LA GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN ITALIA E IN EUROPA

di Klaus Füßer e Emanuele Barbarossa

 

Klaus Füßer, Avvocato specializzato in diritto amministrativo, Leipzig (DE)

Emanuele Barbarossa, studente Laurea Specialistica in Giurisprudenza, Trento (IT)

 

INDICE

LA GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN ITALIA E IN EUROPA.. 1

Working Paper 1

INDICE.. 3

I.      Il problema dei rifiuti dalla storia ad oggi 6

II.      Definizione e classificazione di “rifiuto” 7

III.         L’Europa e i rifiuti 9

1.     La produzione dei Rifiuti Urbani in Europa. 9

2.     Le scelte gestionali dei Paesi Membri 11

IV.        Il quadro istituzionale italiano: ruoli e competenze della P.A. 12

1.     I poteri dello Stato. 12

2.     I poteri delle Regioni 13

3.     Le Province e i Comuni 14

4.     Gli Ambiti Territoriali Ottimali 14

5.     Le Autorità d’ambito. 16

6.     L’osservatorio Nazionale sui Rifiuti 17

V.    La legislazione sui rifiuti: dall’Europa all’Italia. 17

1.     Politica e strategie dell’UE in materia di rifiuti 17

1.1      La gerarchia dei rifiuti 18

1.2      I principi comunitari in materia di rifiuti 20

1.2.1     Spunti per una riflessione critica. 22

1.3      Gli obiettivi inerenti al trattamento dei rifiuti 24

1.4      La strategia tematica per la prevenzione e il riciclaggio. 25

2.     La gestione integrata dei rifiuti in Italia. 27

3.     La raccolta dei rifiuti urbani 29

3.1      Le modalità di raccolta. 29

3.2      La raccolta differenziata dei rifiuti urbani 31

3.3      La differenziazione come compromesso. 32

3.4      L’importanza del dialogo. 32

4.     La rendicontazione e il trasporto. 33

4.1      Il Catasto dei rifiuti 33

4.2      I registri di carico e scarico. 34

4.3      Il trasporto dei rifiuti 35

4.3.1     Le spedizioni transfrontaliere di rifiuti 35

4.3.2     Il traffico illecito di rifiuti 36

5.     Il trattamento dei rifiuti 37

5.1      Il recupero. 37

5.1.1     Le cifre del recupero. 39

5.2      Lo smaltimento. 40

5.2.1     La distruzione. 41

5.2.2     Il confinamento. 43

5.2.3     L’effetto “Lock-in” 46

6.     I costi per la gestione dei rifiuti urbani: la composizione della tariffa. 47

7.     Obblighi, divieti e sanzioni 49

7.1      L’obbligo di autorizzazione. 49

7.1.1     L’ iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali 50

7.2      La responsabilità del detentore di rifiuti 51

7.3      Il divieto di abbandono, deposito incontrollato ed immissione. 52

7.3.1.    Rimozione e ripristino dei luoghi 52

PARTE SECONDA – I sistemi regionali 53

VI.        Produzione e raccolta dei rifiuti urbani nelle regioni italiane. 53

VII.       Nord e Sud: tre sistemi regionali a confronto. 54

1.     Un modello per la raccolta differenziata: il Veneto. 54

1.1      I piani provinciali di gestione dei rifiuti urbani 55

1.2      Il piano regionale. 56

2.     La Lombardia: terra degli inceneritori 60

2.1      La Legge Regionale n° 26/2003. 61

2.1.1.    Il Fondo regionale per l’energia. 62

2.2      Gli indicatori di qualità del sistema rifiuti 63

3.     Una Sicilia tra autonomia e contraddizioni 63

3.1      Dall’emergenza rifiuti al Piano di gestione del 2002. 63

3.2      Gli aggiornamenti tecnici e la revisione del Piano di gestione. 64

3.3      La Legge Regionale 8 aprile 2010, n° 9. 66

VIII.      Conclusioni 67

1.     In sintesi 67

2.     Prevenzione e riciclaggio. 68

3.     Smaltimento e recupero di energia. 69

4.     Dall’informazione ambientale all’Educazione Ambientale. 70

 


PARTE PRIMAIl sistema nazionale di gestione dei rifiuti

I.          Il problema dei rifiuti dalla storia ad oggi

In un interessante racconto di Calvino degli anni ’60 si legge: “L’uomo è ciò che non butta via”. Una frase suggestiva ed alquanto eloquente, a significare che l’evoluzione dell’individuo muove dalla sua stessa capacità di abbandonare definitivamente una parte di sé. Ed effettivamente si potrebbe sostenere che la spazzatura che ogni giorno ci lasciamo alle spalle in qualche modo c’identifica, racconta qualcosa di noi e del nostro stile di vita.

Ogni italiano produce in media 1,5 kg di rifiuti urbani al giorno, i quali vanno naturalmente sommati ai ben più numerosi scarti del ciclo produttivo.

Se in tempi di boom economico in essi si poteva intravedere il lato oscuro di un progresso tuttavia assai luminoso, oggi si tende sempre meno ad accettare la loro presenza in maniera passiva. Lungi dall’evocare un quotidiano benessere materiale, i rifiuti sono ormai diventati sinonimo di inquinamento, distruzione dell’ambiente ed insulto al decoro urbano. Si rende perciò necessario intervenire per trovare una soluzione che non faccia semplicemente eco al motto out of sight, out of mind come un tempo, ma che si riveli efficiente soprattutto sotto gli aspetti economici ed ambientali.

Prima della Rivoluzione Industriale, i rifiuti prodotti erano per lo più biodegradabili e venivano quindi riassorbiti senza fatica nel ciclo naturale del pianeta: a quei tempi ci si poteva accontentare di allontanare le deiezioni dai centri urbani per evitare la contaminazione dell’acqua e scongiurare così le epidemie.

Nel corso degli ultimi due secoli si è invece assistito ad un rapido sviluppo indu-striale che, se da una parte ha consentito un netto miglioramento delle condizioni di vita, dall’altra ha moltiplicato quantità e qualità dei rifiuti in una società sempre meno capace di smaltirli.

Negli ultimi decenni è arrivato il colpo di grazia con il famigerato “usa e getta”, risultato di un progressivo abbassamento dei costi di produzione, in grado di ridurre dra-sticamente la durata dei beni di consumo ed aumentare ahimè il loro accumulo sotto forma di rifiuti.

Attualmente ci misuriamo col fenomeno sempre più tangibile della globalizzazione, che evidenzia come il “problema rifiuti” sia destinato ad assumere dimensioni mon-diali. In passato ogni comunità umana costituiva un sistema relativamente chiuso; oggi al contrario, un bene prodotto in Cina può essere consumato in Germania e successivamente smaltito in Africa come rifiuto: diviene così impresa assai ardua individuare i soggetti responsabili dell’inquinamento e si rende a tale scopo necessario far ricadere il peso dei rifiuti su chi maggiormente ne produce. Da cui uno dei principi comunitari fondamentali in materia: “Chi inquina paga”, ossia un mezzo con cui caricare i costi delle c.d. esternalità negative (inquinamento, ingombro, conseguenze nocive per la salute, etc.) sui prodotti ad alto impatto ambientale, favorendo in tal modo il riciclo e la produzione di beni a lunga durata. Sulla stessa lunghezza d’onda si mostrano le altre linee guida dell’UE tra cui: massimo recupero, responsabilità estesa del produttore, riduzione della produzione di rifiuti – con l’obiettivo finale “rifiuti zero”, ossia una prevenzione totale che consenta di recuperare il 100% degli scarti prodotti[1]. Al fine di perseguire con successo tale obiettivo, si rende necessaria una profonda rivoluzione culturale e di mercato, peraltro in parte già in corso.

In definitiva, l’orientamento assunto ai vertici prende coscienza di quanto il nostro attuale stile di vita sia divenuto insostenibile per il pianeta e, conseguentemente, il singolo e l’intera società odierna devono modificare il proprio comportamento in senso ambientalmente compatibile, anche attraverso una gestione sostenibile dei rifiuti. In altre parole, si deve ristabilire un equilibrio di lungo periodo tra i materiali sottratti e quelli restituiti all’ambiente, salvaguardandolo per noi stessi e per le generazioni future.

Ci si potrà così rendere conto che assecondare la natura è, oltre che giusto, anche vantaggioso per l’uomo, come si evince dalle sagge parole di Dickens:

<<Lega un albero di fico nel modo in cui dovrebbe crescere, e quando sarai vecchio potrai sederti alla sua ombra>>.

II.         Definizione e classificazione di “rifiuto”

L’Art. 3 della Direttiva 2008/98/CE fornisce la seguente definizione di rifiuto:

<<qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi>>.

In aggiunta a tale requisito, un rifiuto, per essere considerato tale, deve rientrare a far parte di una delle sedici categorie riportate dall’Allegato A della Direttiva 91/156/CE (es. sostanze contaminate, inadatte all’impiego o scadute, prodotti consumati o il cui utilizzo risulta vietato per legge).

In Italia, a partire dal D.lgs 152/2006, i rifiuti sono classificati in:

Urbani – domestici, non pericolosi, rifiuti vegetali, provenienti dallo spazzamento delle strade e da attività cimiteriale;

Speciali – da attività agricole ed agro-industriali, demolizione e costruzione, lavorazioni artigianali, attività commerciali, di servizio etc.…;

Pericolosi – tassativamente elencati nell’Allegato D del T.u..

Nella prima categoria rientrano anche i rifiuti della raccolta differenziata (in particolare carta, cartone, vetro, rifiuti biodegradabili, abbigliamento, vernici, inchiostri, adesivi, medicinali, batterie, plastica, metallo, legno, terra e roccia).

Di notevole importanza è inoltre la distinzione tra rifiuto vero e proprio e sottoprodotto[2], in quanto quest’ultimo risulta escluso dall’applicazione delle norme sui rifiuti.

Con esso s’identifica:

<<una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo…>>

e che soddisfa alcune condizioni specifiche:

–       l’utilizzo futuro della sostanza è certo;

–       non si rende necessario alcun trattamento ulteriore prima dell’utilizzo;

–       la sostanza è prodotta come parte integrante di un processo di produzione;

–       l’ulteriore utilizzo rispetta la salute e l’ambiente.

L’art. 5, 2° comma, prevede che gli Stati Membri possano adottare misure – puramente integrative rispetto agli elementi fissati nella Direttiva – tali da considerare determinate sostanze od oggetti quali sottoprodotti anziché rifiuti.

Essendo i rifiuti urbani rappresentati in buona parte da scarti domestici, appare sempre più opportuno alle istituzioni investire in campagne d’informazione e sensibi-lizzazione della cittadinanza, a favore di una maggiore consapevolezza e responsabilità nella selezione dei rifiuti tra le mura domestiche.

Un’interessante prospettiva secondo cui guardare al rifiuto è quella che lo descrive quale “bene di valore negativo”. Un prodotto o servizio viene solitamente qualificato in base all’utilità che ne deriva: il suo “valore positivo” è così commisurato alle opportunità di sfruttamento che il consumatore o l’utente finale vi intravede.

Il rifiuto al contrario, in quanto ex bene di consumo, subisce nella quotidianità una connotazione negativa che lo inquadra come qualcosa divenuto ormai inutile, indesiderato ed antiestetico. Il suo valore negativo, dunque, è legato al costo che esso rappresenta per chi lo detiene e vuole o deve disfarsene.

Tuttavia, se ci si sofferma sull’utilità potenziale del bene in questione, anziché soltanto sulla sua presenza fisica, il discorso cambia: una bottiglia vuota, ad esempio, rappresenta un bene già consumato e la plastica di cui si compone è destinata a diventare rifiuto (comportando un costo per il suo possessore).

Se però qualcuno decide di sfruttare nuovamente la bottiglia come contenitore, attribuisce al bene una nuova utilità, evitando inoltre i costi dello smaltimento. Si può così considerare il seguente assunto alla stregua di un principio:

<<un bene ha tanto più valore quanta più utilità potenziale vi è racchiusa>>[3]

In breve, un bene usato può riacquistare valore positivo, purché si abbia interesse ad investire su di esso per recuperarlo.

Nella Direttiva viene dedicato un articolo apposito alla “Cessazione della qualifica di rifiuto”[4], nel quale sono elencate con precisione le condizioni necessarie per il recupero del rifiuto:

–       l’utilizzo dell’oggetto per scopi specifici;

–       l’esistenza di un mercato pronto ad accogliere l’oggetto;

–       la soddisfazione dei requisiti tecnici per gli scopi selezionati e il rispetto degli standard previsti per il prodotto;

–       assenza di “impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”.

Qualora non fosse necessario alcun intervento di recupero finalizzato ad un nuovo utilizzo del rifiuto, come si evince dall’art. 5, 1° comma, lett. b), si ridefinisce automaticamente quest’ultimo come sottoprodotto.

III.        L’Europa e i rifiuti

1.      La produzione dei Rifiuti Urbani in Europa

Eurostat stima che, nel 2004, la neonata Europa a 27 abbia prodotto circa 2,8 miliardi di tonnellate di rifiuti, il 14% dei quali classificabili come urbani. Se si retrocede di circa un decennio, si può notare come la produzione di rifiuti subisca ogni anno un incremento leggero ma costante, segno di un aumento della ricchezza pro capite e del conseguente maggior utilizzo di sostanze naturali.

La disomogeneità tra Stati emerge non appena si osserva che la produzione totale di rifiuti urbani nel 2007 si assesta attorno ai 260 milioni di tonnellate, con un contributo da parte dei nuovi Stati Membri (entrati nel 2004) del solo 14,7%; Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna sono infatti responsabili per ben il 67,5%. Il valore di produzione minimo registrato finora è quello della Repubblica Ceca, con soli 294 kg per abitante l’anno, ben lontano dagli 801 kg del danese medio, al primo posto nella classifica.

In alcuni Paesi di modeste dimensioni si riscontrano valori inaspettatamente superiori alla media: è il caso delle isole di Malta e Cipro. Il fenomeno potrebbe comunque essere ricondotto alla concentrazione di flussi turistici in determinati periodi dell’anno.

Nella maggior parte degli altri Stati europei si registra invece una produzione di rifiuti urbani compresa tra i 400 e i 500 kg/ab. l’anno.

Grafici alla mano, nel triennio 2004 - 2007 si constata inoltre un rapido aumento nella produzione dei rifiuti d’imballaggio, che arriva a sfiorare gli 82 milioni di tonnellate, pari a un terzo della totalità dei rifiuti urbani.

Se si considera che soltanto un quarto degli Stati Membri vanta una stabilizzazione della produzione di rifiuti d’imballaggio, si può ben comprendere come questi siano divenuti oggetto di specifici obiettivi di riciclaggio e recupero all’interno dell’Unione.

La frazione merceologica più rilevante nei 27 Stati è costituita da imballaggi cellulosici (40%), seguita nell’ordine da vetro, plastica, legno e metallo.

A ben vedere, il trend attuale non rappresenta un fenomeno propriamente recente: l’ultimo trentennio può dirsi interamente interessato da una costante crescita degli imballaggi. Ciò riflette certamente un progressivo mutamento di abitudini e stili di vita: la metà dei rifiuti urbani prodotti negli anni ’60 era rappresentata da materiale organico putrescibile, mentre oggi tale frazione si assesta attorno al 20%, a fronte di un altro 15% corrispondente a materiale plastico.

In buona sostanza, se un tempo si era soliti cucinare a casa, oggi per praticità o semplice mancanza di tempo si prediligono cibi pronti a lunga conservazione, allo scopo opportunamente imballati. Se da una parte è ragionevole sensibilizzare il consumatore invitandolo a scegliere accuratamente i prodotti, d’altro canto è pur vero che le responsabilità maggiori si concentrano nel comparto produttivo.

Ad ogni modo, negli ultimi tempi sembra potersi registrare una certa presa di coscienza, essendo scomparsi dal mercato per lo meno gli imballaggi pa-lesemente inutili (pochi forse sentiranno la mancanza delle scatolette di cartone atte a contenere i tubetti di dentifricio, già di per sé confezione).

Infine, confrontando i dati riguardanti la produzione dei rifiuti urbani, è possibile delineare un interessante profilo socio-economico dell’Europa odierna, potendo risalire ai consumi e calcolare così con buona approssimazione ricchezza e qualità della vita in ciascun Paese: negli Stati dell’Europa occidentale, maggiormente industrializzati e con un PIL più elevato, si evidenziano naturalmente consumi più elevati, giustificando una produzione di rifiuti generalmente più ingente rispetto all’Est europeo.

 

2.      Le scelte gestionali dei Paesi Membri

Nel 2007, in Europa, il 42% dei rifiuti urbani è stato smaltito in discarica, il 38% riciclato e il 20% avviato ad incenerimento.

Basta una rapida analisi dei dati statistici per constatare quanto le modalità di gestione appaiano eterogenee: Paesi quali Olanda, Germania, Svizzera e Danimarca si mostrano sostanzialmente in linea con la Direttiva Quadro 2008/98, avendo ridotto drasticamente il conferimento in discarica (<10%) a favore dell’incenerimento (che nel caso della Svizzera sfiora addirittura il 100%) e di una generale diminuzione della produzione di rifiuti.

Per converso, i nuovi Stati Membri fanno un ricorso ancora massiccio allo smaltimento in discarica (>80%), a fronte di basse quantità di rifiuti avviate a riciclaggio: questo spiega il brusco rallentamento del trend positivo registratosi antecedentemente al maxi-allargamento dell’Unione nel 2004. Anche in occidente si riscontrano in realtà esempi, quali Gran Bretagna ed Italia, che svelano risultati globali ancora lontani dall’eccellenza; i due Stati si stanno ad ogni modo dotando di nuovi impianti di incenerimento.

In senso assoluto, sempre nel 2007, si registra inoltre un tasso di recupero piuttosto soddisfacente: dal 67,7% di metallo e legno immessi al consumo, al 63,5% del vetro, al 56,8% della carta.

Una nota del tutto positiva è che ben 14 Stati, tra cui l’Italia, hanno saputo rispettare gli obiettivi di recupero e riciclaggio degli imballaggi fissati per il 2008 (rispettivamente il 60% e il 55% in peso).


IV.       Il quadro istituzionale italiano: ruoli e competenze della P.A.

In materia di rifiuti la regolamentazione può dirsi alquanto minuziosa: a partire dagli anni ’70 la fonte principale di norme e principi è quella comunitaria, attraverso la quale gli Stati Membri recepiscono in primo luogo un apparato definitorio uniforme, seguito da una classificazione precisa delle varie attività di gestione ed infine i criteri da rispettarsi per le diverse tipologie di materiale.

All’interno di ciascuna realtà nazionale, la legge individua come proprio destinatario la figura del detentore, ossia colui che ha generato o comunque possiede qualcosa di cui deve o intende disfarsi. Egli è tenuto a provvedere alla gestione del rifiuto a proprie spese o in proprio, qualora sia legittimato a farlo.

Inoltre al detentore spetta comunicare all’amministrazione competente la quantità di rifiuti prodotta nonché la modalità di gestione prescelta, mostrando di impiegare le migliori tecnologie disponibili[5].

Le Pubbliche Amministrazioni hanno di regola un forte potere discrezionale nella selezione dei soggetti idonei a gestire gli impianti per il trattamento, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti.

1.      I poteri dello Stato

A livello europeo vengono impartiti i limiti, i principi di base e le definizioni ge-nerali che ciascuno Stato Membro è chiamato a fare propri. A livello nazionale si concentrano invece le funzioni di indirizzo e coordinamento della materia, unitamente ad una più generale tutela dell’ambiente sul territorio ed ai relativi controlli.

Ai sensi del D. lgs. 152/2006[6] l’Italia inoltre deve:

–       stabilire i criteri generali e le metodologie per la gestione integrata[7];

–       individuare le misure per limitare la produzione dei rifiuti e ridurne la pericolosità;

–       incoraggiare la razionalizzazione della raccolta e del riciclaggio nonché scegliere le iniziative economiche più adatte a favorirli;

–       individuare (d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni) obiettivi di qualità e linee guida tali da accompagnare efficacemente l’elaborazione dei Piani Regionali[8] e promuovere la collaborazione fra gli enti locali;

–       indicare i criteri per la raccolta differenziata e per localizzazione degli impianti di smaltimento.

2.      I poteri delle Regioni

Le Regioni (sentite le Province, i Comuni e le Autorità d’Ambito) sono tenute a redigere i Piani Regionali con cui regolamentare le attività di gestione dei rifiuti, compresa la raccolta differenziata. Ciascuna Regione o Provincia autonoma, per mezzo del Piano, garantisce:

–       l’approvazione dei progetti di nuovi impianti, l’autorizzazione alle modifiche di quelli esistenti e all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di recupero;

–       la delimitazione degli Ambiti Territoriali Ottimali[9] nel rispetto delle linee guida generali di cui all’art. 195, 1° comma, lett. m);

–       il raggiungimento dell’ <<obiettivo di assicurare la gestione dei rifiuti urbani non pericolosi all'interno degli ambiti territoriali ottimali di cui all'articolo 200>>[10];

–       la promozione della gestione integrata “dei rifiuti per ambiti territoriali ottimali attraverso un’adeguata disciplina delle incentivazioni, prevedendo per gli ambiti più meritevoli, tenuto conto delle risorse disponibili a legi-slazione vigente, una maggiorazione di contributi; a tal fine le regioni possono costituire nei propri bilanci un apposito fondo”[11];

–       l’assicurazione della copertura, da parte di enti e società pubbliche, del proprio fabbisogno di beni attraverso una quota di prodotti riciclati non inferiore al 30%.

 

3.      Le Province e i Comuni

Le Province si occupano della programmazione ed organizzazione del recupero e dello smaltimento dei rifiuti. Inoltre, esse:

–       effettuano controlli periodici sulle attività di gestione ed intermediazione dei rifiuti;

–       verificano e monitorano gli interventi di bonifica;

–       individuano in accordo con gli enti locali le zone idonee ad ospitare gli impianti di smaltimento.

I Comuni sono tenuti a:

–       stabilire le misure necessarie per assicurare igiene e salute;

–       determinare le modalità di raccolta, trasporto e conferimento dei rifiuti urbani, promuovendone il recupero;

–       coadiuvare le attività svolte a livello di Ambito Territoriale Ottimale;

–       rispondere puntualmente alle richieste di informazione ed aggiornamento sulla gestione da parte di Province e Regioni.

4.      Gli Ambiti Territoriali Ottimali

L’Ambito Territoriale Ottimale (ATO) rappresenta, ai sensi dell’art. 200 T.u., l’unità territoriale minima creata ai fini di una gestione dei rifiuti urbani che avvenga secondo i criteri di:

–       gestione integrata – in un’ottica di economicità ed efficienza viene indetta all’interno di ciascun ATO una gara d’appalto per l’affidamento della gestione dei rifiuti ad un unico operatore, allo scopo di ovviare all’inefficiente frammentazione delle varie operazioni di gestione;

–       studio delle dimensioni territoriali più adatte a ciascun ATO, in base alle peculiarità morfologiche, demografiche e politico-amministrative dell’area – di norma la perimetrazione degli ATO segue per lo più criteri di aggregazione ammi-nistrativi, arrivando a ricalcare nella maggior parte dei casi i confini provinciali. Il Piano Regionale del Veneto ad es. istituisce 9 ATO, di cui 6 corrispondenti ad altrettante Pro-vince, mentre i restanti 3 vanno eccezionalmente a suddividere il territorio veronese.

È opportuno prestare attenzione a non confondere l’ATO rifiuti con l’omonima unità territoriale che viene utilizzata nel settore idrico per designare il singolo “bacino idrografico”: la mappatura territoriale costruita a partire da quest’ultimo è infatti sensibilmente differente;

–       ottimizzazione dei trasporti all’interno dell’area.

 

Per migliorare l’organizzazione delle comunità che presentano dimensioni superiori a quelle medie di un singolo Ambito, può essere operato un frazionamento del territorio nel rispetto dei criteri di cui sopra; nel caso in cui un ATO sia ricompreso nel territorio di due o più Regioni spetterà a queste ultime, d’intesa, la delimitazione della sua area.

Dal settimo comma dell’art. 200 T.u. traspare l’elevato grado di autonomia posto in mano alle Regioni: nonostante l’ATO costituisca il principale modello di riferimento per la gestione dei rifiuti, ad esse viene infatti lasciata l’opportunità di adottare sistemi di organizzazione territoriale alternativi, purché questi si conformino ai criteri e alle linee guida statali, nonché ai principi comunitari di autosufficienza e prossimità.

Con riferimento a questi ultimi, l’art. 182 T.u. prevede che lo smaltimento dei rifiuti debba avvalersi di una rete adeguata di impianti al fine di <<realizzare l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi in ambiti territoriali ottimali>>; in aggiunta, detti impianti devono essere collocati in modo tale da consentire che lo smaltimento avvenga il più vicino possibile ai luoghi di produzione o raccolta, al fine di ridurre la movimentazione dei rifiuti.

La portata dei principi di autosufficienza e prossimità viene quindi trasposta  nel dettato dell’art. 201, 5° comma T.u., in cui si legge:

In ogni ambito:

a)  è raggiunta, nell'arco di cinque anni dalla sua costituzione, l'autosufficienza di smaltimento anche, ove opportuno, attraverso forme di cooperazione e collegamento con altri soggetti pubblici e privati;

b)  è garantita la presenza di almeno un impianto di trattamento a tecnologia complessa, compresa una discarica di servizio.

Lo smaltimento dei rifiuti fuori dall’ATO in cui sono stati prodotti e raccolti rappresenta un’ipotesi del tutto eccezionale: una conferma in tal senso deriva dalla necessità di un’autorizzazione apposita rilasciata dall’autorità territorialmente competente (Regione o Stato)[12].

Ogni ATO si avvale della partecipazione obbligatoria di tutti i Comuni presenti all’interno dell’area, ai quali spetta la scelta di operare in forma di consorzio piuttosto che di convenzione fra enti coordinata dalla Provincia.

 

5.      Le Autorità d’ambito

Ai sensi dell’art. 201, 2° comma, T.u. <<l'Autorità d'ambito è una struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l'esercizio delle loro competenze in materia di gestione integrata dei rifiuti>>.

Se il Piano regionale fissa l’impiantistica di riferimento e gli obiettivi da raggiungere, la parte operativa ricade invece interamente sull’Autorità d’Ambito, la quale aggiudica il servizio di gestione integrata tramite gara pubblica[13] mantenendo costantemente su di essa il controllo generale e rappresenta la domanda collettiva del servizio, regolando la sua erogazione all’utenza.

All’Autorità d’ambito inoltre spettano:

–       la ricognizione delle opere ed impianti esistenti e la trasmissione alla Regione dei relativi dati;

–       la redazione di un Piano d’Ambito che stabilisca le modalità organizzative del servizio di raccolta secondo criteri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza (in conformità al Piano provinciale e regionale); tale piano deve inoltre includere un programma degli interventi necessari, accompagnato da un piano finanziario che riporti i proventi derivanti dall’applicazione della tariffa, le risorse disponibili e quelle da reperire;

–       la scelta dei criteri per la determinazione della tariffa relativa al servizio di raccolta;

–       l’individuazione degli obiettivi di qualità della raccolta.

La L.R. n° 3/2000 offre in Veneto una puntuale regolamentazione delle Autorità d’Ambito locali; essa prevede che le attività riservate all’Autorità siano esclusivamente organizzative, di coordinamento e controllo della gestione dei rifiuti urbani e attribuisce a ciascun’Autorità personalità giuridica di diritto pubblico. Ne elenca infine gli organi costitutivi – assemblea, presidente, consiglio di amministrazione, direttore e, se viene scelta la forma consortile, collegio dei revisori[14].

 

6.      L’osservatorio Nazionale sui Rifiuti

Il D.lgs. 2008 n° 4 ha sancito[15], l’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sui Rifiuti (ONR).

Ai nove esperti di cui si compone è stato attribuito il compito di elaborare criteri ed obiettivi specificamente rivolti a ridurre quantità e pericolosità dei rifiuti, nonché a migliorare l’efficienza e l’economicità della loro gestione.

L’ONR svolge inoltre funzioni di controllo e vigilanza sulla qualità dei servizi erogati, verificandone costantemente i costi; esso racchiude i dati raccolti assieme alle proprie valutazioni all’interno di un rapporto annuale, che verrà poi trasmesso al Ministro dell’Ambiente.

Esistono anche delle sedi regionali dell’Osservatorio, finalizzate a garantire un controllo maggiormente capillare sul territorio: in Veneto, l’Osservatorio Regio-nale sui rifiuti ha sede presso l’ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto).

V.        La legislazione sui rifiuti: dall’Europa all’Italia

1.      Politica e strategie dell’UE in materia di rifiuti

Si potrebbe asserire che la politica ambientale europea abbia preso il via proprio con la politica sui rifiuti. Nel corso degli anni ’70 e ’80 si susseguirono alcuni scandali, per lo più imputabili ad una cattiva gestione dei rifiuti, che videro protagonisti diversi Paesi europei[16]. Tali accadimenti, oltre a scuotere l’opinione pubblica, sensibilizzarono i responsabili politici dell’epoca, spingendoli ad adottare misure di sicurezza e facendoli così approdare alla prima Direttiva Quadro sui rifiuti urbani.

Analogamente ad essa, i primi strumenti legislativi erano caratterizzati dalla compresenza di tre elementi: un apparato definitorio di base, la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana e condizioni specifiche per la circolazione transfrontaliera dei rifiuti.

Il passo seguente fu compiuto con la Convenzione di Basilea del 1989, a favore di una riduzione della produzione di rifiuti e controlli più severi sul loro trasporto.

In questa fase difettano ancora i parametri di emissione relativi alle attività di trattamento dei rifiuti, introdotti soltanto con le Direttive 1999/31/CE[17] sulle di-scariche e 2000/76/CE sull’incenerimento[18].

I.   Tra gli obiettivi generali del primo strumento legislativo citato, come si legge all’art. 1, vi è quello di ridurre i rischi per la salute umana risultanti dalle di-scariche di rifiuti durante il loro intero ciclo di vita.
La Direttiva inoltre classifica le discariche in tre categorie: rispettivamente per rifiuti pericolosi, non pericolosi ed inerti, specificando per ciascuna le tipologie di rifiuti ammesse. Vengono in seguito stabilite le procedure di autorizzazione per l’apertura ed il funzionamento della discarica; sono infine sancite le condizioni per il controllo e la gestione successivi alla sua chiusura;

II.  Lo scopo della Direttiva 2000/76/CE è invece quello di <<evitare o limitare per quanto praticabile gli effetti negativi dell’incenerimento e del co-incenerimento dei rifiuti sull’ambiente, in particolare l’inquinamento dovuto alle emissioni nell’atmosfera […] nonché i rischi per la salute umana che ne derivano […], mediante rigorose condizioni di esercizio e prescrizioni tecniche, nonché istituendo valori limite di emissione […]>>[19].

Negli anni successivi gli interventi sono stati per lo più rivolti alla promozione di riciclaggio, riutilizzo e recupero di energia.

Si riportano di seguito le tappe fondamentali del percorso legislativo intrapreso.

1.1         La gerarchia dei rifiuti

In primo luogo, è stata stilata una gerarchia tra le operazioni di gestione dei rifiuti[20], la quale stabilisce tra di esse un preciso ordine di priorità:

    1. Prevenzione dei rifiuti

Punto focale della legislazione europea attuale, essa consiste nella riduzione programmata di quantità, pericolosità e impatto negativo dei rifiuti su ambiente e salute.

L’Allegato IV della Dir. 2008/98 riporta alcuni esempi di misure di prevenzione:

  • misure relative alle condizioni generali di produzione dei rifiuti – es. la rea-lizzazione di prodotti più “puliti”;
  • misure incidenti sulla fase di progettazione – es. ecologica – dei prodotti;
  • misure connesse alle fasi di consumo ed utilizzo dei prodotti – es. promozione di marchi di qualità ecologica.

Entro la fine del 2011 dovrà essere stilata una relazione intermedia sull’evoluzione della produzione dei rifiuti e definita una politica di “progettazione ecologica dei prodotti” che favorisca tecnologie incentrate su sostenibilità, riciclo e riutilizzo; inoltre si conta sull’ausilio di incentivi economici che favoriscano l’utilizzo di prodotti so-stenibili. Nel medesimo intervallo dovrà essere formulato un piano d’azione che si mostri in grado di modificare i modelli di consumo in senso ambientalmente compatibile.

Dovranno essere definiti[21], entro il 12 dicembre 2013, dei programmi di prevenzione che adottino misure atte a “dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione di rifiuti”.

Infine vengono posti obiettivi di dissociazione entro il 2020 – gli impianti di dissociazione molecolare, per ora in fase sperimentale, sarebbero in grado di trattare i rifiuti organici per consentire il recupero delle frazioni inerti dei materiali d’ingresso e trasformarle in un gas combustibile detto “syngas”, ampiamente sfruttabile per produrre energia elettrica e termica a bassissimo impatto ambientale.

Al fine di garantire maggiori probabilità di successo nel raggiungimento dell’obiettivo finale, si sta diffondendo un indicatore denominato LCA – life cycle assessment o va-lutazione del ciclo di vita – in base al quale si ripercorre l’intero ciclo di vita di un prodotto, evidenziando i consumi netti di energia in ogni fase. Una prima conseguenza utile di tale approccio potrebbe essere la fissazione di una durata minima per i c.d. beni durevoli – ad es. la garanzia di buon funzionamento di un frigorifero per almeno 5 anni inclusa nel prezzo di acquisto;

    1. Preparazione per il riutilizzo del prodotto

Ossia le operazioni di controllo, pulizia e riparazione che consentono di reimpiegare prodotti (o loro componenti) divenuti rifiuti, senza ricorrere ad altro pretrattamento. Gli Stati Membri devono predisporre strumenti economici, criteri in materia di appalti e obiettivi quantitativi atti ad agevolare tali operazioni;

    1. Riciclaggio

Il ritrattamento dei materiali di rifiuto finalizzato a ripristinare la funzione originaria del prodotto o ad attribuirgliene una nuova. Sono escluse dalla definizione di riciclaggio[22] le operazioni di recupero di energia, ritrattamento per l’ottenimento di combustibili e riempimento.

Ai sensi dell’art. 11, 1° comma, §2, gli Stati Membri devono promuovere quanto più possibile un riciclaggio di alta qualità, a tal fine istituendo un regime totale di raccolta differenziata dei materiali. Qualora entro il 2015 non si riesca a raccogliere separatamente ogni tipo di materiale, la differenziata dovrà essere comunque obbligatoriamente adottata per carta, metalli, plastica e vetro (§3). Il secondo comma, lett. a) dell’art. 11 prevede inoltre che, entro il 2020, la preparazione e il riutilizzo dei suddetti materiali dovrà essere incrementata del 50% in peso, a fronte di un aumento di ben il 70% per quanto concerne materiali quali rifiuti di costruzione o demolizione non pericolosi (lett. b).

Infine l’art. 22 sollecita gli Stati Membri ad adottare misure che incoraggino la raccolta separata dei rifiuti organici a fini di compostaggio: la componente putrescibile, qualora non opportunamente convogliata nella frazione umida, è infatti responsabile di una sensibile diminuzione della combustibilità dei rifiuti.

La normativa italiana ha tradotto il principio europeo in questione:

  • vietando il conferimento indiscriminato di rifiuti in discarica – soluzione permessa soltanto per il rifiuto ultimo;
  • fissando tre obiettivi di raccolta differenziata a livello nazionale (art. 205 T.u.): il 35% entro il 2006, il 45% entro il 2008 e l’ancora ambizioso raggiungimento del 65% di raccolta differenziata entro il 2012: si tratta di un valore molto alto che tuttavia, in caso positivo, permetterebbe agevolmente di rispettare la percentuale di riciclo-utilizzo prevista dalla Direttiva;
    1. Altre forme di recupero (es. energia)

In base all’Allegato II, si considerano operazioni di recupero quelle che sottopongono i rifiuti a particolari tipi di trattamento (chimici, biologici, meccanici etc.) al fine di ge-nerare solventi, combustibili, oli o altre materie prime secondarie;

    1. Smaltimento

Gli Stati Membri provvedono affinché i rifiuti che non possono essere altrimenti recuperati siano sottoposti ad operazioni di trattamento sicure, nel rispetto della salute umana e dell’ambiente – tra le opzioni riportate dall’Allegato I della Direttiva si posso menzionare il deposito in discarica, l’immersione, l’incenerimento, il trattamento fisico-chimico o biologico, il lagunaggio.

Il secondo comma dell’art. 4 precisa inoltre che devono essere incoraggiate le opzioni che consentono di ottenere il miglior risultato ambientale complessivo, giustificando allo scopo eventuali deroghe all’ordine prestabilito: ad esempio è stato dimostrato che, a livello d’impatto, è preferibile ricorrere al riciclaggio qualora i rifiuti plastici siano puliti e separati, mentre in assenza di differenziazione risulta più efficiente l’incenerimento con recupero di energia.

1.2         I principi comunitari in materia di rifiuti

In secondo luogo, negli anni ’90 sono stati riaffermati e rafforzati i principi comunitari in materia di rifiuti, ciascuno dei quali mostra ricadute pratiche di rilievo.

In generale i principi comunitari – seppur quelli di seguito elencati vengono in parte citati dalla Direttiva – sono per lo più frutto della consuetudine e traggono sovente origine da un sostrato di valori comuni alla tradizione giuridica europea.

Con il progressivo aumento delle materie entrate a far parte dell’area di competenza comunitaria, si sono moltiplicati anche i principi giuridici parte dello scenario; essi dettano un orientamento preciso per la regolamentazione di ciascun settore, costituendo da un lato un essenziale punto di riferimento per il legislatore comunitario, dall’altro guidando gli Stati Membri verso il corretto recepimento della normativa.

In materia di rifiuti si annoverano i seguenti principi fondamentali:

  • “Chi inquina paga”

La prima formulazione politica del principio appare piuttosto datata, risalendo alla Raccomandazione del Consiglio 75/436/Euratom. La Direttiva Quadro 2008/98 riprende tuttavia il principio al punto 26 delle Disposizioni Preliminari, conferendogli nuovo vigore. Esso viene definito quale “principio guida a livello europeo e internazionale”, secondo il quale il produttore di rifiuti dovrebbe assicurare una gestione conforme agli standard di protezione dell’ambiente e della salute umana.

In senso assoluto, la politica ambientale dovrebbe essere finanziata, anziché dai fondi pubblici, dagli stessi responsabili dell’inquinamento, ogniqualvolta questi risultino identificabili.

In base al principio, i produttori di rifiuti devono sostenere i costi di trattamento, inclusi quelli indiretti causati dalle esternalità ambientali; ciò si traduce concretamente nell’introduzione di tasse ambientali, accanto ad un sistema di tariffazione proporzionale alle quantità di rifiuti generati;

  • Autosufficienza

Ogni comunità deve essere in grado di smaltire autonomamente i propri rifiuti – ai sensi dell’art. 16, 2° comma, ogni Paese persegue tale obiettivo in base alle proprie necessità peculiari ed al contesto geografico. L’Italia ha fatto sì che ciascun ATO fosse dotato fin dall’origine di un impianto di trattamento[23];

  • Prossimità

L’art. 16, 3° comma, stabilisce, in linea con il principio di autosufficienza, che il trattamento dei rifiuti debba avvenire quanto più possibile vicino al luogo di produzione degli stessi, riducendo al minimo la loro movimentazione, peraltro già pesantemente regolamentata[24];

  • Responsabilità estesa del produttore

L’art. 8 della Direttiva riporta un principio articolato e complesso, attraverso il quale un problema a lungo ingiustamente ricaduto sulla collettività è stato finalmente ricondotto alla radice. Per mezzo di incentivi economici, quando non di vere e proprie sanzioni, l’intero comparto produttivo viene responsabilizzato in merito al “ciclo di vita” dei prodotti, il loro destino, nonché le esternalità da essi causate: in capo a ciascun ope-ratore industriale viene infatti fissato l’onere di raggiungere determinati obiettivi di recupero in relazione ai materiali messi in circolazione, allo scopo di promuovere la commercializzazione di prodotti tecnicamente durevoli o riutilizzabili. Ciò può inoltre implicare l’accettazione di prodotti restituiti o dei residui del loro utilizzo, previa adeguata informazione in merito ai consumatori – un’efficiente risposta italiana alla presente richiesta europea è stata data con la gestione di alcuni tipi di rifiuto in forma consortile: il consorzio “CONAI” gestisce il ritiro degli imballaggi in maniera esclusiva a livello nazionale, obbligando produttori e distributori ad aderire verso il corrispettivo di una quota, utilizzata a sua volta per finanziare la raccolta differenziata nei Comuni. In appena un decennio di vita del consorzio, il recupero degli imballaggi ha raggiunto valori prossimi al 60%, dimostrando così l’efficacia del metodo;

  • Minimizzazione del danno

Con essa s’intende il rispetto di standard tecnologici e di emissione da parte di tutti i soggetti impiegati negli impianti di trattamento dei rifiuti.

1.2.1          Spunti per una riflessione critica

S’intende proporre in tal sede una riflessione critica avente ad oggetto gli effetti di alcuni principi comunitari.

Come già accennato sopra, la presenza di principi generali consente di aderire, all’interno di ogni materia comunitaria, ad un orientamento specifico che risulterebbe altrimenti impercettibile in base alle singole disposizioni di legge.

Tuttavia la stabilità garantita dai principi è tutt’altro che assoluta, risultando spesso confinata al singolo settore di riferimento.

La prassi rivela infatti che l’applicazione di principi comunitari appar-tenenti a settori differenti crea talora delle problematiche quanto inte-ressanti situazioni di contrasto, spesso legate alla necessità di proteggere interessi diversi o addirittura contrapposti.

A) Autosufficienza e Prossimità

Un primo esempio di contraddittorietà emerge dal confronto dei principi di autosufficienza e prossimità, propri del settore rifiuti, con quelli di libera concorrenza e libera circolazione delle merci, operanti in ambito economico. Da una parte, l’imposizione operata dai vincoli di autosufficienza e prossimità può essere giustificata dal perseguimento di un importante obiettivo di riduzione della movimentazione dei rifiuti, correlato all’apprezzabile conseguenza di un minore impatto ambientale. Dall’altra però, la localizzazione forzata delle attività di gestione si traduce in un concreto ostacolo all’attività di trasporto dei rifiuti, con una significativa li-mitazione di alcune attività imprenditoriali che ruotano attorno ad essi. Un’estremizzazione di tale andamento suggerisce che, in un futuro prossimo, potrebbero essere messe in discussione le stesse idee di commercio e mercato, ormai consolidate da decenni di tradizione comunitaria – non ci si dimentichi dell’impronta prevalentemente economica che ha caratterizzato la Comunità fin dal suo inizio, denominata per l’appunto C.E.E. fino al Trattato di Maastricht del 1992: quest’ultimo, trascendendo l’aspetto meramente economico della Comunità, ne ampliò orizzonti ed obiettivi, trasformandola nella ben più articolata C.E. in qualità di “primo pilastro” dell’Unione Europea.

Appare dunque lecito chiedersi quale categoria di interessi risulti più me-ritevole di protezione: è giusto lasciar la strada vecchia per la nuova comprimendo la libertà di mercato a favore di un’improcrastinabile tutela dell’ambiente? Oppure è più importante aderire ai valori comunitari più consolidati, lasciando alla tutela dell’ambiente uno spazio meramente residuo?

Sebbene nella realtà il contrasto non sia così netto come descritto, pare tuttavia opportuno interrogarsi su quale sia l’orientamento da assumere per affrontare tale problematica: mercato ed ambiente rappresentano macrointeressi ineluttabilmente divergenti oppure si prestano in qualche misura ad una conciliazione?

Se si tralascia per un istante l’obiettivo di contenimento delle emissioni, s’intuiscono gli innumerevoli vantaggi economici e gestionali che deriverebbero dalla presenza di pochi impianti specializzati ove concentrare la maggior parte dei trattamenti: anziché costringere ogni singola comunità ad attrezzarsi per trattare autonomamente la quasi totalità dei propri rifiuti, si potrebbe incentivare un’organizzazione del trasporto dei rifiuti su larga scala, in maniera efficiente e ad impatto limitato. Scegliendo ad esempio di utilizzare alcune tratte della rete ferroviaria si arriverebbe a minimizzare le emissioni, riuscendo nel contempo a trasportare grandi quantità di materiale e convogliarlo in centri ampiamente attrezzati per lo smaltimento ed il recupero di energia. Realizzando tali impianti in zone di confine, sarebbe inoltre possibile servire vasti territori di più Paesi, instaurando una coope-razione multilaterale basata su specializzazione e suddivisione delle competenze. A supervisione del corretto funzionamento di questi grandi poli di smaltimento si potrebbero inoltre istituire delle Commissioni di vigilanza composte da rappresentanti di più Paesi, simili a quelle già operanti a livello transnazionale nel settore idrico in merito alla gestione dei principali fiumi europei (si pensi ad esempio alla ICPDR – Commissione Internazionale per la Protezione del Fiume Danubio).

 

B) “Chi inquina paga”

Un secondo elemento controverso emerge da una breve analisi del famigerato principio “Chi inquina paga”[25], secondo cui è più giusto e utile addossare i costi dell’impatto ambientale direttamente a chi genera i rifiuti, evitando di distribuire equamente la spesa sull’intera società. Nonostante il principio si mostri di primo acchito perfettamente logico e lineare, è tuttavia possibile risalire a monte dello stesso, attraverso un quesito molto semplice: chi è realmente l’inquinatore? Chi deve cioè fungere da capro espiatorio e sopportare il peso dell’impatto ambientale complessivo? Forse colui che innesca il meccanismo di consumo immettendo il bene sul mercato? O piuttosto il consumatore stesso, il quale si dovrà disfare del prodotto dopo l’uso e magari già dell’imballaggio dopo l’acquisto?

A ben vedere le risposte sono tutt’altro che scontate.

A livello generale nessun individuo, cittadino o impresa che sia, può rite-nersi esente dall’orientare il proprio comportamento a favore dell’ambiente, essendo, in qualità di detentore dei propri rifiuti, perso-nalmente responsabile del loro destino.

Tuttavia si potrebbe pensare che la Comunità Europea abbia scelto su chi far ricadere gli oneri più gravosi: accanto alla generale “Responsabilità della gestione dei rifiuti”[26], infatti, va ricordata la più specifica “Responsabilità estesa del produttore”[27] sancita dall’art. 8. Quest’ultima previsione attribuisce inequivocabilmente un maggiore rilievo ai protagonisti della filiera produttiva, ritenuti in grado di determinare condizioni e qualità dell’offerta e di influenzare così il consumatore finale, ritratto in un ruolo più passivo rispetto all’ambiente.

1.3         Gli obiettivi inerenti al trattamento dei rifiuti

In terzo luogo, la Direttiva 2008/98/CE ha promosso una gestione industriale dei rifiuti che sia efficace, economicamente efficiente ed ambientalmente compatibile, nonché fondata sulle migliori tecnologie disponibili.

Ciò si sostanzia in due macro-obiettivi:

  • l’azzeramento dei rifiuti in discarica, attraverso disincentivi economici di intensità crescente. Si rende infatti necessario penalizzare un sistema di smaltimento tanto economico e pratico quanto nocivo per l’ambiente e per l’uomo stesso: nonostante le misure di sicurezza rese disponibili dalle nuove tecnologie, il rischio di contaminazione delle falde acquifere più prossime resta di fatto elevato.

Inoltre la presenza di una discarica diminuisce il valore naturalistico di un’intera zona, rendendola peraltro inservibile per diverso tempo anche dopo la sua chiusura;

  • la complementarità tra diverse forme di trattamento, che diventano parte del medesimo ciclo integrato in ossequio a ragioni economiche ed ambientali.

In particolare, a partire dalla stesura della gerarchia dei rifiuti[28], viene eliminata qualunque forma di concorrenza tra riciclaggio ed incenerimento con recupero energetico (spesso erroneamente descritti quali soluzioni alternative).

1.4         La strategia tematica per la prevenzione e il riciclaggio

Il miglioramento della gestione dei rifiuti viene sempre più accolto come una sfida di ordine politico ancor prima che tecnologico: a partire dal Consiglio europeo di Göteborg del 2001, si è preso coscienza della necessità di modificare la relazione tra crescita economica, consumo di risorse naturali e produzione di rifiuti.

Si deve in sostanza puntare ad un uso sostenibile delle risorse naturali, li-mitando nel contempo la produzione di rifiuti: un obiettivo in teoria massimamente condiviso, la cui realizzazione pratica presenta d’altro canto non pochi problemi.

Sulla scia di tali considerazioni, nel 2003 la Commissione Europea ha iniziato ad elaborare una strategia tematica per la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, auspicando in particolare:

  • l’individuazione del potenziale di prevenzione dei rifiuti;
  • lo scambio di esperienze e know-how tra gli Stati Membri;
  • la determinazione di specifici obiettivi di riciclo;
  • la promozione dei sistemi di tariffazione PAYT (pay-as-you-throw), mantenendo la responsabilità del riciclo sempre in capo al produttore;
  • la compatibilità ambientale delle operazioni di riciclo

Le proficue consultazioni periodiche tra la Commissione e le numerose parti interessate di ogni Paese hanno consentito di pervenire alla redazione definitiva della strategia nell’arco di un triennio. Essa fonda la politica dei rifiuti su due presupposti imprescindibili:

  1. la riduzione dell’impatto ambientale derivante dall’uso delle risorse – sono almeno tre i tipi d’impatto su cui intervenire: l’inquinamento atmosferico causato dai processi di produzione; le emissioni provenienti dagli impianti di smaltimento dei rifiuti; i rifiuti derivanti dall’estrazione di materie prime: riciclando i metalli, per esempio, si evita di generare sottoprodotti pericolosi legati alla trasformazione dei minerali, abbattendo tra l’altro gran parte dei rifiuti dell’attività estrattiva destinati al trasporto (con una conseguente riduzione delle emissioni di anidride carbonica);
  2. l’approccio orientato al ciclo di vita – da adottare nelle campagne d’informazione, nella promozione dei c.d. “appalti verdi”, attraverso il principio di responsabilità estesa del produttore e, più in generale, nell’integrazione delle politiche di mercato destinate ad incidere sul ciclo di vita dei prodotti.

Fin dal principio appare quindi opportuno perseguire un obiettivo di coe-renza globale a favore della salvaguardia dell’ambiente, investendo al massimo nella collaborazione sinergica tra governi, produttori e consumatori.

Se dunque, da una parte, gli obiettivi di prevenzione non possono prescindere dalle politiche sui prodotti e sulle risorse, dall’altra essi devono essere orientati secondo una costante analisi degli stili di vita, dei modelli di consumo e dei mutamenti demografici.

Un metodo ormai collaudato in varie realtà nazionali, anche in materia am-bientale, è l’utilizzo di strumenti economici finalizzato a promuovere modificazioni comportamentali in senso ambientalmente compatibile. Nonostante l’interesse inizialmente suscitato, l’applicazione di una tassa uniforme, coordinata a livello europeo, presenta innumerevoli ostacoli di ordine giuridico: il Trattato CE ad esempio prevede che le decisioni in materia fiscale vengano prese all’unanimità, riducendo così notevolmente le probabilità di successo del sistema.

I tempi non sembrano maturi neanche per l’approvazione dei “permessi negoziabili” europei (quote versate periodicamente dagli operatori industriali e commisurate alle emissioni di gas-serra prodotte), nonostante si registri già la presenza di strumenti equivalenti a livello nazionale.

Si può sostenere che la strategia pianificata dalla Commissione attraverso la comunicazione intrapresa con gli Stati Membri abbia aiutato a definire più chiaramente gli obiettivi e le priorità di prevenzione e di riduzione dell’impatto ambientale.

Tuttavia le difficoltà da superare sono a ben vedere ancora molte, in buona parte dovute ad una perdurante disomogeneità nella regolamentazione della materia rifiuti, soprattutto da parte degli Stati entrati più di recente a far parte dell’Unione.

Pare dunque lecito chiedersi se il cauto approccio della Commissione possa efficacemente contrastare la frammentarietà delle attività di prevenzione: è pur vero infatti che la portata generale dell’azione europea riserva un vantaggio, ossia quello di conferire a ciascuno Stato la facoltà di assumere le decisioni più adatte in base alla propria realtà economico-produttiva ed alla composizione del tessuto sociale.

D’altro canto però, si avverte un’esigenza di coordinamento ed indirizzo più stringente a livello centrale, che sia in grado cioè di creare un’unitarietà maggiore ed incoraggiare la diffusione delle pratiche positive di ciascun Paese all’estero.

2.      La gestione integrata dei rifiuti in Italia

All’art. 178 T.u. si legge che <<la gestione dei rifiuti costituisce attività di pubblico interesse ed è disciplinata […] al fine di assicurare un'elevata protezione dell'ambiente e controlli efficaci, […] nonché al fine di preservare le risorse naturali>>.

Il terzo comma inoltre precisa: <<la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto dei principi dell'ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al principio comunitario "chi inquina paga". A tal fine le gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità e trasparenza>>.

Con gestione integrata[29] viene indicato il complesso delle attività volte ad ottimizzare la gestione dei rifiuti, quest’ultima intesa a sua volta come l’insieme delle operazioni di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.

Il doveroso controllo sullo svolgimento di tali operazioni, nonché quello relativo alle discariche dismesse, viene parimenti incluso nel concetto di gestione dei rifiuti[30].

La gestione integrata prevede che le Regioni predispongano dei Piani di ge-stione assicurando pubblicità e trasparenza.

Tali Piani dovranno tra l’altro:

  • disciplinare collocazione, tipologia e caratteristiche tecniche degli impianti di smaltimento e recupero;
  • garantire efficacia, economicità ed autosufficienza nella gestione dei rifiuti urbani;
  • stabilire limiti alla produzione di rifiuti, divieti di inquinamento ed incentivi economici ove opportuno.

In base al principio di gestione integrata si deve pervenire ad un’organizzazione unitaria dell’intero ciclo di raccolta, smaltimento ed avvio al recupero, il tutto entro ambiti territoriali di dimensioni adeguate (di norma le Province).

Nel 45% dei casi protagoniste della gestione sono le imprese pubbliche, nel 34% i privati, mentre sempre più sporadicamente si parla di gestione in economia.

Il vantaggio offerto dall’impresa pubblica è rappresentato soprattutto dalla capacità di provvedere sia alla raccolta sia allo smaltimento, a differenza del privato, cui solitamente viene affidato un servizio specifico.

È lecito pensare che con l’espressione “organizzazione unitaria” il legislatore abbia volutamente lasciato spazio a soluzioni eterogenee: in Lombardia e in Emilia Romagna, ad esempio, alcune città hanno scelto di contare su un’unica grande impresa che fosse in grado di trattare lo smaltimento ed organizzare la raccolta su tutto il territorio provinciale. Più mediato appare invece il modello gestionale preferito in Veneto, dove i Comuni costituiscono imprese investite di responsabilità gestionale, le quali in un secondo tempo si rivolgono ad operatori specializzati.

Qualunque sia il modello gestionale prescelto, si registra in generale un cre-scente coinvolgimento di soggetti privati nel settore, in particolare multinazionali ed imprese di grandi dimensioni, soprattutto all’estero: ne sono un esempio l’americana Waste Management, la tedesca Remondis, le francesi Veolia e Suez, nonché Biffa in Gran Bretagna. La presenza sempre più significativa di tali soggetti lascia presagire l’apertura a nuovi modelli organizzativi per il futuro, guidati per lo più da un mercato dominato dai grandi gruppi industriali.

A livello internazionale sussistono dunque i presupposti per parlare di una progressiva privatizzazione del settore. Tale fenomeno può dirsi per certi aspetti auspicabile, grazie all’inventiva e all’iniziativa degli imprenditori autonomi (ad essi si devono una continua ricerca sul campo ed un prezioso know-how); per contro, un tale scenario implicherebbe verosimilmente un progressivo allontanamento del soggetto pubblico, traducendosi in una maggiore difficoltà di controllo del settore.

In una situazione siffatta desterebbero preoccupazione gli elevati costi che spesso l’impresa privata deve sostenere per trattare correttamente i propri rifiuti: all’imprenditore senza scrupoli, infatti, paiono sovente appetibili soluzioni economiche illegali e nocive per l’ambiente, contro le quali in futuro non ci si potrà permettere di abbassare la guardia.

 

3.      La raccolta dei rifiuti urbani

Da anni è ormai evidente come il legislatore italiano abbia scelto di incentrare la normativa nazionale in materia di rifiuti sul costante incremento della raccolta differenziata, fissando obiettivi percentuali crescenti all’interno del T.u.: a partire dal 2006 viene infatti promosso un aumento progressivo della differenziazione dei rifiuti, pari a 5 punti percentuali l’anno in vista del traguardo finale[31].

Ciò permette di constatare una differenza di approccio rispetto alla Direttiva 2008/98/CE, che promuove il recupero limitandosi ad indicare le percentuali di rifiuti da avviare a riciclaggio.

La Direttiva, all’art. 3 punto 10, fornisce la seguente definizione generale di raccolta:

<<il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito preliminare, ai fini del loro trasporto in un impianto di trattamento>>.

3.1         Le modalità di raccolta

Complessivamente, si contano tre diverse modalità di raccolta:

  • Raccolta collettiva – basata sull’utilizzo di contenitori stradali liberamente e costantemente accessibili alla cittadinanza. Si tratta del metodo più classico, in passato diffuso quasi ovunque in Italia; col tempo sarà tuttavia verosimilmente soppiantato da modalità di raccolta alternative, nel tentativo di conseguire una percentuale di differenziazione più elevata.

Si possono considerare tre vantaggi connessi a questo metodo:

  • una maggiore libertà da parte degli utenti, che possono scegliere di conferire i rifiuti in qualunque giorno ed orario, senza limiti;
  • una maggiore flessibilità nella pianificazione dei turni di raccolta. Inoltre non si rende necessaria alcuna modifica alla viabilità urbana che quindi conserva in massima parte i propri spazi;
  • ampie possibilità di meccanizzazione: il prelievo dei rifiuti viene effettuato in maniera automatizzata con un mezzo apposito, riducendo di gran lunga l’attività manuale. I costi della raccolta sono di conseguenza piuttosto contenuti.

Per converso, si contano altrettanti svantaggi che, nel complesso, hanno recentemente spinto un numero crescente di amministrazioni comunali ad orientarsi verso altre soluzioni. La raccolta collettiva infatti comporta:

  • l’impossibilità di garantire un qualsivoglia livello di differenziazione dei mate-riali, essendo la cernita dei rifiuti esclusivamente affidata al buon senso del singolo. In presenza di obiettivi di recupero sempre più stringenti, tale metodo è destinato a diventare perciò obsoleto;
  • problemi di decoro urbano: il posizionamento dei contenitori in zone centrali è indispensabile per incentivare il conferimento regolare da parte dei residenti, causando tuttavia un deturpamento del paesaggio e facendo talora registrare veri e propri casi di degrado ambientale;
  • un’assenza quasi totale di controllo sul conferimento, che alimenta il rischio di episodi di conferimento abusivo. Ciò avviene soprattutto da parte di commercianti o piccole imprese, intenzionati a sfruttare i sistemi domestici di raccolta al fine di risparmiare i costi della gestione in proprio.
  • Raccolta porta a porta – adottata sempre più diffusamente per incrementare  la percentuale di differenziazione dei materiali.

Consiste in un prelievo (per lo più monomateriale) da effettuarsi presso ogni singola abitazione in modi e tempi prestabiliti.

L’enorme vantaggio connesso a questo metodo, seppur praticamente l’unico, è quello di instaurare un rapporto diretto con l’utenza, attraverso cui poter assicurare un controllo costante e capillare su quantità e qualità dei rifiuti conferiti.

Tuttavia gli svantaggi non sono trascurabili. Si rende infatti necessario affrontare:

  • una forte rigidità organizzativa: in primo luogo, gli utenti sono costretti a pianificare il proprio conferimento in maniera puntuale e precisa, rispettando i giorni e gli orari previsti per ciascuna tipologia di materiale (che dev’essere tra l’altro trattenuto fino al momento della raccolta). Gli operatori della raccolta devono a loro volta rinunciare a turni di lavoro flessibili;
  • una maggiore intensità di lavoro manuale, non essendo possibile ricorrere massicciamente all’automazione come nella raccolta collettiva. Questo implica da un lato un significativo aumento del rischio di infortuni sul lavoro; dall’altro, un incremento non indifferente dei costi di raccolta, pur in parte compensato dai finanziamenti elargiti grazie al raggiungimento di soglie di differenziazione più elevate.
  • Conferimento diretto – si tratta di un metodo di raccolta necessariamente complementare ad uno dei precedenti, il quale costringe il detentore di specifiche tipologie di rifiuti (ad es. ingombranti) al conferimento diretto in appositi luoghi di raccolta.

È interessante notare come ciascun’amministrazione goda di un alto livello di autonomia gestionale: ciò presenta l’indubbio vantaggio di poter liberamente integrare diverse modalità di raccolta secondo le esigenze peculiari di ogni comunità, sviluppando all’occorrenza un sistema misto. Per contro, tale pratica è suscettibile di creare tanti piccoli “microcosmi”, causando una disomogeneità a livello territoriale che disorienta il cittadino anche in caso di piccoli spostamenti.

3.2         La raccolta differenziata dei rifiuti urbani

Al punto 11 dell’art. 3 Direttiva, viene introdotta per la prima volta la definizione di raccolta differenziata, con cui s’identifica in dettaglio la separazione tra flussi di rifiuti in base al tipo ed alla natura degli stessi, allo scopo di agevolarne il trattamento specifico.

A seguito delle modifiche apportate dal D.lgs n° 4 del 2008, l’art. 183 lett. f) del T.u. definisce a sua volta la raccolta differenziata come

<<[…] idonea a raggruppare i rifiuti urbani in frazioni merceologiche omogenee compresa la frazione organica umida, destinate al riutilizzo, al riciclo ed al recupero di materia. La frazione organica umida è raccolta separatamente o con contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti biodegradabili certificati>>.

Per ragioni organizzative e convenzionali, oltre che per praticità logistica, molte comunità fanno convergere in un unico flusso materiali diversi, che saranno poi suddivisi in un secondo tempo negli impianti di trattamento (l’abbinamento più frequente è quello tra vetro, metalli e/o plastica): in un primo stadio la differenziazione sarà perciò soltanto parziale e si parlerà quindi più propriamente di raccolta multimateriale.

La percentuale di raccolta differenziata raggiunta dall’Italia nel 2008 è pari al 30,6% della produzione totale dei rifiuti urbani, un dato che dista ancora ben 15 punti percentuali dall’obiettivo fissato dalla normativa per lo stesso anno, sebbene si sia registrato un lieve incremento rispetto al 2007.

Si tratta tuttavia di un valore nazionale medio, che vale la pena di scomporre in quanto frutto di cifre molto diverse tra loro: al Nord la raccolta differenziata sale infatti al 45,5% (246 kg/ab. all’anno), seguita dal 22,9% del Centro (142 kg/ab.) e dal 14,7% del Sud (73 kg/ab.).

Un aspetto abbastanza rassicurante è che, nonostante la lontananza dal target, la percentuale di incremento maggiore si è registrata in proporzione al Sud (+23,8% rispetto al 2007).

Un altro dato positivo è stato il significativo aumento della raccolta separata per alcuni materiali in particolare: la quantità di frazione organica raccolta (umido + verde) cresce infatti del 14,8%, similmente a vetro e plastica (dei quali circa il 90% è rappresentato da imballaggi).

A livello regionale, le maggiori percentuali di raccolta differenziata si rilevano in Trentino-Alto Adige (56,8%) e Veneto (52,9%), seguiti da Piemonte e Lombardia. Valori abbastanza prossimi si registrano al Nord anche per Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia, con la vistosa eccezione della Liguria, che riporta solamente il 21,8%.

Al Centro la maggior parte dei valori si attesta tra il 25% ed il 35%, creando un certo divario rispetto al Lazio, che resta al 12,9% di differenziazione.

Al Sud il valore più alto è della Sardegna (34,7%), anche se la crescita più rilevante appartiene alla Campania, grazie soprattutto alle province di Avellino e Salerno.

Molise, Sicilia e Basilicata non raggiungono ancora, nel 2008, il 10% di raccolta differenziata.

3.3         La differenziazione come compromesso

La raccolta dei rifiuti rappresenta l’incipit del processo di gestione, inserendosi diacronicamente tra la produzione dei rifiuti domestici e le restanti operazioni di trasporto, recupero e smaltimento.

In quanto tale, essa costituisce il primo mezzo con cui poter perseguire l’obiettivo comunitario di recupero dei rifiuti, finalizzato a propria volta al contenimento degli impatti ambientali: la buona riuscita delle successive fasi di trattamento dipende infatti direttamente dall’efficienza delle tecniche di prelievo, oltre che naturalmente dal raggiungimento di un buon livello di differenziazione dei materiali.

Proprio in merito a quest’ultima sorge spontaneo il seguente quesito: in base a quale criterio il grado di differenziazione raggiunto può considerarsi soddisfacente? Fino a che punto cioè è opportuno promuovere la separazione dei materiali? È evidente che, per lo meno in teoria, per ottenere il massimo recupero si dovrebbe predisporre un numero di raccolte distinte pari a quanti sono i rifiuti stessi… ma a quale costo?

La raccolta differenziata ha per l’appunto come scopo quello di massimizzare il potenziale di recupero dei rifiuti attraverso una loro cernita: il problema è che, proporzionalmente all’accuratezza di quest’ultima, aumentano anche le complicazioni per la vita di utenti ed operatori. Ecco perché in un sistema di raccolta reale le scelte organizzative sono frutto di un compromesso tra l’esigenza di promozione del recupero, l’indispensabile praticità logistica ed il contenimento dei costi.

3.4         L’importanza del dialogo

Un sistema di raccolta, per funzionare in maniera efficiente, necessita tuttavia di un ulteriore elemento, ossia un dialogo che consenta alle istituzioni di instaurare una collaborazione di lungo periodo con la cittadinanza.

Per quanto un’amministrazione presenti un’organizzazione efficace, difficilmente essa sarà in grado di ottenere risultati positivi in assenza di partecipazione della collettività.

Risalendo più a monte, pare lecito chiedersi da dove possa nascere questo dialogo. La sua presenza è forse a sua volta imputabile all’esistenza o meno di un’educazione collettiva: in altre parole, per invitare il cittadino a cooperare, è prima necessario educarlo a tal fine.

Da cui l’importanza di organizzare campagne di sensibilizzazione ambientale, con particolare riguardo ad una gestione corretta dei rifiuti. Soprattutto però, il messaggio dovrebbe essere diffuso a partire dalla scuola primaria, per formare generazioni future verosimilmente più consapevoli e disposte a collaborare.

4.      La rendicontazione e il trasporto

4.1         Il Catasto dei rifiuti

Il Catasto dei rifiuti è stato istituito, come ricorda l’art. 189 del T.u., dalla Legge 9 novembre 1988, n. 475.

Esso si compone di una Sezione Nazionale ubicata a Roma presso l’APAT (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e di articolazioni regionali aventi sede presso ciascun ARPA[32].

Il principale compito del Catasto è di mantenere costantemente aggiornati i dati relativi alla gestione dei rifiuti che vengono inviati dagli operatori del settore. Come si legge infatti al terzo comma dell’art. 189:

<<Chiunque effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti, […] le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento di rifiuti, i Consorzi istituiti per il recupero ed il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti, nonché le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi […] comunicano annualmente alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura territorialmente competenti […] le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto delle predette attività>>.

La trasmissione dei dati alle Camere di Commercio deve avvenire tramite un modulo apposito, denominato Modello Unico di Dichiarazione (MUD); le Camere inviano i dati ricevuti alla Sezione provinciale o regionale del Catasto competente, la quale provvede alla loro elaborazione facendo pervenire il tutto entro trenta giorni alla Sezione Nazionale.

In caso di omissione, incompletezza o inesattezza della dichiarazione si applicherà una severa sanzione amministrativa (fino a 15.600 €).

 

4.2         I registri di carico e scarico

Un confronto tra la normativa italiana e quella europea in tema di registri permette di valutare a tal merito la scelta legislativa effettuata dal nostro Paese. Pare infatti che l’Italia abbia deliberatamente deciso di orientarsi verso una maggiore rigidità nella rendicontazione dei rifiuti, innalzando sensibilmente il livello di protezione minimo garantito dalla Direttiva 2008/98/CE.

Il primo comma dell’art. 35 Direttiva impone la tenuta di un registro per la rendicontazione dei rifiuti pericolosi, da parte di qualunque ente o impresa che li produca, ne effettui la raccolta o il trasporto: tale registro dev’essere redatto in ordine cronologico, riportando obbligatoriamente quantità, natura ed origine dei rifiuti. Soltanto se ritenuto opportuno, potranno poi essere aggiunte indicazioni riguardanti la destinazione, la frequenza di raccolta, il mezzo di trasporto e il metodo di trattamento previsti per i rifiuti.

Per la stesura dell’art. 190 T.u., il legislatore italiano sembra essersi avvalso del dettato di cui al terzo comma dell’art. 35 Direttiva, il quale conferisce agli Stati Membri l’opportunità di esigere la tenuta di registri anche da parte dei produttori di rifiuti non pericolosi.

All’art. 190 si legge quindi che chiunque effettua a titolo professionale raccolta, trasporto, recupero o smaltimento di rifiuti (senza quindi ulteriori specificazioni in merito alla loro pericolosità) ha

<<l’obbligo di tenere un registro di carico e scarico su cui […] annotare le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti, da utilizzare ai fini della comunicazione annuale al Catasto>>.

Come si può notare, il legislatore non lascia spazio ad alcuna discrezionalità a favore dei soggetti destinatari della norma, imponendo piuttosto un controllo totale sulla gestione dei rifiuti.

A conferma della rigidità adottata dalla normativa, si può constatare come un altro adempimento facoltativo della Direttiva venga reso obbligatorio dal secondo comma dell’art. 190: per le imprese che svolgono attività di smaltimento e recupero viene considerato necessario – e non semplicemente opportuno (supra) – includere nel registro la destinazione specifica dei rifiuti, la data del carico e dello scarico, il mezzo di trasporto utilizzato, nonché il metodo di trattamento impiegato.

 

4.3         Il trasporto dei rifiuti

La disciplina relativa al trasporto dei rifiuti si rivela piuttosto in linea con la rigidità adottata per la tenuta dei registri di carico e scarico.

L’art. 193 T.u., infatti, impone agli enti o imprese che effettuano il trasporto dei rifiuti a livello nazionale la compilazione di un certificato di accompagnamento denominato formulario di identificazione (f.i.r.), dal quale risultino – in base al primo comma – necessariamente:

a) nome ed indirizzo del produttore e del detentore;

b) origine, tipologia e quantità del rifiuto;

c) impianto di destinazione;

d) data e percorso dell'istradamento;

e) nome ed indirizzo del destinatario.

In caso di assenza o incompletezza nella compilazione del formulario per i rifiuti non pericolosi verrà applicata una sanzione pecuniaria fino a 9.300€.

Il quarto comma introduce tuttavia un elemento di flessibilità nella regolamentazione, prevedendo che le disposizioni del primo comma non si applichino:

<<al trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico né ai trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri>>

4.3.1          Le spedizioni transfrontaliere di rifiuti

Il Reg. CE n° 1013/2006 disciplina le spedizioni transfrontaliere di rifiuti, siano esse intracomunitarie piuttosto che in uscita o in entrata dall’Unione Europea.

L’art. 12 del Regolamento, rubricato “Obiezioni alle spedizioni di rifiuti destinati al recupero”, consente agli Stati Membri di dissentire all’esportazione di rifiuti verso Paesi la cui normativa sul trattamento sia giudicata meno restrittiva della propria, potendo sollevare delle obiezioni che siano fondate su uno dei seguenti motivi:

a)     la spedizione o il recupero previsto non è conforme alla direttiva 2006/12/CE e, in particolare, agli articoli 3, 4, 7 e 10 della stessa[33]; o

b)     la spedizione o il recupero previsto non è conforme alla legislazione nazionale relativa alla protezione dell'ambiente, all'ordine pubblico, alla sicurezza pubblica o alla tutela della salute pubblica per quanto riguarda le azioni nel paese che solleva obiezioni; o

c)     la spedizione o il recupero previsto non è conforme alla legislazione nazionale del paese di spedizione relativa al recupero dei rifiuti, anche quando la spedizione prevista riguarda rifiuti destinati al recupero in un impianto avente norme di trattamento meno severe, per tali particolari rifiuti, rispetto a quelle stabilite nel paese di spedizione, tenendo conto dell'esigenza di assicurare il corretto funzionamento del mercato interno;

Ai motivi riportati seguono eccezioni di varia natura.

L’aspetto che qui maggiormente interessa riguarda tuttavia alcuni problemi che, ad una prima analisi, traggono potenzialmente origine dalla disposizione:

—        restrittività, rigidità e flessibilità della norma sono anzitutto concetti che non si prestano ad una definizione univoca: ciò implica un potenziale rischio di abuso, in grado di sfociare in controversie o procedimenti giudiziari tra Stati;

—        l’art. 12 potrebbe inoltre promuovere un atteggiamento protezionistico da parte di Stati che adottano una legislazione sui rifiuti (ancora prevalentemente) nazionale e quindi verosimilmente non in linea con i canoni europei, solitamente più restrittivi. Tali Stati potrebbero decidere di chiudere le proprie frontiere, permettendo così al concetto di “restrittività” per il trattamento di incidere sulle attività economiche dell’UE ben al di là della mera gestione dei rifiuti.

4.3.2          Il traffico illecito di rifiuti

All’interno della normativa trova spazio un reato che punisce qualunque attività finalizzata alla realizzazione di un traffico illecito di rifiuti.

L’art. 259 T.u. prevede fino a due anni di reclusione congiuntamente ad un’ammenda da 1.550 a 26.000€ per le spedizioni di rifiuti costituenti traffico illecito ai sensi dell’art. 26 del Reg. CEE 1° febbraio 1993, n. 259[34], ossia in assenza di notifica/documento di accompagnamento/consenso delle autorità o comunque in violazione delle norme comunitarie o internazionali.

Ai sensi dell’art. 260 T.u., viene invece comminata la pena dell’arresto da uno a sei anni a chi

<<al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti>>.

Dalla formulazione del dettato è possibile evincere che l’elemento soggettivo in grado di configurare il reato è il dolo specifico, essendo richiesta da parte dell’autore un’intenzione specificamente rivolta a conseguire un ingiusto profitto, attraverso un’attività appositamente organizzata.

La norma appare in sostanza ben calibrata, mostrando di coniugare alla severità della pena la certezza del dolo, come inoltre confermato dall’avverbio “abusivamente” che presume la piena consapevolezza dell’illecito da parte dell’individuo.

5.      Il trattamento dei rifiuti

La fase di trattamento dei rifiuti si apre al termine dei processi di raccolta e differenziazione.

L’art. 3 punto 14 della Direttiva fornisce una definizione di trattamento chiara e concisa. Con esso s’identificano:

<<[tutte le] operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento>>.

Quest’ultima specificazione è dovuta al fatto che spesso, a causa della raccolta multimateriale o di una differenziazione iniziale di per sé non ottimale, si rende necessaria un’ulteriore cernita dei materiali raccolti ai fini di un loro trattamento specifico.

5.1         Il recupero

L’art. 10 Direttiva assegna agli Stati Membri il compito di adottare le <<misure necessarie>> per garantire il funzionamento del recupero, migliorandone possibilmente l’efficienza attraverso la raccolta separata dei rifiuti.

Sulla stessa lunghezza d’onda, il sistema di priorità creato con la gerarchia europea dei rifiuti[35] impone di privilegiare (tra le operazioni di trattamento) il recupero ai massimi livelli ed in ogni sua forma – riutilizzo, riciclaggio, recupero di energia… etc. – avviando allo smaltimento esclusivamente ciò che non si presta in alcun modo ad essere recuperato.

L’orientamento comunitario sembra essere stato pienamente recepito dal D.lgs 152/2006 che, all’art. 181, impone alle autorità di favorire la riduzione dello smaltimento attraverso:

a)  il riutilizzo, il riciclo o le altre forme di recupero;

b)  l'adozione di misure economiche e la determinazione di condizioni di appalto che prevedano l'impiego dei materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi;

c)  l'utilizzazione dei rifiuti come combustibile o come altro mezzo per produrre energia.

In base alla definizione data dalla Direttiva[36], con recupero s’intende:

<<qualsiasi operazione il cui risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione […]>>

Recuperare significa quindi far rientrare il rifiuto nel circuito produttivo a seguito di un trattamento riqualificante, che consente cioè di riattribuirgli un valore positivo: riprendendo l’esempio iniziale[37], il recupero di una bottiglia di vetro usata potrà consistere nei trattamenti di sterilizzazione, fusione e rimodellamento del materiale, il quale potrà essere in seguito reintegrato all’interno della filiera produttiva.

A titolo esemplificativo e dichiaratamente senza pretese di esaustività, l’Allegato II alla Direttiva elenca svariate tipologie di materiali – metalli, solventi, oli, acidi… etc. – potenzialmente oggetto di operazioni di recupero, riciclaggio o rigenerazione.

È altresì opportuno notare che tutte queste attività di recupero, parimenti a quanto avviene nel ciclo produttivo, generano degli scarti che dovranno poi essere smaltiti a loro volta come rifiuti[38].

Pertanto, la frazione di materiale ottenuta in un primo tempo con la differenziazione corrisponde per così dire ad un recupero “lordo”, essendo quantitativamente superiore al recupero effettivo, cioè al netto del residuo da smaltire.

In sintesi il recupero:

  1. I.      non avviene a costo zero.

a)     In primo luogo vanno prese in considerazione le operazioni di trattamento necessarie alla riqualificazione del rifiuto. Si noti che il loro costo risulterà inversamente proporzionale alla “purezza” e all’omogeneità del materiale.

b)     In secondo luogo, vanno annotate le spese di trasporto del materiale (ad es. dagli stabilimenti del recupero a quelli delle successive lavorazioni).

c)      Infine, si devono conteggiare i costi stessi delle lavorazioni che avvengono in seguito alla reimmissione del rifiuto recuperato all’interno della filiera produttiva.

Al termine dell’intero processo un nuovo prodotto potrà così fare il proprio ingresso nel mercato.

 

  1. II.      è fonte di un pur significativo impatto ambientale, a causa dei residui delle attività di trattamento.

Tuttavia, è talora possibile un riutilizzo dei residui grazie al c.d. downcycling, ossia la conversione di materiali di scarto o inutilizzati in prodotti di qualità inferiore o aventi una funzionalità ridotta.

Tali prodotti, presentando un valore di mercato più basso, sono destinati ad avere una “bassa visibilità” al pubblico, in quanto sottratti al consumo quotidiano. Sono infatti per lo più impiegati come materiali per il riempimento o l’insonorizzazione in campo edile, piuttosto che per bonifiche ambientali.

L’attività di downcycling consente così di limitare lo spreco di risorse primarie e scongiurare fenomeni di inquinamento.

5.1.1          Le cifre del recupero

Nel 2008, a livello nazionale sono state trattate 3,4 tonnellate di materiale così composto: 43,2% frazione organica selezionata, 35% verde, 14,4% fanghi. Rispetto al 2007 si è registrato un incremento pari al 6,6% nel trattamento di materiale selezionato.

La maggior parte degli impianti di compostaggio è localizzata al nord (65,2%), seguita rispettivamente dal 16,6% del Centro e dal 18,3% del Sud. Conseguentemente, si rilevano valori percentuali molto diversi a seconda dell’area geografica considerata: nonostante l’incremento dei rifiuti avviati a compostaggio sia proporzionalmente maggiore al Sud, qui viene trattato solamente il 14% del totale nazionale, a fronte del 15% al Centro e del 71% al Nord.

Le differenze purtroppo riguardano anche la percentuale di sfruttamento degli impianti esistenti: l’utilizzo degli impianti al Nord sfiora il 90% della loro potenzialità, mentre al Centro la percentuale scende al 36% e al Sud addirittura al 26% della capacità impiantistica complessiva.

L’andamento attuale mostra comunque una curva positiva in relazione alle regioni centro-meridionali, segno di un incremento esponenziale della quantità di rifiuti trattata in quest’area.

Per il futuro si auspica quindi il raggiungimento di un maggiore equilibrio a livello nazionale.

5.2         Lo smaltimento

Se il recupero rappresenta il percorso ideale del rifiuto, permettendone la reintegrazione all’interno del circuito produttivo, l’alternativa che spesso s’impone è quella dello smaltimento nelle forme di distruzione o confinamento. Tali forme corrispondono nella pratica rispettivamente alle operazioni di incenerimento e deposito in discarica e permettono di disfarsi di ogni materiale che, per ragioni tecniche o economiche, non può (più) essere riciclato.

L’art. 3 punto 19) Direttiva definisce lo smaltimento come:

<<qualsiasi operazione diversa dal recupero anche quando l’operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze ed energia>>

A dispetto della premura della Direttiva nel tracciare il confine tra recupero e smaltimento, alcune semplici riflessioni sui casi di downcycling[39] richiamati (recupero di sostanze ed energia) sembrano sufficienti a sfumare la linea di demarcazione tra i due concetti:

—        l’energia elettrica o termica che viene ad es. prodotta con la combustione dei rifiuti consente di risparmiare l’impiego di risorse primarie maggiormente inquinanti, come il carbone. Si potrà quindi certamente parlare a tal proposito di recupero.

—        Nel contempo però l’attività in questione produce, seppur in misura ridotta, materiali di scarto quali fumi o scorie, similmente a quanto avviene con lo smaltimento;

—        anche i materiali riutilizzati ad es. per bonifiche ambientali o riempimento permettono di evitare uno spreco di risorse, cosa che invita a classificare le operazioni relative come attività di recupero. A ben vedere però, tali materiali subiscono un interramento che non è poi tanto diverso dal deposito in discarica, procurando in fin dei conti lo stesso tipo di pregiudizio all’ambiente.

Tuttavia, è importante sottolineare che la distinzione tra recupero e smaltimento gioca un ruolo fondamentale a livello legislativo, specialmente in seguito al sistema di priorità creato con la gerarchia europea dei rifiuti, che impone di massimizzare il recupero e ridurre lo smaltimento.

L’art. 12 Direttiva, nel richiamare l’art. 10, ribadisce agli Stati Membri che la priorità dev’essere accordata al recupero ogniqualvolta possibile e li obbliga in caso contrario a garantire la sicurezza delle operazioni di smaltimento, a protezione della salute umana e dell’ambiente (art. 13).

L’Allegato I, infine, fa da guida agli Stati Membri offrendo un elenco di alcune delle operazioni di smaltimento consentite, tra cui:

—        il deposito nel suolo, sul suolo o tramite iniezione in profondità;

—        il trattamento biologico e fisico-chimico;

—        l’incenerimento a terra e in mare.

Il legislatore italiano ha trasposto la disciplina comunitaria sullo smaltimento nell’art. 182 T.u., che similmente promuove:

—        la sicurezza delle operazioni per la salute e l’ambiente;

—        la riduzione delle quantità di rifiuti avviate a smaltimento;

—        l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili;

—        la valutazione costante del rapporto costi-benefici.

5.2.1          La distruzione

Come già accennato, la distruzione rappresenta una forma di smaltimento che consiste nell’incenerimento dei rifiuti, disciplinato a livello nazionale dal D.lgs 11 maggio 2005, n° 133 che, a sua volta, recepisce la Direttiva comunitaria 2000/76/CE. Quest’ultima[40]:

I.     stabilisce le misure volte a ridurre – e possibilmente prevenire – gli effetti negativi dell’incenerimento sulla salute e sull’ambiente e, a tale scopo,

II.              fornisce delle definizioni guida agli Stati Membri, tra cui quella di “impianto di incenerimento”, inteso come:

<<qualsiasi unità e attrezzatura fissa o mobile destinata al trattamento termico dei rifiuti [o mediante ossidazione o plasma] con o senza recupero del calore prodotto con la combustione>>.

La funzione principale degli “impianti di co-incenerimento” è invece quella di produrre energia o altri materiali per mezzo della combustione dei rifiuti.

III.             Un terzo fondamentale intervento della Direttiva in questione consiste nel definire, per gli impianti di (co)incenerimento, i valori limite di emissione nell’atmosfera, riportati in dettaglio nell’Allegato V.

Inoltre, vengono stabiliti i metodi di campionamento, analisi e valutazione degli inquinanti; sono infine elencate le condizioni di esercizio degli impianti, nonché le loro caratteristiche costruttive e funzionali.

Le ragioni dell’incenerimento

Oggigiorno, la ragione di un ricorso così massiccio all’incenerimento (specialmente in Paesi come la Germania e la Svizzera) va ricercata nel progressivo mutamento alla base delle abitudini consumistiche ed alimentari della nostra società[41]: l’acquisto sempre più frequente di cibi pronti ha comportato un impiego significativo di imballaggi di carta e plastica, provocando l’aumento delle componenti combustibili all’interno dei rifiuti urbani. Nel contempo, il consumo sempre più sporadico di cibi freschi spiega la progressiva diminuzione della frazione putrescibile, agevolando in tal modo l’incenerimento.

Attualmente è perciò più effettivo ed efficace bruciare gli scarti piuttosto che interrarli, andando per lo meno a privilegiare la tecnica di smaltimento di minore impatto: per quanto la combustione causi infatti emissioni inquinanti nell’atmosfera, essa consente di ridurre notevolmente il volume dei rifiuti e allo stesso tempo di recuperare energia, provocando così un impatto ambientale nettamente inferiore rispetto al deposito in discarica.

Vi sono peraltro più modi di procedere ad incenerimento: i rifiuti possono infatti essere sottoposti direttamente a trattamento termico, piuttosto che a seguito di un’ulteriore fase di selezione, volta a ricavare combustibili di qualità superiore:

I.     nel primo caso si sceglie semplicemente di bruciare il materiale residuo della raccolta differenziata, affidando la buona riuscita dell’operazione interamente all’accuratezza della separazione iniziale dei rifiuti. Tale scelta può essere giustificata in quanto risultante da un rapporto qualità-prezzo abbastanza vantaggioso; si avvalgono per lo più di questa tecnica la Lombardia tra le regioni italiane e soprattutto Germania e Svizzera tra gli Stati europei.

II.    La seconda strada percorribile conduce certamente ad un risultato qualitativamente superiore, a fronte però di costi molto più elevati. L’ulteriore selezione consente di pervenire essenzialmente a tre flussi di rifiuti distinti:

  • un’ulteriore frazione umida – da trasformarsi poi in materiale organico inerte;
  • il Cdr (combustibile derivante da rifiuti) – tramite eventuali lavorazioni successive di tale materiale è possibile ottenere il Cdr-q, la cui “qualità” si traduce in un coefficiente di combustibilità sufficientemente alto da poter sostituire il carbone (1 kg di Cdr-q per 600 g di carbone);
  • scarti.

Attualmente, data l’ampia disponibilità di tecniche di pretrattamento, l’attenzione maggiore è concentrata tuttavia su quest’ultimo, che consente di ottenere una differenziazione qualitativamente superiore in un primo momento, evitando di dover procedere a costose lavorazioni in seguito (gli impianti di selezione vengono infatti per lo più impiegati a livello di pretrattamento).

5.2.2          Il confinamento

La seconda e meno preferibile forma di smaltimento è rappresentata dal confinamento dei rifiuti tramite il loro deposito in discarica, la cui regolamentazione è tuttora affidata alla Direttiva comunitaria 1999/31/CE. Essa definisce la discarica come segue:

<<un’area di smaltimento dei rifiuti adibita al deposito degli stessi sulla o nella terra (vale a dire nel sottosuolo), compres[e le zone in cui i rifiuti vengono generati e interrati e le aree in cui i rifiuti sostano per più di un anno.

Non rientrano invece nella definizione]

—        gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e

—        i depositi di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o

—        i depositi di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno.>>

Obiettivo generale della Direttiva in esame è di

<<ridurre il più possibile le ripercussioni negative sull’ambiente, in particolare l’inquinamento delle acque superficiali [e sotterranee], del suolo e dell’atmosfera, […] nonché i rischi per la salute umana risultanti dalle discariche di rifiuti, durante [il loro] intero ciclo di vita […]>>,

attraverso l’introduzione di stringenti requisiti tecnici, aventi ad oggetto sia le caratteristiche delle aree di deposito, sia i rifiuti stessi.

L’art. 4 classifica le discariche in tre categorie, a seconda del tipo di materiale depositabile:

—        per rifiuti pericolosi[42];

—        per rifiuti non pericolosi;

—        per rifiuti inerti, ossia “che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa”[43].

Il terzo comma dell’art. 5 elenca le tipologie di rifiuti che non sono in via generale ammesse all’interno di una discarica:

a)    rifiuti liquidi;

b)     rifiuti che, nelle condizioni esistenti in discarica, sono esplosivi, corrosivi, ossidanti, altamente infiammabili […];

c)     rifiuti provenienti da cliniche, ospedali o istituti veterinari, qualora siano infettivi […];

d)    gomme usate dopo due anni[44].

Ai sensi dell’art. 6, sempre in via generale, possono essere introdotti in discarica solamente rifiuti previamente trattati. L’articolo sancisce inoltre che, mentre i rifiuti urbani possono essere accolti nelle discariche per rifiuti non pericolosi, all’interno delle discariche per rifiuti inerti trovano posto esclusivamente rifiuti inerti.

Al fine di poter conferire i rifiuti in discarica sono previsti degli adempimenti a carico del detentore: egli deve esibire anticipatamente l’autorizzazione necessaria al conferimento, nonché una documentazione atta a dimostrare l’ammissibilità dei propri rifiuti in discarica, in base ai criteri dell’Allegato II[45]. Quest’ultimo prevede infatti che, prima di un eventuale conferimento, debbano essere necessariamente compiute delle valutazioni in merito alla composizione dei materiali in entrata, alla loro biodegradabilità e alla potenziale pericolosità di eventuali sostanze presenti al loro interno.

Inoltre, è stata stilata una gerarchia tra le “Procedure generali per la verifica e l’ammissione dei rifiuti”[46]:

I.     in primo luogo si rende necessario osservare il comportamento del “colaticcio” nel breve e lungo periodo;

II.    segue una fase di controllo sulla conformità dei rifiuti a condizioni inerenti all’autorizzazione e ad altri eventuali criteri specifici;

III.   infine viene verificata in loco la corrispondenza tra i rifiuti conferiti e quelli oggetto di controllo, tenendo come riferimento i dati riportati nella documentazione relativa.

A sua volta, il gestore dell’impianto è tenuto a:

—        controllare la documentazione del detentore;

—        ispezionare il carico dei rifiuti in entrata e verificarne la conformità;

—        iscrivere quantità e qualità dei rifiuti conferiti in un apposito registro[47].

Il prezzo pagato dal detentore/gestore per il deposito di qualunque tipo di rifiuti dev’essere tale da garantire la copertura totale dei costi di gestione della discarica[48].

I problemi del conferimento in discarica

La forte disincentivazione operata dal diritto comunitario contro il deposito in discarica si è resa necessaria soprattutto a causa di costi di smaltimento tutto sommato ancora contenuti, nonostante i continui rialzi a partire dall’inizio degli anni ’90. La Direttiva 2008/98/CE ha perciò provveduto a trasformare questa forma di smaltimento in un’“ultima spiaggia”, relegandola in fondo alla gerarchia dei rifiuti.

Tuttavia, sebbene si tenda oggigiorno a demonizzare le tecniche di confinamento in quanto caratterizzate da un elevato potenziale inquinante, è pur vero che l’idea di discarica quale luogo di abbandono incontrollato rappresenta ormai un retaggio del passato.

Oggi le discariche sono infatti gestite in maniera efficiente e controllata, al fine di scongiurare la contaminazione delle falde acquifere sottostanti e ridurre al massimo l’impatto ambientale complessivo.

Il problema maggiore è causato dall’interramento dei rifiuti per lunghi periodi: ciò facilita la decomposizione del materiale organico presente, da cui si generano gas e liquidi che inquinano l’atmosfera e il suolo.

Sono state quindi adottate delle precauzioni volte a limitare le esternalità negative del deposito in discarica:

I.     la rinuncia alle comodità di uno scarico pratico e rapido dei rifiuti ha consentito la realizzazione di discariche in aree quanto più possibile distanti dai centri abitati, allontanando così il rischio di contaminazione del suolo;

II.    sempre a fini di sicurezza, viene inoltre ordinariamente effettuata l’impermeabilizzazione del fondo della discarica – si tratta di un’operazione utile a ridurre sensibilmente il rischio di contatto dei rifiuti con l’acqua piovana che, a lungo andare, innesca un pericoloso processo di liquefazione da cui si genera il c.d. “percolato”.

A dispetto delle cautele descritte, un livello sufficientemente elevato di sicurezza può essere in realtà raggiunto soltanto con un severo controllo preventivo al conferimento dei rifiuti, che permetta di evitare l’ingresso di liquidi e materiale organico nella discarica.

5.2.3          L’effetto “Lock-in”

Oggi, il mondo del lavoro e ancor più il settore dell’intrattenimento sono interessati da una presenza sempre più significativa della tecnologia, a partire da quella informatica.

Complice la rapidità delle comunicazioni, l’innovazione subisce un accelerazione esponenziale che consente di toccare con mano un numero di tecnologie sempre più ampio, in un intervallo sempre più ridotto.

Un andamento di questo tipo può rendere talora difficile scegliere a quale tecnologia affidarsi ed in quale momento, nella continua attesa che un prodotto più all’avanguardia si affacci sul mercato.

A ben vedere però, un tale atteggiamento è destinato a rivelarsi controproducente e per certi versi addirittura pericoloso.

In materia di rifiuti, sono diverse le soluzioni tecnologiche quotidianamente in competizione per migliorare il funzionamento degli impianti di trattamento: la dissociazione molecolare e la pirolisi-gassificazione sono soltanto alcuni esempi delle applicazioni correntemente disponibili sul mercato finalizzate all’ottenimento di combustibili più puliti ed efficienti.

Come quasi sempre accade, il problema dominante è di ordine economico: la scelta di adottare un sistema di smaltimento piuttosto che un altro implica la necessità di investire ingenti somme di denaro che dovranno poi essere ammortizzate grazie ad un risultato finale promettente. Si consideri inoltre che, dovendo affrontare in un primo tempo costi fissi elevati per l’implementazione della nuova tecnologia, non si sarà verosimilmente disposti a mobilitare dell’altro capitale in un futuro prossimo.

Tuttavia, in un mondo in cui l’offerta tecnologica diventa sempre più sterminata, che direzione è consigliabile prendere? Può essere infatti arduo decidere in favore di una soluzione o un’altra quando si è già a conoscenza di nuove tecnologie in arrivo sul mercato, potenzialmente in grado di colmare le lacune di quelle precedenti.

Anche in questo frangente viene dunque spontaneo chiedersi: conviene lasciare la strada vecchia per la nuova attendendo di investire in sistemi più sofisticati e costosi, oppure è più saggio sfruttare una tecnologia tradizionale e meno dispendiosa, accontentandosi del risultato?

L’effetto “Lock-in” descrive proprio questo dilemma tra vecchio e nuovo, tra impulso ed attesa. In altre parole, tale concetto esprime il timore di rimanere intrappolati nella scelta di una tecnologia qualitativamente inferiore rispetto a quanto il mercato già offre od offrirà a breve.

A volte aspettare può rivelarsi vitale, specialmente in periodi di indecisione del mercato; altre volte può essere al contrario deleterio, qualora la novità si riveli magari una bufala amplificata dai media.

In conclusione, è sicuramente opportuno che le amministrazioni si mostrino flessibili al cambiamento, restando al passo coi tempi; d’altro canto, è altrettanto bene guardarsi dall’eccessivo dubitare ed effettuare la scelta più ponderata per il periodo, se non si vuole assistere nel frattempo al declino del sistema rifiuti.

6.      I costi per la gestione dei rifiuti urbani: la composizione della tariffa

Il primo comma dell’art. 238 T.u. descrive la tariffa come

<<[…] il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani […]>>,

che dev’essere versato al comune di appartenenza in base al possesso di qualsiasi locale o area in cui si producano rifiuti.

L’ammontare della tariffa è

<<commisurato alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte […]>>[49].

La tariffa viene determinata dalle Autorità d’Ambito e dev’essere tale da garantire la copertura integrale dei costi di esercizio ed investimento sostenuti dall’affidatario della gestione, cui vengono demandate l’applicazione e la riscossione della quota. Quest’ultima deve pertanto riflettere la qualità del servizio fornito, lo stanziamento di capitali per la costruzione di opere, nonché i relativi ammortamenti[50].

La quantità dei rifiuti conferiti da ciascun utente incide in realtà solo in via residuale sulla quota finale, per lo più rappresentata da costi fissi.

Degno di nota è l’apporto dato alla disposizione dal comma settimo, ai sensi del quale i costi non vanno per forza spalmati in maniera uniforme, potendo bensì essere previste delle

<<agevolazioni per le utenze domestiche e per quelle adibite ad uso stagionale o non continuativo […] che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali>>.

E’ infine possibile che nella tariffa vengano fatti rientrare anche costi accessori, quali ad es. le spese per lo spazzamento delle strade[51].

Se negli anni ’80 i costi da coprire erano quasi totalmente riconducibili alla raccolta, oggi quest’ultima rappresenta appena un terzo di quello che paghiamo. Lo stesso vale per le operazioni di trattamento e smaltimento, le cui spese incidono per il 27% sul totale.

La gestione dei rifiuti costa ad ogni italiano 90€ l’anno: si tratta tuttavia di una media costruita a partire da valori regionali molto diversi, compresi tra i 60€ del Trentino e i ben 110€ riscossi annualmente in Toscana.

I costi della raccolta differenziata rappresentano soltanto l’11% della spesa complessiva e sono sostenuti per ¾ dall’utenza, mentre la parte rimanente viene finanziata da consorzi – ad es. il Conai – grazie al riciclo dei materiali restituiti.

Un problema tuttora attuale è quello relativo al finanziamento delle spese di gestione come da normativa. Alcune municipalità del Meridione non riscuotono infatti una somma sufficiente ad assicurare la copertura integrale dei costi: se a livello nazionale la collettività sostiene in media il 90% del costo totale, con punte che raggiungono il 97% in Friuli, in Puglia si registrano picchi di copertura pari al 70%.

 

7.      Obblighi, divieti e sanzioni

7.1         L’obbligo di autorizzazione

Coloro che intendono realizzare nuovi impianti di trattamento dei rifiuti o che subentrano nella gestione di impianti già esistenti devono munirsi di un’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione[52] competente su presentazione di una domanda che contenga:

—        il progetto definitivo dell’impianto;

—        una documentazione tecnica che rispetti la normativa in ambito urbanistico, ambientale ed igienico-sanitario;

—        (se del caso) la comunicazione alle autorità competenti per la sottoposizione dell’impianto a Valutazione di Impatto Ambientale.

Il procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione si conclude entro cinque mesi dalla presentazione della domanda[53]; in caso di esito positivo l’autorizzazione ha una validità di dieci anni ed è rinnovabile[54]. Nel rispetto delle finalità di cui all’art. 178, detta autorizzazione contiene almeno i seguenti elementi[55]:

a)  i tipi ed i quantitativi di rifiuti da smaltire o da recuperare;

b)  i requisiti tecnici con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti ed alla confor-mità dell'impianto al progetto approvato;

c)  le precauzioni da prendere in materia di sicurezza ed igiene ambientale;

d)  la localizzazione dell'impianto da autorizzare;

e)  il metodo di trattamento e di recupero;

f)   le prescrizioni per le operazioni di messa in sicurezza, chiusura dell'im-pianto e ripristino del sito;

g)  le garanzie finanziarie richieste, che devono essere prestate solo al momento dell'avvio effettivo dell'esercizio dell'impianto; a tal fine, le garanzie finanziarie per la gestione della discarica, anche per la fase successiva alla sua chiusura, dovranno essere prestate conformemente a quanto disposto dall'articolo 14 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n° 36;

h)  la data di scadenza dell'autorizzazione, in conformità con quanto previsto al comma 12;

i)   i limiti di emissione in atmosfera per i processi di trattamento termico dei rifiuti, anche accompagnati da recupero energetico.

L’inosservanza delle prescrizioni viene punita proporzionalmente alla gravità dell’infrazione[56] tramite una diffida semplice o sommata alla sospensione temporanea dell’autorizzazione, fino ad arrivare alla revoca di quest’ultima.

7.1.1          L’ iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali

L’art. 212, 1° comma, istituisce l’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali, con sede presso il Ministero dell’Ambiente e composto da un Comitato Nazionale accanto a svariate Sezioni Regionali e Provinciali.

Ai sensi del quinto comma dell’articolo citato, è richiesta l’iscrizione all’Albo per lo svolgimento di:

—        attività di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi (oltre i 30 kg/l al giorno) e non pericolosi (a meno che non si tratti di rifiuti propri);

—        bonifica dei siti e di beni contenenti amianto;

—        commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi;

—        gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi.

Il sesto comma prevede inoltre il rinnovo obbligatorio dell’iscrizione ogni cinque anni.

Seguono alcuni degli elementi che, nella comunicazione finalizzata all’atto di iscrizione, l’interessato attesta sotto la propria responsabilità[57]:

a)  la sede dell'impresa, l'attività o le attività dai quali sono prodotti i rifiuti;

b)  le caratteristiche, la natura dei rifiuti prodotti;

c)  gli estremi identificativi e l'idoneità tecnica dei mezzi utilizzati per il trasporto dei rifiuti, tenuto anche conto delle modalità di effettuazione del trasporto medesimo.

 

7.2         La responsabilità del detentore di rifiuti

L’art. 188 T.u. postula in capo a produttori/detentori l’onere di consegnare i propri rifiuti al raccoglitore autorizzato o a chi provvederà al loro smaltimento.

Il secondo comma dell’articolo prevede inoltre che l’assolvimento degli obblighi debba avvenire secondo il seguente ordine di priorità:

a)  autosmaltimento dei rifiuti;

b)  conferimento dei rifiuti a terzi autorizzati ai sensi delle disposizioni vigenti;

c)  conferimento dei rifiuti ai soggetti che gestiscono il servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani, con i quali sia stata stipulata apposita convenzione;

d)  utilizzazione del trasporto ferroviario di rifiuti pericolosi per distanze superiori a trecentocinquanta chilometri e quantità eccedenti le venticinque tonnellate;

e)  esportazione dei rifiuti con le modalità previste dall'articolo 194.

Dalla lett. b) si evince che il detentore/produttore è investito anche di un onere di controllo in merito alla regolarità della consegna dei rifiuti ed alla loro successiva destinazione.

Tra le “disposizioni vigenti”, infatti, l’art. 193[58] stabilisce l’obbligo del trasportatore di compilare scrupolosamente il formulario di identificazione e rilasciarne copia entro tre mesi al detentore, al quale spetta pertanto una verifica incrociata sul percorso effettuato dai rifiuti.

Il mancato ricevimento della copia obbliga il detentore a darne comunicazione alla Provincia.

La Cassazione Penale, Sez. III, nella Sent. n° 18038 dell’11 maggio 2007 ha giudicato colpevoli trasportatore e committente (detentore) di “concorso del reato di gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione”, richiamando l’art. 256 T.u.; se ne ricava, pertanto, l’obbligo del detentore di controllare il possesso dell’autorizzazione necessaria da parte dello smaltitore, del trasportatore o di chi comunque prende in carico i rifiuti consegnati.

La responsabilità del detentore si estende anche all’effettiva corrispondenza dei rifiuti consegnati al relativo codice CER, che deve risultare compreso nell’autorizzazione del trasportatore.

 

7.3         Il divieto di abbandono, deposito incontrollato ed immissione

L’art. 192 T.u. impone un triplice divieto di:

—        abbandono di rifiuti sul suolo e nel suolo – con ciò si designa un evento occasionale di deposito di materiale, solitamente di provenienza domestica, in aree di uso pubblico;

—        deposito incontrollato di rifiuti – si tratta di un’ipotesi di violazione più rilevante dell’abbandono in quanto connotata da una sistematicità dell’azione, che causa nel tempo un accumulo di materiale nel medesimo sito;

—        <<immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee>>[59].

In caso di generale inosservanza dei divieti, si applica la sanzione pecuniaria di cui all’art. 255 T.u..

Tuttavia, qualora il soggetto responsabile sia titolare di un’impresa o a capo di un ente, il reato viene perseguito ai sensi dell’art. 256, 2° comma:

a)  con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;

b)         con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi.

7.3.1.         Rimozione e ripristino dei luoghi

Il terzo comma dell’art. 192 sancisce inoltre l’obbligo di rimuovere i rifiuti depositati avviandoli a recupero o smaltimento e di ripristinare lo stato del luogo, eventualmente in solido con il proprietario giudicato colpevole.

Al fine di comminare la sanzione ripristinatoria, è previsto che le autorità verifichino in contraddittorio l’imputabilità dei soggetti interessati, al seguito degli accertamenti del caso.

Gli adempimenti di ripristino devono essere assolti entro il termine indicato dall’ordinanza emanata dal sindaco, pena l’esecuzione in danno dei soggetti obbligati con recupero delle somme anticipate.

PARTE SECONDA – I sistemi regionali

VI.       Produzione e raccolta dei rifiuti urbani nelle regioni italiane

Nel 2008, la produzione più elevata di rifiuti urbani è stata registrata in Toscana, con ben 686 kg/ab. l’anno, seguita in ordine decrescente ma con valori prossimi da Emilia Romagna, Umbria, Liguria e Valle d’Aosta (quest’ultima con 606 kg/ab.); per contro, il valore di produzione più basso corrisponde ai soli 386 kg della Basilicata.

La maggior parte delle restanti regioni mostra valori inferiori ai 500 kg/ab. l’anno; al Nord, dove pure è maggiore il consumo di prodotti industriali, restano sotto la soglia indicata Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.

È bene osservare che i dati di produzione riportati sono intesi in senso assoluto e perciò non tengono conto dei flussi turistici stagionali, in grado talora di incidere pesantemente sui valori medi annuali. Inoltre è opportuno segnalare che, nonostante alcuni valori siano ancora piuttosto alti, in ogni regione si registra un calo di produzione diffuso rispetto al 2006.

L’andamento regionale trova un riscontro piuttosto fedele nei valori rilevati a livello provinciale: 68 province su 107 riportano meno di 550 kg di rifiuti per abitante. Per contro, le città toscane assieme ad alcune province dell’Emilia si caratterizzano per valori che superano i 650 kg pro capite.

Il record di produzione spetta tuttavia alle province di Olbia-Tempio e Rimini, con valori annuali che sfiorano i nove quintali di rifiuti urbani per abitante: a tal proposito, si tengano comunque presenti le osservazioni di cui sopra.

Con oltre il 50% di raccolta differenziata, Trentino-Alto Adige e Veneto si collocano ai primi posti in Italia, potendo verosimilmente raggiungere il target del 60% previsto per il 2011; seguono Piemonte e Lombardia con valori superiori al 45%. Il divario aumenta procedendo verso le regioni centro-meridionali, i cui valori scendono talora sotto il 20%; tuttavia proprio in quest’area si registrano generalmente le percentuali di incremento più elevate di raccolta differenziata[60].


VII.      Nord e Sud: tre sistemi regionali a confronto

1.      Un modello per la raccolta differenziata: il Veneto

Il Veneto produce oltre 2 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno.

Tale cifra è stata raggiunta in seguito ad un incremento della produzione nell’ultimo decennio, riconducibile da un lato al costante aumento dei consumi, dall’altro al diverso sistema di conteggio degli assimilati.

Per mezzo della L.R. n° 3/2000 intitolata Nuove norme in materia di gestione dei rifiuti, la Regione Veneto ha recepito la normativa nazionale effettuandone peraltro – contestualmente all’adeguamento legislativo – un riordino complessivo al fine di ricavarne sinteticamente i propri compiti.

Alla Regione spetta dunque disciplinare[61]:

a)  l’esercizio delle funzioni regionali in materia di organizzazione e gestione dei rifiuti anche mediante la delega alle province di specifiche attribuzioni;

b)  le procedure per l’adozione e l’aggiornamento dei piani di gestione dei rifiuti;

c)  le procedure per l’approvazione dei progetti di impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti;

d)  le procedure per il rilascio ed il rinnovo delle autorizzazioni all’esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero dei rifiuti.

La normativa nazionale racchiude a sua volta i principi comunitari attorno ai quali si sviluppa l’orientamento politico europeo in materia.

Sulla scia del nuovo assetto di priorità costituito in base ad essi[62], sono state approntate dalla Regione delle strategie rivolte a conseguire obiettivi di:

–       prevenzione dei rifiuti e riduzione della loro pericolosità;

–       massimizzazione del recupero e del riutilizzo dei materiali;

–       incentivazione del recupero energetico tramite combustione dei rifiuti;

–       efficientamento, autosufficienza e riduzione dell’impatto ambientale delle tecniche di smaltimento a livello regionale;

–       riduzione delle discariche e del conferimento di rifiuti in discarica fino al-l’ “azzeramento”;

–       coinvolgimento degli enti locali nell’adozione e nell’aggiornamento dei Piani regionali di gestione.

 

Dette strategie rappresentano quindi lo strumento concreto con cui raggiungere gli obiettivi prefissati. In base ad esse, per quanto concerne i rifiuti urbani, i Comuni si devono attrezzare per dar vita ad un articolato sistema di raccolte differenziate relative a[63]:

–       frazione umida (distinta in verde + frazione organica putrescibile);

–       frazione secca recuperabile;

–       parte solida rimanente – la cui differenziazione è in primo luogo rimessa al cittadino, poi effettuata meccanicamente a seguito della raccolta, per agevolare il trattamento all’interno dell’impianto.

Qualora all’interno del comune di appartenenza non sia ancora stato raggiunto il 35% di raccolta differenziata, l’art. 2, 3° comma obbliga gli utenti a cominciare la raccolta separata della frazione organica putrescibile a partire dal 01 gennaio 2003. L’ultimo comma dello stesso articolo prevede l’effettuazione di verifiche da parte dell’Osservatorio regionale sui rifiuti finalizzate a constatare il raggiungimento della soglia minima di differenziazione.

Spetta alle Autorità d’Ambito infine stabilire

<<gli obiettivi di raccolta differenziata di ogni singolo comune al fine del raggiungimento per l’intero ambito delle percentuali previste all’articolo 2>>[64].

1.1         I piani provinciali di gestione dei rifiuti urbani

In relazione alla gestione dei rifiuti, ogni ATO corrisponde al territorio provinciale[65]; invece, per quanto concerne le operazioni di incenerimento e recupero di energia[66], esso coincide con l’intera regione. La Provincia detiene inoltre la facoltà di tracciare confini ancora diversi attraverso il piano provinciale[67], potendo costituire ATO di livello sub-provinciale[68], qualora ciò risponda ad esigenze territoriali od organizzative.

Le Province sono incaricate di redigere[69] ed adottare[70] i piani provinciali di gestione dei rifiuti urbani in relazione al proprio territorio, provvedendo inoltre a:

 

—        individuare le iniziative di prevenzione più idonee;

—        promuovere il recupero attraverso una gestione oculata degli impianti esistenti;

—        regolare i rapporti tra l’Autorità d’Ambito e gli affidatari della ge-stione;

—        selezionare le aree più adatte ad ospitare impianti e discariche.

Il piano dev’essere infine approvato dal Consiglio regionale[71].

1.2         Il piano regionale

L’art. 10 della L.R. n° 3/2000 disciplina il “Piano regionale di gestione dei rifiuti urbani”; il primo comma stabilisce che esso debba:

a)  promuovere la riduzione della quantità, dei volumi e della pericolosità dei rifiuti;

b)  individuare le iniziative dirette a limitare la quantità dei rifiuti e a favorire il riutilizzo, il riciclaggio e il recupero dei rifiuti, nonché le iniziative dirette a favorire il recupero di materie dai rifiuti;

c)  dettare i criteri per l’individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, nonché per l’individuazione dei luoghi e impianti adatti allo smaltimento;

d)  stabilire le condizioni e i criteri tecnici in base ai quali gli impianti per la ge-stione dei rifiuti, ad eccezione delle discariche, possono essere localizzati in aree destinate ad insediamenti produttivi;

e)  definire le misure atte ad assicurare la regionalizzazione della raccolta, della cernita e dello smaltimento dei rifiuti urbani;

f)   stabilire la tipologia ed il complesso degli impianti per la gestione dei rifiuti urbani da realizzare nella Regione tenendo conto dell’obiettivo di assicurare la gestione dei rifiuti urbani all’interno degli ambiti territoriali ottimali nonché dell’offerta di smaltimento e di recupero da parte del sistema produttivo;

g)  stabilire la tipologia e la quantità degli impianti per l’incenerimento, con recupero energetico, dei rifiuti urbani e per l’utilizzazione principale degli stessi come combustibile o altro mezzo per produrre energia, da realizzare nella Regione, tenendo conto che in tal caso l’ambito territoriale ottimale per la gestione di tali rifiuti è l’intero territorio regionale;

h)  stimare i costi delle operazioni di recupero e di smaltimento.

 

Ai sensi del secondo comma, il piano si compone necessariamente di:

—        una relazione sullo stato di attuazione delle previsioni;

—        una serie di criteri per

  • la prevenzione e lo smaltimento dei rifiuti urbani
  • il recupero, anche di tipo energetico
  • la gestione della raccolta
  • la localizzazione degli impianti.

In ossequio all’art. 10 della L.R., l’art. 2 del piano regionale del Veneto, prevede quali obiettivi:

—        l’adozione di misure di prevenzione e riduzione della pericolosità dei rifiuti urbani;

—        l’individuazione di criteri per la definizione della tipologia e quantità  degli impianti, nonché la loro localizzazione;

—        il raggiungimento dell’autosufficienza di ogni ATO.

Il piano, approvato alla fine del 2004, è suddiviso in sei Elaborati (A-F) che integrano gli elementi obbligatori di cui sopra[72].

L’Elaborato A rivela uno stato di attuazione delle previsioni già piuttosto avanzato al momento della stesura del piano, come emerge dal confronto con le difficoltà di raccolta riscontrate qualche anno prima, quasi tutte positivamente superate – secondo l’analisi riportata, ad ostacolare la differenziata in un primo momento aveva contribuito l’insuccesso nel promuovere soluzioni inizialmente considerate “troppo innovative”. Un ruolo altrettanto importante è stato giocato dalla scarsa presenza di impianti di recupero funzionanti.

I progressi fatti sono quindi parzialmente riconducibili all’avvio di diversi impianti sul territorio, cosa che ha consentito di velocizzare i processi di trattamento. Va tuttavia segnalata, in qualità di fattore determinante, la costituzione di consorzi di filiera affiliati al CONAI, che ha agevolato la separazione a valle dei materiali, permettendo di conseguire un notevole incremento della percentuale di raccolta differenziata a livello regionale (nel 2008 prossima al 53%). I principali consorzi creati sono:

—        CO.RE.VE per il vetro

—        CO.RE.PLA per la plastica

—        CO.MIECO per la carta

—        RILEGNO per il legno

—        CIAL per l’alluminio

—        CNA per l’acciaio

Tra le sette province venete sono in realtà soltanto tre quelle la cui forza trainante ha consentito di superare il 50% di differenziata: Treviso, Padova e Vicenza; le altre città hanno per lo più cercato di imitare il trend positivo, con valori comunque prossimi al 30%.

È tuttora atteso un certo incremento nelle percentuali mostrate da diversi Comuni sparsi sul territorio che, nel frattempo, si sono attrezzati per operare un miglioramento delle tecniche gestionali e di raccolta, adottando per esempio il metodo del “porta a porta”[73].

Negli ultimi tempi, il Veneto ha inoltre rivolto grande attenzione alle tecniche di recupero della frazione organica, realizzando nuovi impianti di compostaggio ed apportando significative migliorie a quelli già esistenti. Ciò ha consentito di ottenere un incremento del 20% nella raccolta separata dell’umido rispetto alla frazione secca, aumentando così nel contempo la combustibilità di quest’ultima.

Infine, si stanno valutando quasi ovunque le misure più idonee ad assicurare nel più breve tempo possibile l’autosufficienza di smaltimento a livello di ATO: si registra già, rispetto agli anni passati, una sensibile diminuzione del fenomeno di conferimento dei rifiuti urbani in territori extra-provinciali.

Per quanto riguarda il recupero di materia, due sono le priorità:

—        l’ottimizzazione della quota di raccolta di secco e umido;

—        l’avvio al recupero energetico della frazione residua.

L’Elaborato C individua i Criteri per la riduzione della produzione di rifiuti, partendo dal presupposto che, per quanto il risultato finale dipenda concretamente dalla sommatoria degli stili di vita personali dei cittadini, è comunque possibile adottare degli “atteggiamenti ecologicamente responsabili”, in grado di incidere sui quantitativi prodotti. Viene quindi stilato un elenco generale degli strumenti ritenuti maggiormente funzionali a tale scopo:

  1. I.      Campagne informative, formative ed educative – la scelta di educare soggetti giovani ad uno stile di vita ambientalmente compatibile si prefigura come l’alternativa ideale alla repressione di comportamenti scorretti in età adulta. A tal fine è opportuno incentivare concorsi, incontri, visite guidate e seminari che coinvolgano attivamente insegnanti ed alunni delle scuole elementari e medie (campagne educative).

Viene inoltre promossa ogni forma organizzata di divulgazione della conoscenza che si mostri atta a sensibilizzare le varie componenti del tessuto sociale (campagne formative) o che punti ad informare più specificamente la cittadinanza in merito ad obiettivi, risorse e piani d’azione che vedono coinvolte le amministrazioni locali (campagne informative).

  1. II.      Incentivazione del compostaggio domestico – è fondamentale che la cittadinanza separi ciascuna frazione in maniera consapevole, prestando soprattutto attenzione al binomio secco/umido. La qualità della differenziazione domestica “a monte” decreta infatti il successo delle operazioni di raccolta e trattamento “a valle”.
  2. III.      Riduzione della produzione dei rifiuti negli uffici – principalmente attraverso un utilizzo accorto e proficuo della carta, in un’ottica di massimo riciclo.

È inoltre importante che ogni contesto lavorativo abbia a disposizione prodotti di cancelleria ricaricabili, nonché macchinari (es. fotocopiatori) che limitino gli sprechi.

  1. IV.      Indizione di concorsi a premio – ossia il riconoscimento di una ricompensa all’utente che si sia distinto in base ad un comportamento positivo attivo negli ambiti di prevenzione, recupero o smaltimento.
  2. V.      Promozione ed incentivazione del non utilizzo di stoviglie monouso – a tale scopo si rende necessaria la stipulazione di accordi specifici tra le autorità amministrative, favorendo la partecipazione di associazioni ambientaliste e di consumatori, nonché di ogni altro ente che possa svolgere un ruolo di rilievo. L’obiettivo finale è quello di impartire direttive specifiche ai soggetti più frequentemente coinvolti nell’organizzazione di eventi e manifestazioni in cui, per ragioni di igiene, si fa abbondante ricorso a prodotti in plastica.

 

2.      La Lombardia: terra degli inceneritori

Nel considerare il rilevante patrimonio di imprenditorialità che caratterizza la Lombardia, nel cui territorio si registra infatti la più elevata concentrazione di grande e media impresa a livello nazionale, non stupisce che la regione occupi il primo posto anche nella produzione di rifiuti. In base alle rilevazioni del 2004, quasi la metà della produzione regionale di rifiuti è attribuibile all’area milanese, seguita dal 13,9% di Brescia e provincia. Cremona e Sondrio, complice la bassa densità demografica, occupano invece gli ultimi posti.

Nello stesso periodo, la produzione totale si attesta oltre i 4 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno (500 kg/ab.), con una proiezione al 2011 di 5.800.000 e quindi più di 600 kg pro capite.

La raccolta delle principali frazioni avviene in maniera pressoché uniforme in tutto il territorio regionale: la modalità più diffusa per l’indifferenziato e l’organico è il “porta a porta” (rispettivamente 54% e 88%), seguito dall’utilizzo dei cassonetti stradali. La quasi totalità dei Comuni predilige invece questi ultimi per raccogliere il vetro, mostrando una preferenza in tal senso anche per carta e plastica (48% e 73%)[74].

Nonostante il primato nella produzione di rifiuti, la Regione ha compiuto notevoli sforzi volti a coniugare lo sviluppo economico con esigenze di tutela ambientale sempre più stringenti, che hanno costretto le imprese ad adottare nel tempo un orientamento ambientalmente compatibile: sulla scia del principio comunitario di “responsabilità estesa del produttore” è stata ad esempio incentivata la produzione di beni a lunga durata; inoltre, oggi la Lombardia investe più consapevolmente nella sostenibilità dello sfruttamento delle risorse e nelle nuove tecnologie.

L’obiettivo comune è quello di creare una “industria dell’ambiente” in grado di:

–       provocare il minor impatto ambientale possibile;

–       sviluppare il mercato delle materie recuperate;

–       autoalimentarsi grazie all’energia ricavata dai rifiuti.

Dal censimento del 2003, dei 46 impianti di smaltimento presenti sul territorio nazionale ben 12 risultavano collocati in Lombardia. All’epoca prese il via anche la costruzione di impianti di termovalorizzazione ad alta tecnologia e furono apportati i necessari ammodernamenti agli impianti già esistenti, riuscendo così ad ottenere quantità crescenti di Cdr. L’innalzamento del potenziale di incenerimento arrivò sempre più a scoraggiare il conferimento in discarica, che oggi è il più basso d’Italia (3% della produzione regionale).

Specialmente a partire dal luglio 2005, con l’entrata in vigore del divieto di conferimento in discarica dei rifiuti con potere calorifico[75], la Lombardia si è confermata quale eccellenza nella termovalorizzazione, arrivando a trattare la metà dell’indifferenziato incenerito in Italia (la sola Milano concorre per oltre il 20% all’intera potenzialità della regione): l’energia ricavata dalla combustione della frazione secca va così ad integrare il fabbisogno energetico nazionale, con l’auspicio di ridurre in futuro le importazioni di energia dall’estero. Oltre a fornire energia elettrica alle aree industriali, gli impianti di Cdr sono attualmente sfruttati anche per la produzione di calore finalizzata al teleriscaldamento. Questa ingegnosa seconda funzione presenta peraltro l’inconveniente di dover collocare gli impianti in zone limitrofe ai centri abitati, frequente motivo di attrito sociale.

Grazie al progresso tecnologico è stato inoltre possibile adottare speciali filtri che garantiscono una profonda depurazione dei fumi di scarico.

Sul territorio lombardo vi è una significativa presenza anche di altri tipi di impianto: nel 2004 erano ben 56 ad esempio quelli di compostaggio, in grado di trattare quantità molto maggiori di quelle ricevute, le quali già allora si mostravano in lieve ma costante diminuzione, segno di un buon funzionamento della differenziazione a monte.

Si registrano infine forme di gestione diverse a seconda della tipologia di impianto: mentre la selezione e il compostaggio sono per lo più affidate ai privati, la gestione pubblica predomina nel caso della termovalorizzazione.

2.1         La Legge Regionale n° 26/2003

Con la L.R. n° 26/2003, la Lombardia ha definito un quadro normativo unitario che controlla l’intero sistema dei servizi pubblici ed impronta la gestione dei rifiuti su standard qualitativi e di efficienza al passo con l’evoluzione in materia. L’orizzonte temporale considerato dalla normativa è piuttosto ampio (2004-2011): il lungimirante studio condotto per la realizzazione del Piano pare essersi rivelato efficace, data la sola presenza di qualche aggiornamento durante l’intero periodo. Nell’arco di un biennio si renderà tuttavia verosimilmente necessaria una revisione di maggiore portata per la fissazione di nuovi obiettivi.

La legge citata risulta chiaramente ispirata dai principi comunitari e si incardina sui seguenti punti chiave:

—        la presenza di incentivi e penalizzazioni finalizzate a garantire il raggiungimento di standard minimi obbligatori;

—        continuità, accessibilità, economicità e qualità del servizio erogato;

—        evidenza pubblica delle procedure di affidamento del servizio a terzi;

—        promozione di campagne d’informazione.

A questi punti si sommano gli obiettivi politici di:

—        realizzazione di un parco impiantistico in linea con la forte industrializzazione dell’area;

—        riduzione della produzione di rifiuti e sviluppo del recupero – in base al Piano ciascuna Provincia è chiamata entro quest’anno a recuperare complessivamente il 60% in peso dei rifiuti prodotti e dei residui di termovalorizzazione;

—        minimizzazione del conferimento in discarica.

Successivamente all’entrata in vigore della legge regionale è stata effettuata la scelta di decentrare l’attuazione della normativa a livello provinciale. L’autonomia così ottenuta ha stimolato le Province ad operare in maniera sempre più divergente le une dalle altre, provocando una frammentazione delle politiche di gestione; tale situazione ha costretto la Regione ad assumere un ruolo di coordinamento e raccordo tra i Piani provinciali, al fine di recuperare la necessaria unitarietà della pianificazione sul territorio.

Nel 2009 sono state fissate le “Linee guida per la revisione dei piani provinciali di gestione dei rifiuti urbani e speciali e per la localizzazione degli impianti”, con conseguente sostituzione del Capitolo 8 del Piano originario: pur nel rispetto sostanziale dei principi ispiratori del D.lgs 152/2006, la Regione Lombardia, attraverso la L.R. n° 26/2003, sceglie formalmente di avvalersi di un modello organizzativo alternativo a quello fondato su Ambiti Territoriali Ottimali ed Autorità d’Ambito. Per converso, in ossequio al Testo Unico, la Regione mantiene funzioni di indirizzo e coordinamento nei confronti della programmazione provinciale, che si sviluppa secondo logiche di autosufficienza territoriale in relazione a smaltimento e recupero.

2.1.1.         Il Fondo regionale per l’energia

L’art. 24/3 della L.R. 26/2003 ha dato vita al Fondo per lo sviluppo di azioni in campo ambientale ed energetico: si tratta di uno strumento di grande efficacia, che svolge un ruolo centrale nell’utilizzo delle fonti rinnovabili e nella termovalorizzazione della frazione organica dei rifiuti. Esso è volto alla promozione di iniziative il cui costo di investimento possa essere ripagato, oltre che da nuove produzioni energetiche, anche dal “costo evitato” di altre forme di smaltimento. Il Fondo provvede quindi a monitorare costantemente l’offerta di energia e lo stato degli accordi energetico-ambientali, impegnandosi nel contempo a sviluppare nuove forme di finanziamento delle fonti rinnovabili.

 

2.2         Gli indicatori di qualità del sistema rifiuti

Allo scopo di valutare in maniera oggettiva la qualità del sistema di gestione dei rifiuti, sono state approntate delle categorie di indicatori che rilevano il livello di funzionalità del servizio anche in base al grado di soddisfazione dell’utenza (customer satisfaction). Si tratta di uno strumento di indubbia originalità, che denota un elevato potenziale organizzativo.

Esso si struttura come segue:

  • gli indicatori di efficacia hanno ad oggetto la quantità e la tipologia di raccolta, il rapporto tra la popolazione e il numero di addetti al servizio;
  • gli indicatori di efficienza riportano la frequenza del servizio, la produttività degli operatori e la distanza delle attrezzature dall’utenza;
  • gli indicatori di economicità conteggiano i costi di raccolta, trasporto e smaltimento;
  • gli indicatori di soddisfazione sondano l’opinione dell’utenza ed informano sulla risposta della popolazione alla raccolta differenziata.

3.      Una Sicilia tra autonomia e contraddizioni

3.1         Dall’emergenza rifiuti al Piano di gestione del 2002

Dopo anni di inerzia e malfunzionamenti, nel gennaio del 1999 veniva dichiarato lo stato di emergenza in merito alla gestione dei rifiuti nella regione Sicilia, i cui poteri furono affidati cinque mesi più tardi ad un Commissario speciale: questi fu incaricato di stilare immediatamente un Piano di emergenza, cui sarebbe seguita la stesura del Piano regionale di gestione dei rifiuti.

Due anni più tardi il territorio regionale veniva suddiviso in 25 ATO, per consentire l’avvio di una gestione locale basata ancora principalmente sulla differenziazione di secco e umido; in concomitanza con l’adozione del Piano di gestione alla fine del 2002, a capo degli ATO furono poste 25 Società d’Ambito, cui se ne aggiunsero in seguito altre due per soddisfare le esigenze di alcune zone insulari.

Il Piano era stato redatto in tre fasi:

—        la prima fu interamente dedicata alla raccolta e all’analisi di dati, al fine di studiare la situazione relativa a ciascun territorio.

—        In secondo luogo, mediante l’ausilio di mappe tematiche prese il via un’analisi comparata delle diverse realtà riscontrate.

—        Infine, si poté procedere alle operazioni di coordinamento e programmazione, che ottennero successivamente la piena approvazione della Commissione Europea.

Il Piano varato fissava le percentuali minime di raccolta differenziata per il biennio successivo (15% entro il 2003 e 25% entro la fine del 2005). Tuttavia, tali obiettivi non furono mai raggiunti e i dati raccolti qualche anno dopo lasciarono verosimilmente intuire che molte delle indicazioni contenute nel Piano erano state trascurate: la quantità di raccolta differenziata registrata nel 2007 era infatti pari ad appena il 6,6%. Inoltre la capacità di molte discariche appariva in via di esaurimento e si registrava una forte carenza di impianti di trattamento e pretrattamento.

A dispetto di un trend così negativo, va peraltro segnalata la corretta applicazione delle previsioni del Piano da parte di alcuni Comuni isolati, dove furono rilevate percentuali di differenziazione prossime a quelle delle aree di “eccellenza” nel resto del Paese. Tali episodi servirono a testimoniare le ottime possibilità di efficientamento del sistema di raccolta anche nel territorio siciliano.

Accanto agli ordinari aggiornamenti tecnici, si cominciò pertanto a riflettere sull’opportunità di operare una revisione massiccia del Piano, nell’intento di obbligare in maniera più stringente gli Enti attuatori a rispettarne le linee-guida.

3.2         Gli aggiornamenti tecnici e la revisione del Piano di gestione

Nel 2004 si rese necessario un primo intervento di aggiornamento sul Piano, al fine di adeguarlo ai cambiamenti di maggior rilievo, tra cui:

—        il Programma di riduzione dei rifiuti urbani biodegradabili in discarica;

—        il D.lgs 36/2003 che recepiva la normativa comunitaria in tema di discariche;

—        la localizzazione degli impianti di termovalorizzazione.

A distanza di due anni il Piano fu integrato con i nuovi obiettivi di raccolta differenziata e prevenzione.

Nel biennio 2008/2009 si dovette nuovamente intervenire per modificare le percentuali minime di differenziata ed operare una riduzione degli ATO esistenti ai sensi della L.R. 2/07.

Si presentò così l’occasione adatta per effettuare il rinnovo generale pensato qualche anno prima: su proposta del Presidente della Regione, nell’ottobre 2009 venne nominata una Commissione incaricata di elaborare un articolato progetto di revisione, dal quale traspariva il bisogno di dare vita ad un sistema di raccolta suscettibile di controllo costante. Al fine di evitare l’ennesimo divario tra forma e sostanza (cioè tra prescrizione e adempimento), si decise dunque di seguire l’implementazione del progetto passo per passo, attraverso:

 

—        l’individuazione delle aree su cui intervenire per innalzare i livelli di raccolta differenziata;

—        un’attività informativa constante a favore degli Enti Locali sulle iniziative adottate;

—        l’individuazione dei materiali residui non recuperabili e loro classificazione.

Il sistema ideato si componeva di una serie di misure specifiche, pensate per incrementare i livelli regionali di prevenzione e recupero, ad esempio:

—        l’adozione del metodo di raccolta “porta a porta”. La raccolta domiciliare integrata venne da ultimo riconosciuta quale unico sistema in grado di assicurare il raggiungimento degli obiettivi della differenziata (originariamente il Piano non includeva previsioni specifiche a riguardo e si limitava ad insistere sulla separazione della frazione umida dal secco);

—        l’utilizzo di strumenti economici volti ad incentivare l’assunzione di comportamenti ambientalmente compatibili da parte delle imprese (eco-fiscalità);

—        il varo di progetti per la promozione dei beni di lunga durata e per il recupero dei materiali usati;

—        l’incentivazione alla vendita di prodotti sfusi (es. la distribuzione di liquidi per mezzo di dispenser);

—        l’istituzione di eco piazze.

Il progetto di revisione predispone inoltre delle specifiche azioni di prevenzione tra le quali vanno citate, in ordine di priorità:

—        la promozione del compostaggio domestico;

—        l’adozione di regolamenti per assicurare la gestione sostenibile di sagre, manifestazioni ed eventi collettivi (limitando il più possibile l’utilizzo di prodotti di plastica “usa e getta”);

—        la stipulazione di accordi con la grande distribuzione per l’uso di prodotti di cancelleria ricaricabili (a partire dagli enti pubblici);

—        il riutilizzo di prodotti igienici e sanitari onde evitare sprechi di materiale primario (in particolare è ormai noto l’elevato potenziale inquinante dei pannolini, che potrebbero essere reinventati come prodotto lavabile e di lunga durata).

 

3.3                  La Legge Regionale 8 aprile 2010, n° 9

Negli ultimi mesi la disciplina della gestione integrata dei rifiuti è stata affidata alla L.R. 8 aprile 2010, n° 9, naturalmente all’unisono con il Testo Unico del 2006, la normativa comunitaria in materia e le rispettive integrazioni. Tra le finalità della legge di cui al primo comma dell’art. 1 meritano di essere segnalate, accanto a quelle già più volte ribadite:

—        la responsabilizzazione del comparto produttivo, al fine di immettere sul mercato prodotti dai quali si generino meno scarti;

—        il coinvolgimento della cittadinanza attraverso attività di informazione mirata, con particolare attenzione alle scuole;

—        la previsione di premialità economiche pubbliche e private, che ricompensino enti, imprese e cittadini virtuosi.

L’art. 5 della nuova legge, in risposta alle esigenze di efficacia, efficienza ed economicità[76], prevede che la gestione integrata dei rifiuti debba avvalersi della presenza di dieci Ambiti Territoriali Ottimali, di cui nove per le comunità principali e il restante al servizio delle isole minori. L’adeguatezza della nuova delimitazione territoriale potrà essere in un secondo momento valutata in relazione al Piano di gestione dei rifiuti. Il primo e fondamentale compito spettante a quest’ultimo è quello di:

<< defini[re] le modalità per il raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata e di recupero di materia, al netto degli scarti dei processi di riciclaggio, per ognuno degli ambiti territoriali ottimali, attraverso l'elaborazione di un documento di indirizzo denominato "Linee-guida operative sulla raccolta differenziata" in grado di supportare e guidare gli enti attuatori nella progettazione di dettaglio ed ottimizzazione dei sistemi di raccolta differenziata, privilegiando la raccolta domiciliare integrata, per il raggiungimento dei livelli minimi così fissati:

1) anno 2010: Rd. 20 per cento, recupero di  materia 15 per cento;

2) anno 2012: Rd. 40 per cento, recupero materia 30 per cento;

3) anno 2015: Rd. 65 per cento, recupero materia 50 per cento>>[77].

Ai sensi dell’art. 11, la Regione è invitata a sostenere il programma ope-rativo del Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR 2007-2013) attraverso attività di prevenzione e riduzione della pericolosità dei rifiuti, promosse da efficaci campagne informative e di sensibilizzazione; sempre nell’ottica di ridurre gli scarti ed evitare lo spreco di materie prime, la Regione è tenuta ad incentivare la diffusione degli acquisti verdi.

Infine, la nuova legge obbliga la Sicilia a predisporre delle azioni volte a favorire un incremento percentuale di raccolta differenziata e recupero.

L’attenzione è concentrata soprattutto sulla Pubblica Amministrazione, da cui deve partire l’esempio di una gestione dei consumi efficiente e rispettosa dell’ambiente: a tal fine, trovano applicazione a livello regionale le misure di cui al “Piano nazionale di azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della P.A.”[78]; gli enti pubblici devono inoltre essere in grado di soddisfare almeno il 30% del proprio fabbisogno annuale di beni grazie al riutilizzo e al riciclo dei materiali adoperati[79].

 

VIII.     Conclusioni

1.      In sintesi

In queste pagine ho cercato di ripercorrere le fasi principali in cui si articola la materia dei rifiuti in Italia e in Europa. Ne è emerso un sistema complesso e plurisfaccettato, il cui funzionamento necessita imprescindibilmente della cooperazione di una molteplicità di settori e categorie professionali, chiamate a perseguire obiettivi comuni ed operare in costante sinergia tra loro.

La dimensione europea che vede protagonisti l’Italia e gli altri Stati Membri indubbiamente agevola l’unitarietà delle politiche ambientali, mediante la fissazione di criteri e linee guida comuni; tuttavia, le attività di gestione dei rifiuti risultano ancora in buona parte governate da leggi statali, che non sempre si rivelano in grado di garantire l’efficienza dei sistemi di raccolta, recupero e smaltimento.

Nonostante la mobilitazione di molte amministrazioni regionali e locali nel tentativo di raggiungere celermente gli obiettivi comunitari, l’Italia si mostra ancora interessata da una forte disomogeneità sul proprio territorio, facendo registrare a livello regionale un sensibile divario tra le percentuali di differenziazione e recupero: la ragione di ciò va spesso ricondotta ad una gestione frammentaria del servizio rifiuti e ad uno sfruttamento poco sostenibile delle risorse locali.

 

 

2.      Prevenzione e riciclaggio

Partendo dal presupposto che il nostro stile di vita attuale si sta rivelando sempre più insostenibile e deleterio per il nostro pianeta, si rende più che mai necessaria un’autentica svolta, in parte fortunatamente già in atto.

All’antropocentrismo che ha dominato negli ultimi decenni deve sostituirsi inequivocabilmente un’attenzione incondizionata a favore dell’ambiente, specificamente incentrata sull’analisi dell’impatto causato dalle nostre attività.

Il primo concetto chiave è quello della prevenzione, ossia una riduzione della produzione dei rifiuti opportunamente pianificata dalle amministrazioni di ogni livello. Lungi dal voler congelare le filiere produttive e bloccare così lo sviluppo economico, le misure di prevenzione impongono, a partire dal livello comunitario, una serie di modificazioni comportamentali a carico soprattutto dei soggetti “a monte”:

ü     innanzitutto, il produttore è invitato a “risparmiare” sull’imballaggio dei beni, evitando così di immettere sul mercato grandi quantità di materiale destinate a trasformarsi in rifiuto in un tempo brevissimo;

ü     in secondo luogo, al produttore viene chiesto di operare un’estensione del ciclo di vita dei propri beni, assicurandone una più lunga permanenza sul mercato e presso il consumatore, facilitandone infine lo smaltimento da parte di quest’ultimo;

ü     infine, dev’essere limitato l’utilizzo di sostanze pericolose in materiali e prodotti, allo scopo di ridurre quanto più possibile un impatto negativo sulla salute umana e sull’ambiente.

Non è tuttavia pensabile poter ridurre oltre una certa misura l’ingente quantità di rifiuti prodotta da una società come quella odierna, fondata su un consumismo per lo più “usa e getta”. È pertanto indispensabile intervenire anche in altro modo, ossia attribuendo un nuovo valore al rifiuto. Grazie al riciclaggio, i materiali di rifiuto vengono ritrattati per ottenere sostanze o prodotti che preservano le proprie funzioni originarie o ne assumono di nuove.

In associazione con il principio di prevenzione, il riciclo consente di abbattere buona parte degli impatti negativi sull’ambiente, allo stesso tempo rendendo il mercato più efficiente ed accorto.

È evidente che, allo stadio attuale, sono già state ampiamente delineate le direttive lungo le quali muoversi; è pertanto fondamentale che l’intera comunità continui a seguire, senza interruzioni, la rotta tracciata.

Uno strumento di incentivazione al riciclo rivelatosi estremamente efficace e per questo diffuso in molti Paesi dell’UE è quello del deposito cauzionale: sull’acquisto di un qualsiasi prodotto racchiuso in un contenitore di vetro o plastica viene applicato un sovrapprezzo che sarà poi recuperato dal consumatore nel momento della restituzione del “vuoto”. In centro e nord Europa questa strategia viene adottata sia nella grande distribuzione sia al dettaglio, nonché in buona parte della ristorazione. Pare senz’altro lecito domandarsi perché l’Italia non sia interessata a questo strumento.

3.      Smaltimento e recupero di energia

Neppure la combinazione di prevenzione e riciclaggio è di per sé in grado di assicurare il raggiungimento degli obiettivi comunitari prefissati. In altre parole, nel medio e forse lungo termine, vi saranno sempre dei rifiuti da smaltire. Di conseguenza, conviene eliminare del tutto il conferimento di rifiuti in discarica e trarre ogni vantaggio possibile dalla loro combustione.

A partire da un’accurata differenziazione dei rifiuti a livello domestico, unitamente ad un sapiente trattamento “a valle”, è possibile separare in massima parte la frazione umida da quella secca: la combustione di quest’ultima in impianti appositi consente di ottenere prodotti quali Cdr e Cdr-q, in grado di sostituirsi a combustibili fossili molto più inquinanti. In sostanza, è possibile recuperare grandi quantità di energia, da sfruttare sotto forma di elettricità o di calore.

Ed è proprio la produzione di calore a partire dalle biomasse, dagli scarti dell’agricoltura e dai rifiuti urbani, a rappresentare verosimilmente la principale fonte di energia rinnovabile del futuro. Questo in realtà a dispetto di altre blasonate fonti energetiche, quali quella idraulica, eolica e fotovoltaica che, sebbene capaci di apportare un contributo significativo al raggiungimento degli obiettivi comunitari, non si profilano tuttavia quali settori determinanti (Furfari 2010).

Nell’ambito della termovalorizzazione, tra le regioni italiane la Lombardia ha il merito di aver intrapreso il giusto cammino da tempo: l’auspicio è che possa fungere da esempio per le molte realtà limitrofe che, ancora oggi, non sembrano pronte a raccogliere la sfida di creare un mondo più pulito.

 

4.      Dall’informazione ambientale all’Educazione Ambientale

La legge richiama sempre più spesso l’attenzione della Pubblica Amministrazione e di un gran numero di istituzioni sul tema ambiente, chiedendo di sviluppare campagne di formazione e sensibilizzazione ambientale a favore delle comunità ed insistendo sull’opportunità di rivolgersi ai giovani in maniera diretta.

In materia ambientale e in particolare nell’ambito dei rifiuti, i primi destinatari di ogni apparato normativo sono, da una parte, le amministrazioni incaricate di far funzionare con successo il sistema e garantire una gestione efficiente dei servizi, dall’altra i soggetti che operano alla base del mercato, in particolare i responsabili delle filiere produttive. Il problema è che, per una semplice questione di proporzioni, a fare la vera differenza è il comportamento del cittadino, che può ed anzi deve affidarsi alla guida delle istituzioni, ma è a sua volta tenuto ad assumere una condotta in linea con gli obiettivi di salvaguardia. Il singolo ha pertanto il diritto e il dovere di essere informato sul proprio “ruolo ambientale”, per contribuire così al raggiungimento dei livelli di differenziazione e recupero prefissati.

L’organizzazione di campagne informative rappresenta senz’altro una tappa fondamentale per lo sviluppo di un’interazione tra le istituzioni e il cittadino e, a tal fine, è essenziale studiare tecniche di comunicazione che facilitino il recepimento dei concetti primari da parte di ciascuna fascia di popolazione.

L’opinione di chi scrive è che tutto ciò non sia sufficiente. Pur non dubitando della qualità e dell’effettività delle singole azioni informative, con l’avanzare del tempo queste si vedranno esposte, in maniera crescente, ad un rischio di frammentazione e dispersione che ne decreterà il fallimento.

Per continuare un domani la corsa verso la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana è indispensabile assicurare la corretta formazione ambientale delle generazioni future a partire da oggi. A tale scopo, bisogna a mio avviso puntare su uno strumento che sia frutto di uno sforzo congiunto e si mostri solido e durevole nel tempo: l’introduzione dell’Educazione Ambientale come materia scolastica nella scuola primaria consentirebbe di gettare le basi per un corretto comportamento ambientale fin dall’infanzia ed introdurre una sapiente “gestione personale dei rifiuti” da parte delle nuove generazioni, dando loro l’opportunità di vivere in un mondo migliore.

 

Bibliografia

Furfari S., Il Futuro della Politica per l’Energia, in Interventi, nell’ambito della Summer School in Istituzioni e Politiche dell’Unione Europea, Regione Veneto 2010

ISPRA, Rapporto Rifiuti Urbani, Edizione 2009

Massarutto A., I rifiuti. Come e perché sono diventati un problema, Il Mulino 2009

Montalto M., con contributi di Pecoraro Scanio A. e Zanotelli A., La guerra dei rifiuti – da Korogocho a Napoli, Edizioni Alegre 2007

Noè G., a cura di Manzelli S., La nuova disciplina dei rifiuti – Trasporto, stoccaggio e smaltimento, Experta 2008

Sitografia[80]

Regione Veneto Piani e Programmi: http://www.regione.veneto.it/Ambiente+e+Territorio/Ambiente/Rifiuti+e+bonifica+siti+inquinati/Rifiuti/Piani+e+Programmi.htm

Regione Lombardia – Piano Regionale Gestione Rifiuti: http://www.ors.regione.lombardia.it/cm/pagina.jhtml?param1_1=N1201923917296892970

Regione Sicilia – Revisione del Piano di gestione 2010: http://www.regioni.it/upload/Revisione_Piano_di_gestione_14.10.2010%5B1%5D%5B1%5D.pdf

 

Normativa

Normativa comunitaria

Direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga le direttive

75/439/CEE, 91/689/CEE e 2006/12/CE;

Direttiva 2000/76/CE del 4 dicembre 2000, sull’incenerimento dei rifiuti;

Direttiva 1999/31/CE del 26 aprile 1999, relative alle discariche di rifiuti;

Direttiva 1996/61/CE del 24 settembre 1996, sulla prevenzione e la riduzione

integrate dell'inquinamento;

Direttiva 1991/156/CEE del 18 marzo 1991, che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti.

 

Normativa nazionale

D.lgs 16 gennaio 2008, n° 4;

D.lgs 3 aprile 2006, n° 152;

Legge 9 novembre 1988, n. 475.

Normativa regionale

Veneto – Legge Regionale 21 gennaio 2000, n° 3;

Lombardia – Legge Regionale 12 dicembre 2003, n° 26;

Sicilia – Legge Regionale 8 aprile 2010, n° 9.

 

 


[1] Infra Cap. V §1.1a.

[2] Art. 5, 1° comma, Direttiva 2008/98/CE.

[3] Massarutto A., I rifiuti. Come e perché sono diventati un problema, Il Mulino 2009, pag. 10.

[4] Art. 6, 1° comma.

[5] Art. 2, §11 Direttiva 96/61/CE.

[6] A seguito delle correzioni apportate dal D.lgs 16 gennaio 2008, n° 4.

[7] Infra Cap. V §2.

[8] Art. 199.

[9] Infra §4.

[10] Art. 199, 3° comma, lett. b).

[11] Lett. e).

[12] Art. 4, 1° comma, lett. h) L.R. 3/2000.

[13] Art. 202 T.u.

[14] Art. 7.

[15] Con l’introduzione dell’art. 206-bis.

[16] Si pensi ai 41 fusti contenti diossina dei quali si erano perse le tracce dopo il disastro di Seveso del ‘76, ritrovati in Francia otto mesi più tardi.

[17] Infra §5.2.2.

[18] Infra §5.2.1.

[19] Di cui in dettaglio all’Allegato V alla Direttiva per i gas di scarico.

[20] Attualmente riportata dall’art. 4 della Direttiva 2008/98/CE.

[21] Ai sensi dell’art. 29 della Direttiva 2008/98/CE.

[22] Di cui all’art. 3, 17).

[23] Infra § 1.2.1.

[24] Infra § 1.2.1.

[25] Supra §1.2.

[26] Di cui all’art. 15 della Direttiva 2008/98/CE.

[27] Supra §1.1.

[28] Supra §1.1.

[29] Già a partire dal D.lgs. 22/97.

[30] Art. 183 lett. ‘d’ e ‘bb’ D.lgs. 152/2006.

[31] 65% entro il 2012, supra.

[32] v. Cap. IV §6.

[33] Abrogata con effetto dal 12 dicembre 2010.

[34] relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio.

[35] Art. 4 Direttiva – supra, §1.1.

[36] Art. 3 punto 15.

[37] Supra Cap. II.

[38] I residui delle attività di recupero e smaltimento vengono infatti classificati dall’art. 184, 3° comma, lett. g) del T.u., come rifiuti speciali.

[39] Supra §5.1.

[40] Supra §1.

[41] Cap. III §1.

[42] Allegato III Direttiva 2008/98/CE.

[43] Art. 2. lett. e) Direttiva 1999/31/CE.

[44] Dal giorno della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee.

[45] Art. 11, 1° comma, lett. a).

[46] Punto 3. dell’Allegato II.

[47] art. 11, 1° comma, lett. b).

[48] art. 10.

[49] Comma 2.

[50] Comma 4.

[51] Comma 3.

[52] Ai sensi dell’art. 208 T.u. così modificato dall'art. 2, comma 29-ter, d.lgs. n. 4 del 2008.

[53] Comma 8.

[54] Comma 12.

[55] Comma 11.

[56] Comma 13.

[57] Comma 8.

[58] Supra §4.3.

[59] Comma 2.

[60] Cfr. Cap. V §3.2.

[61] Art. 1, 2° comma L.R.

[62] Supra Cap. V §1.1.

[63] Ai sensi dell’art. 2, 2° comma.

[64] Art. 15, 1° comma, lett. g).

[65] Supra Cap. IV §4.

[66] Art. 10, 1° comma, lett. g).

[67] Art. 8.

[68] Comma 3, lett. c).

[69] Art. 8, 2° comma.

[70] Art. 9, 2° comma.

[71] Art. 9, 7° comma.

[72] Art. 10, 2° comma L.R.

[73] Supra Cap. V §3.1.

[74] Dati del 2003.

[75] Come sancito dalla Direttiva 31/03/CE.

[76] Art. 200, 1° comma, lett. f) T.u.

[77] Art. 9, 4° comma, lett. a).

[78] Approvato con decreto del Ministero dell’Ambiente in data 11/04/2008.

[79] Art. 12 L.R.

[80] Siti consultati il 25/10/2010.