi sono oggettive esigenze di svolgimento di un servizio pubblico in regime di privativa”[21]).

La posizione del massimo organo consultivo mi pare aver anticipato la normativa che oggi si legge proprio nell’art. 23-bis, laddove l\'affidamento a favore di società cosiddetta ‘in house’ può essere effettuato solo a seguito della verificata ricorrenza di “situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”.

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In definitiva, sulla base della L. 308/04 il Governo è stato chiamato:

-- ad organizzare l’accesso al libero mercato non più solo per quanto attiene ai rifiuti speciali (compresi quelli non più assimilati), ma anche per la gestione dei rifiuti urbani avviati al recupero;

-- ad approntare un sistema per l’aggiudicazione all’impresa portatrice della migliore offerta del servizio pubblico di gestione integrata avente ad oggetto lo smaltimento dei rifiuti urbani ed assimilati.

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4. Il servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti urbani delineato a regime dal Testo Unico Ambientale

La disciplina sulla gestione integrata dei rifiuti urbani è stata centralmente delineata all’art. 201 del Testo Unico Ambientale che, per comodità, può essere integralmente riprodotto:

201. Disciplina del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani.

1. Al fine dell\'organizzazione del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto, disciplinano le forme e i modi della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale, prevedendo che gli stessi costituiscano le Autorità d\'ambito di cui al comma 2, alle quali è demandata, nel rispetto del principio di coordinamento con le competenze delle altre amministrazioni pubbliche, l\'organizzazione, l\'affidamento e il controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti.

2. L\'Autorità d\'ambito è una struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l\'esercizio delle loro competenze in materia di gestione integrata dei rifiuti.

3. L\'Autorità d\'ambito organizza il servizio e determina gli obiettivi da perseguire per garantirne la gestione secondo criteri di efficienza, di efficacia, di economicità e di trasparenza; a tal fine adotta un apposito piano d\'ambito in conformità a quanto previsto dall\'articolo 203, comma 3.

4. Per la gestione ed erogazione del servizio di gestione integrata e per il perseguimento degli obiettivi determinati dall\'Autorità d\'ambito, sono affidate, ai sensi dell\'articolo 202 e nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale sull\'evidenza pubblica, le seguenti attività:

a) la realizzazione, gestione ed erogazione dell\'intero servizio, comprensivo delle attività di gestione e realizzazione degli impianti;

b) la raccolta, raccolta differenziata, commercializzazione e smaltimento completo di tutti i rifiuti urbani e assimilati prodotti all\'interno dell\'ATO.

5. In ogni ambito:

a) è raggiunta, nell\'arco di cinque anni dalla sua costituzione, l\'autosufficienza di smaltimento anche, ove opportuno, attraverso forme di cooperazione e collegamento con altri soggetti pubblici e privati;

b) è garantita la presenza di almeno un impianto di trattamento a tecnologia complessa, compresa una discarica di servizio.

6. La durata della gestione da parte dei soggetti affidatari, non inferiore a quindici anni, è disciplinata dalle regioni in modo da consentire il raggiungimento di obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità.

La rubrica contiene la definizione della specifica fattispecie di cui si argomenta, ovverosia il servizio pubblico di “gestione integrata dei rifiuti urbani”, da non confondersi con la nozione di “gestione integrata dei rifiuti”, indicativa del complesso delle diverse operazioni (incluso il recupero) che possono comporre il ciclo del rifiuto.

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Al comma 1 è stato previsto un unico soggetto pubblico, l’Autorità d’Ambito, cui spettano l’organizzazione del servizio; il suo affidamento ed il suo controllo (l’art. 201 si riferisce alla prima attribuzione; dell’affidamento si occupa il successivo art. 202; mentre l’art. 203 attiene al contratto di servizio, compresi i controlli, nonchè alla pianificazione d’ambito).

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L’Autorità d’Ambito deve operare in scala sovracomunale, “ereditando” le competenze già singolarmente spettanti ai comuni ad essa aderenti (comma 2).

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Alla lett. a) del quarto comma le attività funzionali allo svolgimento del servizio sono state allargate ai lavori di realizzazione impiantistica. Il che ulteriormente dimostra come il “servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani” è istituto che non si sovrappone alla nozione di gestione integrata dei rifiuti, definita dalla normativa ambientale.

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Al comma 4, lett. b), il legislatore delegato ha inoltre ricompreso nelle operazioni di raccolta anche la formazione di frazioni merceologiche omogenee (id est: la raccolta differenziata), nonchè la commercializzazione dei rifiuti.

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Per quanto sopra detto, la scelta di inglobare anche la raccolta differenziata nel servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani mi appare contraddittoria rispetto all’indirizzo di piena liberalizzazione del ciclo del recupero.

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Il più volte citato art. 183 del Testo Unico Ambientale, al pari dell’omologo art. 6 del Decreto Ronchi, non menziona fra le operazioni di gestione la “commercializzazione” dei rifiuti.

Se con tale termine il legislatore delegato ha voluto riferirsi all’attività di “commercio dei rifiuti”, è d’uopo osservare che nelle definizioni comunitarie si tratta dell’attività d’impresa consistente nell’acquisto di rifiuti con successiva rivendita.

Mi riferisco alla direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (da recepirsi entro il 12 dicembre 2010) la quale include espressamente nella definizione di “gestione dei rifiuti” anche “le operazioni effettuate in qualità di commercianti o intermediari”, precisando che per commerciante si intende “qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti, compresi i commercianti che non prendono materialmente possesso dei rifiuti”.

Ritengo allora poco plausibile che la “commercializzazione” di cui all’art. 201 possa coincidere con la definizione della nuova Direttiva sui rifiuti, se non altro sotto il profilo che dette compravendite non mi appaiono neanche astrattamente attagliabili alla gestione dei rifiuti solidi urbani.

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Il criterio del “graduale passaggio allo smaltimento secondo forme diverse dalla discarica” non è stato inteso dal legislatore delegato nel senso di escluderla dalle operazioni a disposizione della mano pubblica.

L’art. 201 ha infatti esercitato la delega semplicemente vietando la collocazione diretta dei rifiuti urbani in discarica.

In realtà, il sistema dell’interramento diretto risultava già proibito dall’art. 7 del d.lgs. 13 gennaio 2003, n. 26, in attuazione alla regola comunitaria della direttiva 1999/31/CE.

E’ quindi facile rilevare che la delega legislativa non poteva essere logicamente volta al superamento, per di più solo graduale, di un divieto già pienamente vigente nell’ordinamento interno.

Il criterio legislativo bensì postulava che in un ragionevole arco temporale il servizio pubblico valorizzasse l’individuazione di soluzioni impiantistiche alternative, senza d’altra parte sottrarre agli operatori in regime di libero mercato uno spazio economico che, come si vedrà, non pertiene ai rifiuti urbani, ma al settore dei rifiuti speciali.

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Fatto sta che l’art. 201 del Testo Unico Ambientale ha statuito la realizzazione di un sistema di smaltimento pubblico in cui non potrà comunque prescindersi dallo stoccaggio in discarica dei rifiuti urbani trattati.

Più precisamente il servizio in parola è stato modellato con un impianto di “trattamento a tecnologia complessa, compresa una discarica di servizio” (comma 5).

In carenza di una specifica definizione legislativa, leggo l’espressione “tecnologia complessa” come un quid pluris rispetto al trattamento in senso ampio di cui all’art. 2 del d.lgs. 13 gennaio 2003, n. 36 (secondo cui costituisce trattamento qualsivoglia operazione in grado di modificare le caratteristiche dei rifiuti allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa o di facilitarne il trasporto o di favorirne il recupero).

La specificazione del Testo Unico Ambientale, vuol segnatamente significare che singole operazioni, quali la triturazione, non tornano sufficienti a realizzare la gestione ambitale dei rifiuti solidi urbani, in particolare richiedendosi l’attivazione di impianti di trattamento meccanico-biologico in cui le operazioni di trattamento siano fra loro connesse[22].

Sotto altro profilo, stanti le irrisorie riduzioni quantitative che generalmente derivano da impianti di trattamento meramente fisico, l’associazione ad un processo biologico comporta un minor quantitativo di residui e, quindi, va nella direzione del “superamento” della discarica.

Nella stessa direzione mi sembra di poter intendere le proposizioni della circolare del 30 giugno 2009, n. GAB-2009-0014963, con la quale il Ministro dell’Ambiente ha risposto ad alcuni dubbi interpretativi sulla definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica.

La circolare non ha mancato di distinguere che nell’ampia gamma di operazioni riconducibili al sopra menzionato art. 2, trattamenti meramente meccanici, quali la triturazione o la vagliatura, non rappresentano validi succedanei all’attuazione degli interventi che dovranno essere doverosamente previsti nella pianificazione di settore.

Sicchè, nel mentre detti metodi restano transitoriamente ammissibili per rispondere alla mancanza di più acconce dotazioni impiantistiche, i processi di trattamento riconosciuti come pianificabili finiscono per coincidere proprio con la forma del trattamento meccanico-biologico, cui la circolare ha accostato la bioessiccazione e la digestione anaerobica previa selezione.

Su tali equiparazioni non è necessario disquisire (anche perchè la circolare non ha inteso identificarle come tipiche della gestione pubblica), se non per ricordare che gli impianti ambitali non devono avere vocazione al recupero, in quanto non possono esulare dal campo dello smaltimento in cui si incentra il servizio pubblico.

Devesi a tal riguardo acclarare che con l’espressione “impianto di trattamento a tecnologia complessa” si possono all’un tempo indicare sia gli impianti di smaltimento, che quelli di recupero. La linea di demarcazione fra gli uni e gli altri risiede nel fine perseguito dal gestore: lo smaltitore deve pervenire alla eliminazione del rifiuto in condizioni di sicurezza e quindi effettua il trattamento al precipuo fine di ridurne l’impatto sulla salute umana e sull’ambiente.

Eventi di recupero associati alla sua attività smaltitoria (quali il prelievo per il tramite di una elettrocalamita dei materiali ferrosi presenti nel flusso dei rifiuti) costituiscono positivi, quanto marginali effetti dell’operazione di trattamento, ma non ne possono identificare la finalità.

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Ciò posto, devesi meglio rimarcare in che modo la ricomprensione di una discarica nell’impiantistica ambitale postuli una indebita invasione di campo ai danni del libero mercato della gestione dei rifiuti speciali[23].

Muovendo dalla classificazione di cui all’art. 184 del Testo Unico Ambientale (identica a quella dell’art. 7 del Decreto Ronchi), il rifiuto originato dagli impianti di trattamento a tecnologia complessa è benvero un rifiuto speciale, distinto dai rifiuti urbani domestici ed assimilati che, a monte, sono stati assoggettati a trattamento.

Sicchè la loro messa a dimora in discarica costituisce una operazione di gestione di rifiuti speciali, in quanto tale liberamente contendibile al di fuori di qualsivoglia servizio inerenti i rifiuti urbani.

Benvero, nel rispetto dei più sopra ricordati principi generali, un qualunque produttore di rifiuti speciali dovrebbe segnatamente farsi carico delle opzioni di che all’art. 188 del Testo Unico Ambientale, altresì nel rispetto della gerarchia comunitaria sulla gestione.

Al contrario, la previsione di una discarica asservita preclude che i rifiuti da trattamento prodotti dall’impresa aggiudicataria del servizio pubblico vengano assoggettati ad operazioni di valorizzazione, tra cui si annoverano quelle finalizzate all’incremento delle fonti energetiche rinnovabili, come nel caso di produzione di combustibile non fossile attraverso la raffinazione della frazione biostabilizzata, o come nel caso produzione di biogas attraverso innesco della frazione messa a riserva (tale ultimo esempio, denominato bioreazione, mette in crisi la classificazione stessa della discarica come impianto di mero smaltimento)[24].

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A ben vedere, tale epilogo dipende dal discostamento dal criterio direttivo secondo cui il servizio pubblico avrebbe dovuto organizzarsi “secondo forme diverse dalla discarica”.

Se il Testo Unico Ambientale si fosse attenuto all’inequivoco significato dell’espressione appena trascritta, l’impresa gestrice dell’impianto di trattamento a tecnologia complessa avrebbe potuto e dovuto disfarsi essa stessa degli scarti prodotti, assumendosene quindi l’alea[25] e (anche non potendo sfruttare circuiti di recupero come quelli sopra esemplificati) consegnandoli ad impianti per rifiuti speciali ineludibilmente di titolarità privata.

Si potrebbe obiettare che con l’espressione “sistema di raccolta e di smaltimento” la legge delega ha dettato una finalità ampia, rispetto alla quale l’opzione discarica risulta invece congrua sotto il duplice profilo di rappresentare la chiusura di un “sistema” pubblico altrimenti incompiuto[26] e di garantire l’obiettivo dell’autosufficienza ambitale.

Può agevolmente replicarsi che gli obiettivi di autosufficienza sono comunque limitati ai rifiuti urbani e non si estendono ai rifiuti speciali, compresi quelli prodotti dall’impresa affidataria della gestione del trattamento (se davvero la legge delega avesse perseguito l’inesauribile obiettivo di chiudere un circuito di autosufficienza, il servizio avrebbe dovuto allora estendersi anche agli altri rifiuti speciali originati dall’impiantistica ambitale, come ad esempio il percolato).

Nelle umane cose, può intravedersi nella regola del Testo Unico Ambientale un profilo meno conclamabile, ma eminentemente pragmatico: la diretta disponibilità di una discarica di servizio può tornare utile a sopperire con immediatezza alle ipotesi di cattivo esito delle operazioni di trattamento: come acclarato dalla circolare ministeriale del 2009 la discarica risulterebbe infatti utilizzabile anche in caso di trattamenti parziali[27].

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5. Conclusioni

Nelle pagine precedenti s’è dato saltuariamante conto del rapporto fra i servizi pubblici di rilevanza economica e libera concorrenza, in particolare richiamando gli insegnamenti secondo cui dal Trattato si ricava un modello teso a legittimare soltanto marginali e misurati interventi rispetto alla regola generale del libero mercato concorrenziale.

Il mercato interno comunitario tollera riserve (o anche mere regolazioni) solo ove esso non si dimostri in grado di soddisfare autonomamente le esigenze dei cittadini europei.

Rispetto al Decreto Ronchi, il Testo Unico Ambientale ha sostanzialmente preservato un generalizzato regime di barriere d’ingresso, consistente in un variegato corpo abilitativo, mediante autorizzazioni impiantistiche; iscrizioni all’Albo Ministeriale ed a Registri, talvolta esperibili in via semplificata e dietro mera comunicazione in regime di silenzio assenso.

Tali abilitazioni restano necessarie per ciascuna tipologia di rifiuto ed in relazione a ciascuna operazione di gestione.

A monte, risultano peraltro oggi liberamente esperibili, senza barriere settoriali, il recupero e lo smaltimento in impianti mobili limitatamente a determinate operazioni (art. 208, comma 15).

Più rigorosamente rispetto al Decreto Ronchi risulta invece necessaria la c.d. “iscrizione light” all’Albo anche per il trasporto dei rifiuti propri (art. 212, comma 8)[28].

Come in passato, non necessita di autorizzazione il deposito temporaneo, che tuttavia non è un’attività di gestione vera e propria, ma ne costituisce il prodromo.

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Quanto ai limiti del servizio pubblico di gestione integrata ambitale dei rifiuti urbani, per accedere al quale le imprese devono vederselo aggiudicato dalla P.A., se sulla raccolta differenziata ho espresso dubbi, per la discarica a servizio dei rifiuti speciali non credo vi fosse ragionevole spazio nella pur ampia delega legislativa[29], che in parte qua potrebbe risultare violata dal Testo Unico Ambientale.

In ogni caso – ed anzi si tratta forse della clausola di salvezza delle previsioni governative – ove la previsione di cui si verte risultasse legittima, il servizio ambitale di gestione integrata dei rifiuti urbani potrebbe comporsi di sole attività organizzate ed affidate a valle del prioritario avvio a recupero dei rifiuti medesimi.

Al riguardo non costituendo la “commercializzazione” un’operazione di gestione dei rifiuti, e volendo ad essa accordare un significato compatibile con la legge, sarei in tal caso propenso ad intenderla proprio come attività di collocazione al recupero sia delle frazioni merceologiche provenienti dalla raccolta differenziata, che dei rifiuti raccolti in forma indifferenziata.

A supporto di queste conclusioni, torna utile richiamare le persuasive argomentazioni dell’atto di segnalazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 15 luglio 2009[30], relativo ai provvedimenti attraverso i quali il commissario straordinario per l’emergenza ambientale nella Regione Lazio è intervenuto a definire le capacità di trattamento di rifiuti da riconoscere ad alcuni soggetti attivi nel mercato del recupero.

L’Autorità non ha mancato di ricordare che le operazioni di recupero dei rifiuti solidi urbani sono state escluse sin dal gennaio 2003 dalla privativa riconosciuta ai Comuni; che analoga esclusione deriva dal regime transitorio di che all’art. 198 del T.U. Ambientale[31] e che essa si trova infine cristallizzata anche pro futuro dalla normativa sul servizio di gestione integrata dei rifiuti solidi urbani.

“Pertanto” – secondo l’Autorità – “il legislatore ha inteso delineare, in materia di gestione dei rifiuti, un regime differenziato, prevedendo da un lato la privativa comunale per le sole attività di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilati, dall’altro che l’attività di recupero sia svolta in regime di libera concorrenza, fatte salve le necessarie autorizzazioni e controlli di cui al Decreto Legislativo n. 152/2006”.

L’autorità ha in particolare segnalato la necessità di evitare che in un contesto nel quale l’attività di recupero è liberalizzata, gli Enti Pubblici procedano a pianificazioni o adottino atti, ancorchè in occasione di gestioni commissariali finalizzate a fronteggiare situazioni d’emergenza, che introducano previsioni suscettibili di determinare distorsioni nelle dinamiche concorrenziali.

Sicchè, già in sede di pianificazione ai sensi degli artt. 199 e ss. del Testo Unico Ambientale, la realizzazione stessa dei nuovi impianti (ambitali) e la definizione dei relativi investimenti presuppone l’accertata insufficienza dell’offerta di recupero a coprire l’intero fabbisogno di gestione dei rifiuti solidi urbani prodotti in ciascun A.T.O.

Del che le Regioni dovranno dunque tener conto nella nuova pianificazione che sono tenute a completare entro due anni dall’entrata in vigore del Testo Unico Ambientale (art. 199).

E le Autorità d’Ambito nei piani di loro spettanza ai sensi del successivo art. 203[32].

Pescara, il 10 gennaio 2010.

Ettore Paolo Di Zio

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[1] Persino produzione e vendita del ghiaccio rientrarono nel catalogo delle attività comunali: per la Relazione della commissione parlamentare sul disegno di legge Giolitti del 23 maggio 1902 (riportata da P. Ati, “La tutela della concorrenza nei servizi pubblici locali”, in Riv. Azienditalia n. 10/05), “importanza igienica, larghezza di applicazioni sanitarie, diffusione di consumo privato e pubblico, possibilità di applicazioni industriali, fanno del ghiaccio, specialmente in alcuni mesi dell’anno, un servizio di prima necessità”. Ed in effetti, stante la quasi totale mancanza di altri sistemi di refrigerazione o conservazione la previsione era pro tempore ampiamente giustificata.

[2] Da tale legge classificati in “rifiuti interni” se provenienti dai fabbricati a qualunque uso adibiti; ed in “rifiuti esterni” se formatisi su aree anche temporaneamente ad uso pubblico.

[3] Il che non li fa coincidere con i “rifiuti interni” di cui alla L. 66/41.

[4] La l. 22 febbraio 1994, n. 146 (abrogata dalla l. 24 aprile 1998, n. 128) legificò ope suo la illimitata assimilazione di tutti i rifiuti speciali catalogati nella delibera del Comitato interministeriale del 27 luglio 1984.

[5] Venuto ad esistenza un rifiuto, dopo eventuale “deposito temporaneo”, la gestione inizia di regola con la raccolta e perdura fino al completamento delle operazioni di smaltimento controllato, ovvero, in alternativa, fino al completamento delle operazioni di recupero. La gestione include quindi “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche dopo la chiusura” (oggi art. 184 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).

[6] Quanto al settimo comma, l’ipotesi dell’accordo di programma riguardava l’impiantistica non pianificata su siti industriali esistenti, mentre la previsione relativa al recupero dei rifiuti assimilati era una ridondanza speculare alla già disposta ricomprensione nel servizio pubblico del loro esclusivo smaltimento.

[7] Nella maniera più sintetica possibile, vista la confusione che alligna anche fra gli addetti ai lavori:

-- un ciclo di smaltimento, comunque si allineino le operazioni intermedie che lo compongono, finisce sempre con una operazione di eliminazione (incenerimento) o con un’operazione di definitiva messa a dimora (discarica);

-- un ciclo di recupero culmina invece nella riqualificazione del rifiuto in un bene della vita, quale l’energia (oggi art. 181-bis d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).

In termini tecnico giuridici ritengo corretto l’incipit di Fimiani, secondo il quale: “La fase del recupero prende avvio dal soggetto che effettua la raccolta e il trasporto ... salvo che il produttore attui la messa in riserva...” (“L’effettività del recupero dei rifiuti: vecchi e nuovi problemi interpretativi”, in Rifiuti – bollettino di informazione informativa, n. 127/08, p. 2).

[8] sulla residualità dello smaltimento, v. art. 182 del Testo Unico Ambientale

[9] In base al principi cardine della responsabilità condivisa e “chi inquina paga”, i produttori di rifiuti speciali erano (e sono) i primi responsabili della corretta gestione dei propri rifiuti.

[10] In termini analoghi si esprime oggi l’art. 188 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

[11] Al versamento della TARSU o della TIA restano tenuti tutti coloro che si trovino in relazione qualificata con immobili compresi nel territorio in cui il servizio pubblico è attivato, indipendentemente dal suo concreto utilizzo. Plausibili riduzioni della pretesa impositiva a favore dell’attività commerciale che avvia autonomamente i rifiuti a recupero devono essere infatti determinate senza esonerare il produttore dal prelievo, onde tener conto dei residui costi collettivi del servizio pubblico di spazzamento e raccolta dei rifiuti urbani.

Per completezza, ricordo che la Tariffa di Igiene Ambientale venne introdotta dall’art. 49 del Decreto Ronchi con decorrenza dal 1999, in luogo della Tassa sui Rifiuti Solidi Urbani.

L’avvio del nuovo sistema venne dapprima differito al 2000. Successivamente, l’obbligatorietà della sua entrata a regime venne articolata in un quinquennio (dal 2003 al 2008), a seconda del tasso di copertura dei costi raggiunto nei singoli Comuni, ai quali venne tuttavia riconosciuta la facoltà di applicare in via sperimentale la “TIA Ronchi” anche in anticipo rispetto ai termini di obbligatorio adeguamento.

Il Testo Unico Ambientale ha abrogato il Decreto Ronchi ed ha a sua volta istituito due nuove Tariffe:

-- una “Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani”, anche denominata “Tariffa per lo smaltimento dei rifiuti urbani” (e “tariffa integrata ambientale TIA” nel d.l. 30 dicembre 2008, n. 208);

-- una specifica ed ulteriore Tariffa per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani.

L’attuazione del sistema tariffario di cui al Testo Unico Ambientale risulta ad oggi delegata a normativa sub-primaria ancora emanata.

Il citato D.L. 208 ha altresì disposto che nelle more di questa normativa d’attuazione i comuni che intendano adottare la tariffa integrata ambientale potranno seguitare a farlo ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, ma solo dopo il 31 dicembre 2009, termine da ultimo posposto al 31 dicembre 2010 dal d.l. 30 dicembre 2009, n. 194.

Ne consegue che a tutt’oggi è applicabile la “Tariffa Ronchi” nei Comuni che l\'avevano facultativamente già adottata nel vigore del D.LGS. 22/97, mentre è rimasta ferma l’applicazione della TARSU negli altri Comuni.

Sulla “TIA Ronchi”, che è oggi l’unica tariffa ultrattivamente applicabile, si è pronunciata la Corte costituzionale (con la sentenza del 24 luglio 2009, n. 238) riconoscendone la fin lì controversa natura tributaria.

[12] La raccolta differenziata esita per definizione nel recupero, mentre quest’ultimo può configurarsi anche al di fuori della raccolta differenziata.

[13] Il fenomeno è stato già censurato in relazione ad altre attività in cui solo alcune fasi sono liberalizzate, come nel caso delle concessioni comunali di trasporto funebre, recanti un effetto anticoncorrenziale ai danni del libero mercato delle onoranze: la pur potenziale scindibilità del trasporto della salma (svolto dietro concessione) dalle ulteriori, contigue fasi liberalizzate del servizio funebre non regge alla ovvia considerazione che i dolenti vengono implicitamente indotti ad affidare ad un’unica impresa anche le seconde (atto di segnalazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 2 luglio 1998, pubblicato sul Bollettino dell’Autorità n. 27/98).

[14] Resta peraltro fermo che le concrete possibilità di recupero saranno condizionate dall’entità delle riduzioni dopo l’entrata a regime della Nuova Tariffa specificamente istituita dal Testo Unico Ambientale.

[15] La soglia è di 150 mq. nei Comuni con meno di 10.000 abitanti e di 250 mq. in tutti gli altri comuni.

[16] Come detto, l’art. 183 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 definisce la gestione dei rifiuti suddividendola ne: “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche dopo la chiusura”.

[17] Raccolta e trasporto costituiscono non a caso un’unica, indistinta categoria di iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali ex d.m. 28 aprile 1998, n. 406.

[18] Aderendo a questa opzione interpretativa la sottrazione dalla privativa comunale di tutte le operazioni propedeutiche al recupero poteva forse ritenersi implicitamente disposta sin dal 2003, in virtù della riformulazione del settimo comma dell’art 21 del Decreto Ronchi (“La privativa di cui al comma 1 non si applica alle attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati, a far data dal 1° gennaio 2003”).

A conforto di un tale tesi non v’è però esplicito sostegno negli atti parlamentari, i quali danno semplicemente conto del fatto che un emendamento volto ad esplicitare l’espunzione anche delle operazioni di “raccolta” dalle competenze della mano pubblica venne ritirato dal proponente su invito del relatore, altrimenti orientato, analogamente al rappresentante del governo, a rendere parere negativo sul suo accoglimento.

La questione non mi risulta esser stata specificamente affrontata dalla giurisprudenza, che tuttavia ha interpretato in senso restrittivo la riformulazione dell’art. 21, ritenendo che la devoluzione al mercato:

-- abbia riguardato la sola fase del recupero (Consiglio di Stato, Sez. V, 5 aprile 2005, n. 6736; T.A.R. Ancona 19 ottobre 2005, n. 1210);

-- sia stata comunque limitata agli impianti approvati dopo il 2003 (T.A.R. Bari, 23 luglio 2003, n. 22/04).

[19] Mi riprometto di farlo unitamente all’esame alla fase transitoria del servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani. Per una recente disamina della normativa transitoria, completa di riferimenti anche allo schema governativo provvisorio del regolamento di attuazione dell’art. 23-bis, v. C. Tessarolo “Il regime transitorio nel nuovo sistema dei servizi pubblico locali”, 5 gennaio 2010, sul sito web dirittodeiservizipubblici.it.

[20] Circa la gerarchia fra libero mercato e servizio pubblico, concordo con le dotte conclusioni dell’Avvocato Generale sig. Damaso Ruiz-Jarabo Colomer, presentate il 20 ottobre 2009 davanti alla Corte di Giustizia nella causa C-265/08, secondo cui primo obiettivo della politica comunitaria fondata sulla concorrenza è il mercato aperto, rispetto al quale “il servizio pubblico si erge quale ostacolo che occorre superare a vantaggio di una liberalizzazione in cui si ripone ogni speranza (come, secondo il concludente, “ha magistralmente posto in evidenza Fernández, T.R., in «Del servicio púbblico a la liberalización desde 1950 hasta hoy», Revista de Administración Pública, n. 150, settembre-dicembre 1999, pagg. 57‑73).

[21] v. Cons. Stato Sez. Consultiva Atti Normativi del 9 luglio 2007, n. 2660/2007 e del 5 novembre 2007, n. 3838/2007.

[22] Per quanto possa essere concesso al giurista, mi corre l’obbligo di confutare la definizione fatta propria dal “Comitato Impianti Tecnologia Complessa”, attivato nel 1998 dall’Associazione Tecnici Italiani dell’Ambiente, secondo cui per impianto a tecnologia complessa si intenderebbero tutti gli impianti diversi dalla discarica. A mio avviso tale conclusione pecca di indeterminatezza e sconta il limite che il predetto “Comitato” venne istituito in continuità al “Comitato Tecnico Discariche” che nel 1997 aveva elaborato le “Linee guida per le discariche controllate di rifiuti solidi urbani”. Scopo dichiarato del nuovo gruppo di esperti era infatti quello di approntare analoghe linee guida relativamente agli “altri” impianti di smaltimento dei rifiuti urbani, in tal senso residualmente nomenclati “impianti a tecnologia complessa” in quanto diversi dalla discarica. Resta il fatto che le «Linee guida per la progettazione, realizzazione e gestione degli impianti a tecnologia complessa per lo smaltimento dei rifiuti urbani» Ed. Hyper, 2002, curate da tale gruppo di esperti costituiscono riferimento bibliografico contemplato nel d.m. 29 gennaio 2007 per l’individuazione delle migliori tecnologie disponibili relativamente alle attività assoggettate ad autorizzazione integrata ambientale.

[23] In passato, la discussione sui rifiuti urbani trattati si era incentrata su aspetti apparentemente secondari, quali l’attribuzione del codici numerari del CER (codici 20, tipici dei rifiuti urbani o, in alternativa, codici 19 identificativi dei rifiuti speciali). Nell’allegato 2 al documento approvato il 2 ottobre 2003, la Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome sull’emergenza rifiuti, ha però chiarito il reale intento degli EE.LL., teso non già ad uniformare l’utilizzo dei codici CER, ma a preservare alla mano pubblica la gestione dei rifiuti urbani trattati, ancorchè inequivocabilmente classificati come rifiuti speciali fuori dal circuito della privativa.

[24] “La normativa internazionale, quella comunitaria e quella nazionale manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili, nel senso di porre le condizioni per una adeguata diffusione dei relativi impianti. In particolare, in ambito europeo una disciplina così orientata è rinvenibile nella citata direttiva n. 2001/77/CE e in quella più recente del 23 aprile 2009, n. 2009/28/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell\'uso dell\'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE), che ha confermato questa impostazione di fondo” (in termini Corte Cost., 6 novembre 2009, n. 282).

[25] Valga peraltro osservare che secondo la lettera n) del primo comma dell’art. 195 del Testo Unico Ambientale, il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani deve essere affidato in concessione e non in appalto, salvo immediatamente dopo prevedere la determinazione di linee guida per le “gare d’appalto”.

La scelta della concessione, se come tale può essere letta, mi appare in linea con l’opinione, oggi messa in crisi dalla Corte Costituzionale, che le TIA non hanno natura tributaria.

[26] A questa ratio è riferibile l’art. 201 nella parte in cui deputa l’Autorità d’Ambito allo “smaltimento completo”.

[27] Tanto più che ai sensi del d.m. 3 agosto 2005, divenuto uniformemente applicabile sull’intero territorio nazionale dallo scorso 1 gennaio, i rifiuti urbani trattati non devono essere assoggettati a caratterizzazione analitica (sul punto la bozza di revisione del decreto reca tuttavia una inspiegabile modifica che merita approfondimento).

[28] Ho mutuato l’efficace espressione “iscrizione light” da P. Ficco, in “Rifiuti – Bollettino di informazione informativa”, p. 49, n. 132 (8-9/06).

[29] La portata della delega non è sfuggita a Corte Cost. 22 luglio 2009, n. 225.

[30]AS550 - osservazioni in merito alle determinazioni della regione Lazio in materia di gestione dei rifiuti solidi urbani e assimilati”, pubblicato a pag. 51 del bollettino dell’Autorità n. 26, del 20 luglio 2009.

[31] A modesto avviso di chi scrive l’art. 198 ha imposto la mera perpetuazione delle gestioni in corso, senza possibilità innovative bensì riservate alle nuove gare ambitali ex art. 204.

[32] Ritengo che il termine per i nuovi Piani Regionali decorra dall’ultimo esercizio della delega legislativa correttiva, ossia dal 13 febbraio 2008, data di entrata in vigore del d.lgs. 16 gennaio 2008.