Cass.Pen. Sez. III n. 36580 del 4 settembre 2023 (CC 17 mag 2023)
Pres. Ramacci Rel. Mengoni Ric. D’Ambra
Urbanistica.Condono e limiti della sanatoria

Il chiaro tenore dell’art. 39, l. n. 724 del 1995, consente la sanatoria delle sole opere ultimate che possedessero, alla data indicata del 31/12/1993, i requisiti da essa previsti, non essendo ovviamente consentito intervenire successivamente sugli immobili abusivi per renderli conformi alla disciplina in parola. Le uniche possibilità di successivo intervento sugli stessi, non incompatibili con la sanatoria, sono quelle previste dall'art. 35, comma 14, l. 47 del 1985 (che disciplina modesti lavori di rifinitura delle opere abusive) e dall'art. 43, quinto comma, della stessa legge, che consente le opere strettamente necessarie a rendere gli edifici funzionali qualora i manufatti non siano stati completati per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali.


RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 20/10/2022, il Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, quale giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta di sospensione dell’ordine di demolizione avanzata da Maria Cristina D’Ambra con riguardo ad un immobile oggetto della sentenza emessa il 26/11/1998 dalla Pretura circondariale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, irrevocabile.
2. Propone ricorso per cassazione la D’Ambra, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- inosservanza ed erronea applicazione legge penale e di altre norme giuridiche. Premessa una più che ampia ricostruzione dell'intera vicenda, sviluppata su 46 pagine, dall'esecuzione delle opere nel marzo 1985 all'ordinanza del Tribunale di Napoli del 2022 qui impugnata, si lamenta che lo stesso Giudice dell’esecuzione non avrebbe valutato affatto l’avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, da parte del Comune di Forio, con determina n. 1180 del 24/8/2022; questo provvedimento presupporrebbe l'esistenza dell'opera già al 31/12/1993 e, dunque, la piena condonabilità della stessa, quel che dunque avrebbe imposto al Giudice di procedere ad un nuovo esame dell'intera documentazione in atti al fine di accertare l'epoca di realizzazione del manufatto, con ogni effetto quantomeno sulla richiesta di sospensione dell'ordine di demolizione. Il Giudice dell’esecuzione, per contro, si sarebbe limitato a ribadire il contenuto di precedenti provvedimenti, anteriori all'agosto 2022, individuando l'epoca di esecuzione con richiamo a circostanze non supportate da alcuna indagine e sostenute apoditticamente dalla Procura della Repubblica;
- violazione di legge per manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione rispetto al rigetto dell’istanza di condono. Ribadendo gli argomenti a fondamento del motivo precedente, si lamenta che il Giudice avrebbe rigettato l’istanza senza procedere ad un serio ed effettivo esame della vicenda e senza alcuna istruttoria, negando l’ultimazione delle opere al 31/12/1993 con motivazione gravemente viziata e senza tener conto dell'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica. L’ordinanza, in particolare, non avrebbe valutato che il manufatto sarebbe risultato ultimato al rustico già alla data del primo accesso (30/3/1995) e che il giorno seguente sarebbe stata presentata domanda di sanatoria; contrariamente a quanto si legge nello stesso provvedimento, peraltro, la ricorrente non avrebbe mai inteso chiedere la sanatoria per i successivi e modesti lavori di completamento, che, anzi, avrebbe chiesto di eliminare per “salvare il condono del manufatto al grezzo”. Il Giudice, tuttavia, non avrebbe considerato questa intenzione, così negando al cittadino una possibilità di ravvedersi, invece ammessa in molti altri ambiti;
- l’ordinanza impugnata, ancora, sarebbe viziata con riguardo al silenzio-rifiuto che il Tribunale avrebbe riconosciuto da parte della Soprintendenza, in contrasto con la normativa passata e presente. Infatti, l’art. 146, d. lgs. n. 42 del 2004, nel testo vigente fino al 2015, avrebbe previsto il cd. silenzio devolutivo (nel senso che, decorso inutilmente il termine assegnato alla Soprintendenza, il Comune avrebbe avuto il dovere di decidere autonomamente e provvedere sulla domanda), diverso dal silenzio-assenso; la giurisprudenza amministrativa, peraltro, avrebbe affermato che la scadenza del termine per il parere (45 giorni) non avrebbe consumato il potere della Soprintendenza, ma ne avrebbe solo escluso la sua efficacia vincolante, relegandolo a parere obbligatorio. La l. n. 124 del 2015, poi, avrebbe introdotto nella l. n. 241 del 1990 l’art. 17-bis, stabilendo – quanto al rapporto “orizzontale” tra le amministrazioni (come tra Comune e Soprintendenza) – il principio cardine del silenzio-assenso, da applicare in termini generali, dunque anche nel caso di specie, come affermato pure dalla Corte costituzionale (sent. n. 160 del 2021); in questi casi, allora, il parere tardivo sarebbe nullo, in quanto il potere di co-decisione si sarebbe ormai consumato. L’art. 17-bis in esame, dunque, si applicherebbe anche al procedimento di cui all’art. 146, d. lgs. n. 42 del 2004, come peraltro affermato anche dalla giurisprudenza amministrativa;
- infine, si censura la motivazione dell’ordinanza quanto al principio di proporzionalità, invocato per la sospensione della procedura demolitoria, la cui violazione sarebbe stata negata con argomento palesemente carente, specie a fronte della chiara volontà della ricorrente di eliminare gli abusi successivi alla domanda di condono del grezzo, per continuare ad utilizzare l’immobile come alloggio familiare. Nessuna effettiva considerazione, infine, avrebbero avuto le gravi condizioni personali ed economiche della stessa D’Ambra, pur documentate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso risulta del tutto infondato; gli argomenti che lo sostengono, infatti, hanno trovato ampio e ragionato sviluppo nell’ordinanza impugnata, che li ha rigettati con una motivazione congrua, priva di carenze o di illogicità manifeste. Deve essere sottolineato, peraltro, il tono palesemente polemico che permea l’impugnazione in ogni suo passaggio, con ripetuto utilizzo di espressioni non consone ad un atto difensivo ed inutilmente volte a colorarne il contenuto (come il continuo uso del verbo “sproloquiare”, riferito al Giudice; il richiamo all’assenza di un “serio esame dell’intera pratica” o al Giudice che si sarebbe pronunciato “ex cathedra”, seguendo un “teorema”; al Giudice, ancora, “tutto chiuso nel suo giustizialismo di potere applicativo di principi e riferimenti giurisprudenziali sbandierati…evidentemente fuori da ogni realtà”).
4. Con riguardo poi al merito, ed in primo luogo all’epoca di ultimazione dell’immobile, ripetutamente evocata nel ricorso, occorre rilevare che la questione è stata già affrontata da questa Corte, con la sentenza n. 4175 del 28/1/2022, e la sua riproposizione non è qui sostenuta da alcun elemento di novità. In particolare, la Quarta sezione ha affermato che il Giudice dell’esecuzione “accertava che alla data del 31.12.1993, termine massimo stabilito dalla legge 724/1994 avente ad oggetto il condono, il manufatto abusivo non era ultimato nemmeno al "rustico" e ciò proprio sulla base della relazione dell'Ing. Buono Raffaele che ha evidenziato come dai verbali di ispezione redatti nel 1995 dalla Polizia Municipale risultava che l'opera abusiva consisteva in muri perimetrali in celloblok, solaio ancora puntellato e senza massetto; solo successivamente, a seguito della violazione dei sigilli apposti in sede di sequestro giudiziario, fu realizzato il completamento del fabbricato con la pavimentazione e la tettoia di mq 10, costituita da pali in legno, copertura di legno e tegole.”
4.1. Questa considerazione è stata poi ripresa nell’ordinanza qui impugnata, nella quale, contestandosi l’assunto difensivo che relegherebbe al 1985 l’esecuzione dell’abuso, è stato evidenziato che al 31/3/1995 - data di protocollo della domanda di condono ex lege n. 23 dicembre 1994, n. 724 - il fabbricato non era ancora ultimato “al rustico”: dalla descrizione delle opere da sanare - per come contenuta nella stessa istanza - si evinceva, infatti, che “l’opera presentava caratteristiche tipologiche, strutturali e plano-volumetriche completamente diverse da quelle che sarebbero state rilevate dalla polizia locale di Forio in occasione del primo sequestro del 30 maggio 1995 e che, sicuramente, non erano assimilabili alla nozione di “ultimazione al rustico”. In particolare, si trattava di costruzioni ancora sprovviste, almeno in parte, della copertura latero-cementizia che la polizia municipale avrebbe scoperto, per l'appunto, soltanto il 30/5/1995, e riferito all'intero manufatto di 41 mq. Lo stesso fabbricato, peraltro, ancora al 31/3/1995 non era neppure interamente tompagnato, come poteva agevolmente ricavarsi dalle fotografie allegate alla domanda di condono, “rappresentative di un'opera fatiscente, con coperture precarie, interamente aperta su almeno due lati.”
4.2. Alla luce di tali elementi di merito, che questa Corte non è ammessa a verificare ulteriormente, l'ordinanza ha quindi rilevato che proprio dal raffronto tra lo stato di fatto riscontrato il 30/5/1995 e la descrizione giurata fornita dalla parte il 31/3/1995 (unitamente alle fotografie allegate alla domanda di condono) emergeva con chiarezza che l'opera era stata “ultimata” (con il completamento delle tompagnature in celloblock e l'ultimazione del solaio in materiale latero-cementizio) nel periodo compreso tra il 31 marzo ed il 30 maggio 1995. Successivamente (come da sopralluoghi del 24/6/1995 e 7/7/1995), erano stati quindi accertati una pavimentazione ed una tettoia in legno di 10 mq., previa violazione dei sigilli. Con la conclusione, dunque, che non poteva essere accolta l'istanza di sospensione dell'ordine di demolizione, a fronte di una domanda di condono gravata da una prognosi radicalmente non favorevole, perché riferita ad un manufatto realizzato oltre i limiti temporali previsti dalla legge e, dunque, obiettivamente non sanabile.
5. Premesso il carattere assolutamente dirimente di questo argomento, l’ordinanza ha comunque poi trattato un altro profilo a più riprese richiamato nel ricorso, e relativo all'intenzione della ricorrente di eliminare dall'opera alcuni interventi, successivi all’accertamento del 31/3/1995, così riportando il manufatto nell'alveo della condonabilità. Ebbene, il Giudice dell'esecuzione ha correttamente evidenziato che un tale intento non varrebbe, in ogni caso, a modificare la prognosi negativa sull'esito della pratica amministrativa, ma - in senso contrario - aggiungerebbe un ulteriore profilo di illegittimità ad un eventuale, emanando provvedimento di condono.
5.1. Richiamando la costante giurisprudenza di legittimità, qui ancora da ribadire (tra le altre, Sez. 3, n. 43933 del 14/10/2021, Medusa, non massimata), l’ordinanza ha sottolineato che il chiaro tenore dell’art. 39, l. n. 724 del 1995, consente la sanatoria delle sole opere ultimate che possedessero, alla data indicata del 31/12/1993, i requisiti da essa previsti, non essendo ovviamente consentito intervenire successivamente sugli immobili abusivi per renderli conformi alla disciplina in parola. Le uniche possibilità di successivo intervento sugli stessi, non incompatibili con la sanatoria, sono quelle previste dall'art. 35, comma 14, l. 47 del 1985 (che disciplina modesti lavori di rifinitura delle opere abusive) e dall'art. 43, quinto comma, della stessa legge, che consente le opere strettamente necessarie a rendere gli edifici funzionali qualora i manufatti non siano stati completati per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali (per analoghi rilievi cfr., nella giurisprudenza amministrativa, Cons. St., sent. n. 665 del 01/02/2018). Ebbene, il Giudice dell’esecuzione – con argomento in fatto non censurabile (e non contestato nel ricorso) – ha rilevato che nessuna di queste ipotesi ricorreva nel caso di specie.
5.2. Ancora, e sempre in adesione alla giurisprudenza di legittimità, la stessa ordinanza ha ben evidenziato che ammettere lavori - sia pur di demolizione - che modifichino il manufatto abusivo, alterandone significativamente la struttura e riducendone la volumetria, al fine di rendere sanabile, dopo la scadenza del termine finale stabilito dalla legge per la condonabilità delle opere, ciò che certamente allora non lo sarebbe stato, costituisce un indebito aggiramento della disciplina legale, poiché sposta arbitrariamente in avanti nel tempo il termine finale previsto dalla legge per ottenere il condono edilizio, addirittura legittimando ulteriori interventi abusivi. Così da escludersi - con argomento evidentemente solido e privo di illogicità manifeste - che alla ricorrente sia stata ingiustamente preclusa una possibilità di ravvedimento, che invece sarebbe consentita dall'ordinamento in molte altre situazioni, come invece si afferma nel ricorso senza un effettivo confronto con l'argomento utilizzato dal Giudice dell'esecuzione.
6. Con riguardo, poi, al secondo profilo che ampiamente sostiene il ricorso, ossia l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Forio il 24/8/2022, il Collegio ne rileva ancora la palese infondatezza.
6.1. Sul punto, occorre premettere che l’autorizzazione era stata rilasciata in assenza del parere della Soprintendenza, non espresso nel termine di legge; ne deriverebbe, allora, per come affermato dall’amministrazione locale, la formazione del silenzio-assenso.
Ebbene, questa conclusione – correttamente contestata nell’ordinanza – non può essere accolta, come peraltro già rilevato dalla giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Sez. 3, n. 10799 del 20/11/2018, Pollio, Rv. 275142).
6.2. E’ vero, come afferma la ricorrente, che il Consiglio di Stato, con ampia motivazione, ha ritenuto di dover concludere nel senso che, in forza delle previsioni contenute nei commi da 8 a 10 dell'art. 146 d.lgs. n.42 del 2004 - nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dall'articolo 25, comma 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 - in caso di infruttuoso decorso del termine per l'espressione del parere ai sensi del comma 8 del citato art. 146, la soprintendenza non resti privata del potere di esprimere comunque un parere (in particolare, nell'ambito della conferenza di servizi che tale legislazione prevedeva al successivo comma 9), ma il parere in tal modo espresso perde il proprio carattere di vincolatività e dev'essere autonomamente e motivatamente valutato dall'amministrazione procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso (così, Cons. Stato, VI, 27 aprile 2015, n. 2136).
6.3. Il Collegio, tuttavia, osserva che l’indirizzo sull'interpretazione dell'art. 146 d.lgs. 42 del 2004, invocato in ricorso, non rileva nel caso di specie, in quanto la stessa disciplina normativa non trova applicazione (al pari, peraltro, dell’art. 17-bis, l. n. 241 del 1990, citato dalla parte, che regola – in termini generali – il silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra queste e gestori di beni o servizi pubblici). L'art. 146 d.lgs. 42 del 2004 - come è fatto palese dal suo chiaro contenuto – regola, infatti, il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica preventiva rispetto ad interventi sui beni oggetto della speciale protezione, e l'iter ivi delineato può semmai estendersi al rilascio delle autorizzazioni in sanatoria previste dallo stesso d.lgs. n. 42 del 2004 e, in via analogica e soltanto in quanto applicabile, agli altri casi di sanatoria previsti da diverse disposizioni di legge. Essa, però, certamente non vale in toto laddove esista una disciplina speciale di maggior rigore, quale quella prevista dalla legge sul condono edilizio nel caso di specie applicabile, ossia la l. 23 dicembre 1994, n. 724.
6.4. In particolare, l'art. 32, l. n. 47 del 1985 - quale sostituito dall'art. 32, comma 43, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni. dalla l. 24 novembre 2003, n. 326 - rubricato “opere costruite su aree sottoposte a vincolo” e richiamato dall'art. 39, l. 724 del 1994, al primo comma prevede, per quanto qui interessa, che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere non venga formulato dalle suddette amministrazioni entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto». Il successivo quarto comma della disposizione specifica che, «ai fini dell'acquisizione del parere di cui al comma 1 si applica quanto previsto dall'articolo 20, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. Il motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, ivi inclusa la soprintendenza competente, alla tutela del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria».  
6.5. Nell'ambito del procedimento per il rilascio del provvedimento in sanatoria previsto dalla legge sul condono edilizio, dunque, il legislatore, da un lato, ha ritenuto di concedere alla Soprintendenza uno spatium deliberandi più ampio (180 giorni, anziché 45), d'altro lato ha previsto che il decorso del termine valga quale silenzio-rifiuto impugnabile in sede di giustizia amministrativa, specificando, senza possibilità di deroghe, che il parere sfavorevole espresso dalla stessa soprintendenza preclude il rilascio del titolo in sanatoria. Tale disciplina, ben diversa da quella delineata nell'art. 146 d.lgs. 42 del 2004, trova giustificazione alla luce del differente contesto e dei beni che vengono in rilievo: se, infatti, può essere ragionevole consentire di superare l'inerzia della Soprintendenza laddove la stessa, non pronunciandosi nel termine, rischi di bloccare l'iniziativa del privato che abbia scrupolosamente seguito il preventivo iter previsto, sottoponendolo ad un ingiusto aggravio procedimentale, ben si giustifica un più rigoroso regime laddove si tratti di sanare un illecito commesso, onerando il trasgressore che voglia avvantaggiarsi degli effetti della sanatoria di un più gravoso procedimento, che consenta in ogni caso di pervenire ad un effettivo vaglio di compatibilità paesaggistica dell'opera abusiva da parte dell'autorità preposta alla gestione del vincolo.
6.6. Richiamando proprio questi principi, costantemente ribaditi (tra le altre, Sez. 3, n. 10152 del 1°/2/2023, Calise; Sez. 3, n. 388 dell’8/11/2022, Chiocca, non massimate), l’ordinanza ha quindi correttamente concluso che il silenzio serbato dalla Soprintendenza non poteva assumere – come invece ritenuto dall’amministrazione comunale – il valore di assenso, bensì quello di rifiuto, impugnabile in sede amministrativa.
7. Con riguardo, infine, al requisito della proporzionalità, la cui inosservanza legittimerebbe la sospensione della procedura demolitoria, il Collegio evidenzia ancora la manifesta infondatezza del ricorso.
7.1. L’ordinanza impugnata, dopo aver ampiamente richiamato la giurisprudenza interna e convenzionale sul punto, ha sottolineato che l’immobile in esame era stato realizzato - oltre che in assenza di titoli abilitativi – in violazione di plurime disposizioni penali (reato urbanistico, reato paesaggistico e violazione dei sigilli). Particolarmente significativa, poi, era stata considerata la circostanza che i lavori fossero proseguiti anche dopo il 30/5/1995, così vanificando l'utilità di eventuali istanze di condono. Ancora, il Giudice ha rilevato che la ricorrente si era potuta avvalere di plurimi e specifici rimedi giurisdizionali per sostenere le proprie ragioni e che aveva avuto a disposizione moltissimo tempo per individuare altre sistemazioni abitative, senza peraltro documentare alcuna specifica impossibilità. A tale riguardo, l'ordinanza ha evidenziato che la D’Ambra non aveva provato di essersi attivata per cercare, ad esempio, un alloggio di tipo residenziale pubblico; il riferimento ai modesti redditi familiari, peraltro, era stato prospettato solo in termini generali, tali da non giustificare compiutamente l'impossibilità di accesso ad altre soluzioni abitative. Ancora sul punto, il Giudice ha confermato che la ricorrente aveva dedotto e provato una condizione personale e familiare precaria, ma ha anche aggiunto - con argomento in fatto che questa Corte non è ammessa a censurare - che tale situazione non appariva assolutamente incompatibile con la possibilità di reperire un altro alloggio. Non era stato chiarito neppure, con precisione, se l'esigenza abitativa fosse da ritenere riferita alla propria persona o alla figlia separata. Peraltro, anche a voler ammettere che le condizioni reddituali della donna e della sua famiglia fossero palesemente inidonee a sostenere le spese di una locazione, si doveva comunque constatare che la stessa non aveva provato di aver attuato, con la dovuta diligenza e con ragionevole tempestività, tutti gli sforzi necessari per trovare un altro immobile.
7.2. Questa inerzia è stata poi particolarmente valorizzata, in termini negativi, alla luce del lunghissimo lasso temporale di riferimento: la ricorrente, infatti, aveva presentato istanza di condono nel 1995 e “patteggiato” la pena nel 1998, ma ciononostante – e, dunque, nella piena consapevolezza dell'illecito compiuto e dell'ordine di demolizione - non si era mai attivata nel senso suddetto.
7.3. Alla luce di questi elementi in fatto, l’ordinanza ha quindi confermato il requisito della proporzionalità della misura. In conformità, dunque, al consolidato indirizzo per cui, ai fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità, un rilievo centrale assumono, da un lato, l'eventuale consapevolezza della violazione della legge nello svolgimento dell'attività edificatoria da parte dell'interessato, stante l'esigenza di evitare di incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell'ambiente e, dall'altro, i tempi intercorrenti tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l'attivazione del procedimento di esecuzione, per consentire all'interessato di "legalizzare", se possibile, la situazione, e di trovare una soluzione alle proprie esigenze abitative (tra le altre, Sez. 3, n. 7127 del 19/1/2022, Palamaro, non massimata). Inoltre, ai fini del giudizio circa il rispetto del principio di proporzionalità, sono sicuramente rilevanti le condizioni di età avanzata, povertà e basso reddito dell'interessato; queste condizioni, però, non risultano mai essere considerate, di per sé sole, risolutive, o perché valutate congiuntamente ai tempi intercorrenti tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l'attivazione del procedimento di esecuzione o perché esplicitamente ritenute recessive in caso di consapevolezza dell'illegalità della edificazione al momento del compimento di tale attività e di concessione di adeguati periodi di tempo per consentire la regolarizzazione, se possibile, della situazione, e per trovare una soluzione alle esigenze abitative. Pertanto, per quanto non sufficienti per evitare la demolizione della propria abitazione, le condizioni personali dell'interessato non possono essere ignorate dal giudicante ma, al contrario, soppesate e devono trovare sede nella motivazione del suo provvedere; esattamente quanto il Giudice dell’esecuzione ha fatto nel provvedimento impugnato, con motivazione non censurabile.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 5.000,00; a tale riguardo, rileva il tono del ricorso, eccessivamente polemico nei termini sopra richiamati e, dunque, da censurare.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro cinquemila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 maggio 2023