Verso una declinazione sostanziale del principio “chi inquina paga”: la responsabilità del gruppo societario  e dell’affittuario per la bonifica dei siti contaminati da terzi.

di Luca PRATI

 

Alcune recenti sentenze offrono l’occasione per svolgere una riflessione sui criteri da applicare per individuare l’esatta nozione di responsabile dell’inquinamento, propria anche della normativa in materia di bonifica dei siti contaminati, in relazione al noto principio “chi inquina paga” di matrice comunitaria.

La nozione sostanzialistica di impresa e la responsabilità del gruppo societario

Tra le predette sentenza va certamente segnalata la decisione del  TAR Abruzzo  (Sez. I, sentenza 30 aprile 2014, n. 204) che, nel respingere il ricorso di una impresa individuata quale responsabile della bonifica di un sito contaminato, ha affermato il principio secondo cui i responsabili dell’inquinamento devono essere individuati in coloro che hanno gestito gli impianti nel periodo antecedente a quello in cui l’inquinamento è stato rilevato e documentato, ovvero nel gruppo di cui faceva parte il soggetto diffidato, nelle varie denominazioni e organizzazioni proprietarie che si sono succedute.

In specie, il Collegio richiama il principio della prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, secondo cui per illeciti commessi dalle società operative la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazioni in misura tale da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse. In tal modo, ad avviso del Giudice Amministrativo, verrebbe garantito in modo più efficace l’applicazione del principio comunitario “chi inquina paga”

La decisione del TAR Abruzzo richiama anche un noto precedente del Consiglio di Stato (Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 6055) secondo cui nei provvedimenti contingibili e urgenti l’imputazione soggettiva degli obblighi di attivazione può seguire anche le diverse regole della successione c.d. “economica” “che consentono, per la migliore e immediata tutela di fondamentali interessi superindividuali, di derogare al generale principio della personalità e, in ossequio al canone del “chi inquina paga”, di onerare chi abbia beneficiato delle valenze economiche, anche latenti, di un bene-impresa dei correlativi costi dell’internalizzazione delle diseconomie esterne prodotte”.

Nell’affermare l’obbligo di ripristino e bonifica in capo a chi si è comunque giovato delle attività inquinanti, anche se per il tramite di società controllate, il giudice ha fatto propria la “concezione sostanzialistica” di impresa, elaborata dalla giurisprudenza comunitaria in materia di illeciti concorrenziali. Secondo detta giurisprudenza infatti deve essere affermata la prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, con la imputazione al gruppo della responsabilità per comportamenti tenuti dalle imprese facenti parte del gruppo medesimo.

Perché un gruppo di società possa costituire un’impresa unica ai fini di una imputazione di responsabilità è tuttavia necessario, secondo giurisprudenza comunitaria, che ricorrano alcune condizioni. La semplice partecipazione maggioritaria di una società nel capitale di un’altra non è sufficiente per comportare la costituzione di un’impresa unica. Secondo la giurisprudenza della Corte, è invece necessario anche che la società “figlia” «non decida in modo autonomo quale deve essere il suo comportamento sul mercato, ma applichi in sostanza le direttive impartitele dalla società madre» (Corte di Giustizia, sentenza de. 13.7.1972, 48–57/69, Materie coloranti; si veda anche Corte di Giustizia, sentenza del 31.10.1974, Sterling e Winthrop, 15/74 e 16/74.). Peraltro, se la partecipazione raggiunge la totalità o la quasi totalità del capitale, l’esercizio effettivo del controllo può essere presunto (Corte di Giustizia, sentenza del 25.10.1983, AEG-Telefunken).

Al ricorrere delle predette condizioni ne consegue che, nel caso di illeciti commessi da società operative controllate, la responsabilità si estende anche alle società madri con cui le società figlie abbiano un rapporto di dipendenza tale da escluderne una sostanziale autonomia decisionale.

Dall’applicazione del suddetto “principio sostanzialistico”, elaborato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di concorrenza, deriva una declinazione, solo parzialmente nuova, del principio “chi inquina paga”, ossia del principio secondo cui chi è autore di un fenomeno di inquinamento, o di deterioramento dell’ambiente, deve sostenere i costi necessari ad evitare o riparare l’inquinamento o il danno ambientale causato. Si tratta, come noto, di un principio riconosciuto dal Trattato U.E. (art. 174, comma 2), secondo cui l’azione comunitaria in materia ambientale deve essere informata ai principi di precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, e del principio “chi inquina paga”. Su detti principi si basa anche la disciplina comunitaria in materia di prevenzione e riparazione del danno all’ambiente (direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004).

Le predette applicazioni “sostanzialistiche” nell’individuazione dei responsabili e del principio chi inquina paga consentono di sviluppare diverse riflessioni relative ai criteri di imputazione da applicare per affermare obblighi di bonifica e/o di risarcimento del danno ambientale ai sensi delle previsioni del D. Lgs. 152/2006, derivate dalla trasposizione nell’ordinamento nazionale dei princìpi comunitari di precauzione, dell'azione preventiva e del "chi inquina, paga” (l’art. 3-bis del D. Lgs. 152/2006 prevede in modo espresso, tra i principi generali, il predetto principio).

Il concetto fondamentale espresso dalla concezione sostanzialistica sopra richiamata impone di non limitarsi, nell’accertamento delle responsabilità, all’individuazione “dell’autore materiale” della condotta di inquinamento, (in genere l’entità che conduce o ha condotto direttamente l’attività inquinante) ma di estenderlo a quei soggetti che hanno il controllo della fonte di inquinamento in virtù di poteri decisionali, o che rendono comunque possibile detta condotta in forza della posizione giuridica che rivestono all’interno dei rapporti con il diretto inquinatore.

Nell’ambito di tali situazioni il caso della casa madre che si avvale di società operative per svolgere l’attività di impresa è certamente quello più emblematico.

Il riconoscimento degli effetti giuridici che l’esistenza di un gruppo societario può determinare è stato a dire il vero per lungo tempo considerato in modo alquanto restrittivo dalla giurisprudenza nazionale, che ha spesso affermato, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, la sola rilevanza economica, e non anche quella giuridica, del gruppo di imprese.

Tuttavia anche in passato non sono mancate pronunce dirette ad estendere agli amministratori della società controllante (e quindi alla controllante stessa) le responsabilità formalmente riconducibili a quelli della controllata. E’ stato così affermato che la responsabilità della società controllante per concorso nell'illecito della controllata, ai sensi dell’art. 2043 c.c., può essere affermata quando la "mala gestio" degli amministratori di quest'ultima risulti ideata, voluta e diretta dalla controllante stessa, nel caso in cui, oltre all'esistenza di un rapporto di controllo ai sensi degli art. 2359 e ss. c.c., sussista un mandato "ad hoc" con attribuzione di incarichi ed incombenze secondo un piano predisposto dalla controllante e rimesso alla formale attuazione della controllata.

In questo quadro s’è venuta ad inserire la nuova disciplina dell’attività di direzione e coordinamento di società, che non è disciplina dei «gruppi» in quanto tali, ma ad essi si rivolge nella misura in cui l’elemento distintivo del «gruppo» rispetto alla semplice «aggregazione societaria» sia individuato nell’attività cd. di «direzione unitaria», ossia di gestione dell’insieme delle società da parte di un soggetto come se esse costituissero un’unità economica unica. Il D.Lgs. n. 6/2003 ha introdotto, nel titolo V (Delle società) del libro V del codice civile, un nuovo Capo IX rubricato «Direzione e coordinamento di società», prevedendo sette nuovi articoli (da 2497 a 2497–septies) con disposizioni in materia di responsabilità, pubblicità, motivazione delle decisioni, recesso, finanziamenti nell’attività di direzione e coordinamento, presunzioni e coordinamento di società.

Il principio secondo cui il vantaggio economico effettivo va considerato nell’attribuzione delle responsabilità ambientali è espresso anche dal Codice dell’Ambiente. Viene ad esempio in rilievo l’art.311 comma 3, del TUA, il quale, dopo avere affermato che nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale, precisa che “il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento”.

La norma è formulata in maniera pessima e involuta, sia in quanto richiama gli “eredi” senza menzionare i successori della persona giuridica (caso di gran lunga più frequente), sia in quanto limita l’effetto successorio “all’effettivo arricchimento” di questi ultimi; tuttavia, seppure in modo decisamente discutibile, esprime il principio (di portata assai più generale) secondo il quale il risarcimento ambientale deve gravare, in linea di principio, su chi ne abbia tratto un vantaggio economico.

Ad ogni modo, in forza dei principi espressi dal giudice amministrativo sopra ricordati, prima ancora delle norme in materia di direzione e coordinamento dei gruppi societari è la stessa nozione sostanzialistica di impresa a far sì che le responsabilità ambientali debbano essere allocate in capo ai soggetti che, nel corso degli anni, hanno tratto un utile dalle attività inquinanti, vuoi tramite la distribuzione di dividendi, vuoi, come accade più spesso, grazie al risparmio di spesa ottenuto tramite la mancata adozione di adeguati presidi ambientali.

Le responsabilità dell’affittuario e del soggetto cui competono doveri di controllo e informazione

L’estensione della responsabilità per l’inquinamento a soggetti diversi dal suo autore materiale non opera solo all’interno dei gruppi di imprese. Numerosi sono infatti i casi in cui l’autore materiale di una condotta inquinante non è affatto l’unico soggetto che trae un vantaggio economico dalla situazione che ha provocato l’inquinamento, così come diversi sono i casi di etero-direzione dell’attività dannosa che consentono una applicazione allargata del principio “chi inquina paga”.

Si pensi al caso, non infrequente, di una soggetto che abbia concesso in uso (ad esempio in locazione) un’area (magari neppure a destinazione industriale) successivamente risultata contaminata dalle attività che sono state ivi svolte dal conduttore e per la quale il proprietario abbia percepito canoni di locazione determinanti in ragione della natura delle attività svolte dal conduttore medesimo.

In questi casi, superando una concezione giuridica limitativa e puramente “materiale” dell’autore dell’inquinamento e abbracciando invece la nozione “sostanzialistica” espressa dalla giurisprudenza anche il locatore, in quanto soggetto che ha tratto un utile economico dall’attività inquinante, accettandone il rischio e omettendo i doversi controlli, ben può essere chiamato a rispondere di eventuali obblighi di bonifica o di risarcimento del danno ambientale.

Il principio è stato pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, la quale ha affermato che “Nel caso di affitto del bene a terzi, anche il proprietario resta responsabile allorché sia a conoscenza della pericolosità dell'attività svolta e dello stato di inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione” (Tar Veneto 1.3.2011 n.. 336).

Il principio è stato ribadito da successive decisioni giurisprudenziali, con riferimento al caso del proprietario affittante il fondo; il Giudice ha così ribadito il principio secondo cui “chi concede in uso - e dunque in mera detenzione - a terzi un terreno per lo svolgimento di un'attività pericolosa conserva una sfera di controllo sui bene medesimo, assumendo quantomeno un obbligo di verifica sull'operato del conduttore e una corresponsabilità nel ripristino ambientale finale onde rimuovere le cause di potenziale contaminazione” (TAR Veneto, Sez. 3^ , 28 ottobre 2014, n. 1347).

Più recentemente (TAR Marche, Sez. 1^, 6 marzo 2015, n. 190), la responsabilità del concedente in uso è stata affermata anche in relazione alla violazione di obblighi di informazione relativamente a notizie rilevanti di cui il proprietario concedente era conoscenza, nonché all’assenza di approfondimento che ci aspetta da un soggetto qualificato (nel caso di specie, un ente pubblico) proprietario di un’area potenzialmente inquinata che venga ceduta a terzi, riguardo alle informazioni e cautele che avrebbero potuto evitare l’evento inquinante poi verificatosi. La responsabilità per la bonifica è stata così affermata poter sussistere anche in forma omissiva, in ragione della presenza di un nesso di casualità tra l’omissione di obblighi di informazione e l’evento di inquinamento.

Il giudice ha evidenziato, richiamando la giurisprudenza della Cassazione, che “in tema di obblighi di custodia è stato sostenuto condivisibilmente in giurisprudenza che l'ente proprietario, nel caso in cui non vi sia stato il totale trasferimento a terzi del potere di fatto sull'opera, debba continuare ad esercitare la opportuna vigilanza ed i necessari controlli, non venendo meno il dovere di custodia e, quindi, nemmeno la correlativa responsabilità ex art. 2051 c.c., da cui si può liberare solo dando la prova del fortuito (Cass. Civ. 6.7.2006, n. 15383).

Le decisioni richiamate convergono sostanzialmente nel porre l’accento sugli obblighi di controllo e diligenza che continuano a gravare su soggetti che dispongano del proprio bene rendendolo disponibile a terzi per condotte pericolose sotto il profilo ambientale. L’analogia con l’affermata responsabilità delle “società madri”, che esercitano il controllo sulle società operative dirigendo l’attività unitaria dell’impresa, si coglie inequivocabilmente: la disponibilità del bene non consente di scindere la gestione economica dello stesso (anche se affidato in detenzione a terzi) dalla responsabilità ambientale connessa al suo cattivo uso. In termini pratici, chi trasferisce un bene a terzi per svolgervi attività potenzialmente inquinanti, ricavandone un utile economico, a determinate condizioni ben può e deve soggiacere all’applicazione del principio “chi inquina paga”. Ciò accadrà con maggiore probabilità in tutti quei casi in cui il sito sia stato consapevolmente destinato ad attività ab origine incompatibili con la sua vocazione (tipico il caso in cui un immobile a destinazione residenziale venga locato per usi industriali) o, ancora, quando la pericolosità ambientale dell’attività fosse evidente al locatore. Permarrà infatti, in quest’ultimo caso, “una sfera di controllo sui bene medesimo” che, per usare le parole del Giudice amministrativo, comporta “quantomeno un obbligo di verifica sull'operato del conduttore” (TAR Veneto, Sez. 3^ , 28 ottobre 2014, n. 1347).



Luca Prati