Consiglio di Stato Sez. II n. 5423 del 23 giugno 2025
Urbanistica.Altezze degli edifici
I limiti alle altezze degli edifici devono essere ancorati a dati certi e oggettivi ricavabili dalla situazione dei luoghi anteriore agli interventi e, in linea generale, il computo della misura entro la quale è consentita l’edificazione, va effettuato prendendo come parametro l’originario piano di campagna, cioè il livello naturale del terreno di sedime e non la quota del terreno sistemato, salvo normative regolamentari espresse, nella specie per giunta mancanti. Ciò risponde ad una esigenza pratica, prima ancora che a una considerazione giuridica: la norma tecnica, in caso di terreno connotato da dislivelli che necessariamente determinerebbero, a seconda del punto che si assume per la misurazione, dati di altezza diversi, per scongiurare tali divergenze individua il punto interno all’edificio da cui far passare l’asse oggetto di misurazione (baricentro) ragguagliandolo al “piano naturale di campagna”, che viene determinato per interpolazione tra i diversi livelli del terreno esterno all’edificio.
Pubblicato il 23/06/2025
N. 05423/2025REG.PROV.COLL.
N. 04263/2024 REG.RIC.
N. 04346/2024 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4263 del 2024, proposto dal signor Mario Frè, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandro Grigoletto, Angelo Ravizzoli e Rossana Colombo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio dichiarato presso lo studio del secondo in Milano, piazza Grandi, n. 4;
contro
la signora Pierrette Monteggia, rappresentata e difesa dall’avvocato Leonardo Salvemini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
del Comune di Laveno Mombello, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
sul ricorso numero di registro generale 4346 del 2024, proposto dal Comune di Laveno Mombello, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Emanuele Boscolo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
la signora Pierrette Monteggia, rappresentata e difesa dall’avvocato Leonardo Salvemini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
dei signori Mario Frè e Alessandro Frè, non costituiti in giudizio;
per la riforma
in entrambi i ricorsi della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, sez. IV, 28 marzo 2024, n. 938, resa tra le parti.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio in entrambi i procedimenti della signora Pierrette Monteggia;
Visti tutti gli atti della causa;
Vista l’istanza di passaggio in decisione senza previa discussione orale presentata dalla signora Pierrette Monteggia e dal Comune di Laveno Mombello;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 6 maggio 2025, il Cons. Antonella Manzione e udito per l’appellante l’avvocato Giovanni Muzi, in sostituzione degli avvocati Alessandro Grigoletto, Angelo Ravizzoli e Rossana Colombo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La vicenda trae origine dai rilievi mossi dalla signora Pierrette Monteggia, proprietaria di un fondo vicino a quello del signor Mario Fré nel territorio del Comune di Laveno Mombello, all’avallo della s.c.i.a. con la quale quest’ultimo ha recuperato il sottotetto della propria abitazione, benché secondo la stessa l’intervento in sopraelevazione non sarebbe stato possibile in base al regime urbanistico di zona. In particolare, ridetti rilievi venivano formalizzati in un esposto/denuncia datato 31 luglio 2020 con il quale veniva chiesta la verifica della regolarità dei lavori in questione, riscontrato formalmente dal Comune con una nota del 24 agosto 2020, esplicativa delle ragioni della ritenuta regolarità delle opere e della conseguente non necessità di andare a rivedere gli effetti delle s.c.i.a.
2. Per una più agevole comprensione dei fatti di causa, come risultanti dalla documentazione presente nel fascicolo d’ufficio e dagli scritti difensivi e non specificamente contestati dalle parti, occorrono alcune precisazioni aggiuntive.
2.1. L’immobile oggetto dell’intervento, ubicato in via frazione Monteggia, n. 1, del Comune di Laveno Mombello, è stato edificato sulla base di un nulla osta del Sindaco, n. 21 del 2 marzo 1964, e successivamente ampliato, rendendone abitabile un piano in parte interrato, in forza di concessione edilizia n. 59 del 28 aprile 1992, non fatta oggetto a tempo debito di alcun gravame. Il recupero del sottotetto in controversia, con sopraelevazione che l’appellata ritiene inammissibile sulla base della corretta lettura delle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del vigente Piano di governo del territorio (P.G.T.), è stato effettuato sulla base di due s.c.i.a. alternative a permesso di costruire ex art. 23 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, delle quali la seconda in variante della prima, contrassegnate rispettivamente dal n. 40 del 13 febbraio 2019 e 371 del 22 ottobre 2019.
2.2. Nel ricordato esposto del 31 luglio 2020, la signora Monteggia invitava il Comune ad assumere le iniziative di competenza per il ripristino dello stato dei luoghi sull’assunto che l’edificio non poteva subire incrementi in altezza giusta le previsioni in materia di recuperi di sottotetti contenute negli artt. 63 e seguenti della legge regionale Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, che li consentono solo nei casi in cui lo stato di fatto di partenza rientri nelle indicazioni urbanistiche di zona. Il Comune, dunque, avrebbe errato nell’ “accettare” le s.c.i.a., stante che, ove avesse correttamente calcolato l’altezza di partenza del fabbricato sulla base della effettiva quota naturale del piano di campagna circostante, gli interventi avrebbero dovuto essere qualificati come nuova costruzione e non ristrutturazione. L’errore di fondo nascerebbe dal non aver tenuto conto dello sbancamento effettuato nel 1992, quando sulla base della concessione n. 59 era stato “portato alla luce” un ulteriore livello venuto ad aggiungersi ai due piani originari dell’abitazione.
2.3. La comunicazione prot. n. 11426 del 24 agosto 2020 del Comune di Laveno Mombello, oltre a richiamare gli ulteriori titoli legittimanti l’intervento (ovvero due autorizzazioni paesaggistiche, n. 25 del 22 ottobre 2018 e n. 25 del 15 ottobre 2019), ne ha difeso la legittimità, precisando di ritenere che «[…] l’altezza dell’edificio esistente rientri nei limiti previsti dall’art. 20 del PR-0 del vigente P.G.T., sia osservando le verifiche del professionista nella segnalazione certificata di inizio attività, sia riprendendo l’esatto profilo del terreno originario riportato nel Nulla osta n. 21/1964».
3. La signora Pierrette Monteggia ha impugnato tale nota con ricorso al T.a.r. per la Lombardia, Milano, n.r.g. 1748 del 2020, chiedendone l’annullamento con conseguente affermazione dell’obbligo del Comune di rieditare il proprio potere adottando gli atti sanzionatori conseguenti all’accertamento del segnalato abuso edilizio, ovvero, in denegata ipotesi, avanzando istanza di risarcimento del danno a suo dire correlato alla perdita di visuale sul lago da parte della propria abitazione e chiedendone la liquidazione in via equitativa.
4. Il Tribunale adito, nella resistenza del Comune di Laveno Mombello e del signor Mario Frè, con la sentenza n. 938 del 2024, segnata in epigrafe, ha accolto il ricorso, compensando tra le parti le spese di lite.
4.1. In termini generali, ha riconosciuto alla ricorrente il possesso di legittimazione ed interesse ad agire, ravvisando quest’ultimo nella ricordata perdita di veduta conseguita alla sopraelevazione dell’edificio di controparte, che ha ritenuto di trarre dalla documentazione fotografica versata in atti. Ha ricondotto il procedimento sfociato nella nota impugnata ad esercizio da parte del Comune di autotutela sulle segnalazioni certificate di inizio attività utilizzate per l’effettuazione delle opere, promossa a seguito di istanza di terzo interessato avanzata nel rispetto delle tempistiche di cui all’art. 19, comma 4, della l. 7 agosto 1990, n. 241, valorizzando altresì il contenuto della denuncia, che non era volta a compulsare l’attivazione di poteri inibitori, ma a richiedere gli «opportuni accertamenti» finalizzati a verificare che i lavori contestati «godano di tutte le autorizzazioni previste ai sensi di legge». Il dies a quo per il computo dei 18 mesi previsti dall’art. 21-novies della medesima l. n. 241 del 1990 nella versione applicabile ratione temporis, peraltro, andrebbe calcolato dalla data di scadenza del termine previsto per l’ordinario potere di verifica, come espressamente sancito dall’art. 2, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, il che rende tempestiva l’istanza sia in relazione ai controlli sulla s.c.i.a. del 13 febbraio 2019, che a quelli sulla successiva in variante del 22 ottobre 2019. L’avvenuta proposizione del ricorso avverso il provvedimento di diniego dell’autotutela richiesta, che in quanto lesivo della posizione dell’interessata ben le consentiva l’impugnazione negli ordinari termini di decadenza (Cons. Stato, sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737), avrebbe “congelato” esclusivamente per la stessa, in quanto denunciante, gli effetti preclusivi dello spirare del termine nelle more della definizione del giudizio, mantenendone in vita l’interesse pretensivo alla - corretta - pronuncia della p.a. (v. Cons. Stato, sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006).
4.2. Nel merito, ha ritenuto fondate le censure afferenti l’errata interpretazione che il Comune avrebbe dato al concetto di “piano naturale di campagna” su cui parametrare il calcolo dell’altezza del fabbricato. La corretta lettura dell’art. 7, lett. q), delle N.T.A. del Piano di Governo del Territorio, lacunoso in relazione alla situazione orografica tipica del territorio de quo, connotato da plurimi dislivelli, imponeva infatti di includere nel calcolo della quota media baricentrica dell’edificio «[…] anche il piano di campagna relativo ai locali “seminterrati” (che, come visto, tali non sono). Pertanto, lo stato “esistente” del fondo al momento in cui è stata depositata la DIA del 2019 per la trasformazione del sottotetto è quello risultante concretamente in rerum natura e non quello ricavabile in una prospettiva “storica”, cioè lo stato del fondo così come stabilmente modificato – o, secondo la prospettiva delle parti intimate, già esistente nella sua configurazione – dall’attività di trasformazione edilizia autorizzata e realizzata nel 1992». Ciò in quanto «non può essere considerata ai fini del calcolo dell’altezza dell’edificio soltanto la modifica del piano di campagna che sia stata progettata o eseguita in vista dell’intervento da realizzare, per evitare comportamenti opportunistici della parte o soluzioni in contrasto con le esigenze di omogeneità e certezza giuridica cui tende la regolamentazione urbanistico-edilizia».
4.2.1. Da qui il venir meno del presupposto della valutazione positiva delle s.c.i.a. da parte dell’amministrazione, ovvero la circostanza che «l’altezza dell’edificio esistente rientri nei limiti previsti dall’art. 20 del PR-0 del vigente P.G.T.».
5. Avverso tale sentenza hanno proposto due autonomi appelli il signor Mario Frè (n.r.g. 4263/2024) e il Comune di Laveno Mombello (n.r.g. 4346/2024), entrambi articolando tre distinti motivi di gravame, sovrapponibili per sistematica e omogeneità contenutistica, ancorché il secondo arricchito da un maggior numero di eccezioni e di argomentazioni, delle quali si darà via via conto.
6. Con il primo ordine di motivi, hanno lamentato l’attribuzione alla ricorrente in primo grado di legittimazione e interesse ad agire, stante che in realtà la stessa avrebbe dato prova solo della vicinitas, ex se insufficiente allo scopo. La presunta perdita di visuale sul lago non era infatti desumibile dalla scarna documentazione fotografica versata in atti, neppure utile a fini di comparazione fra stato dei luoghi prima e dopo l’intervento giusta la differenza di angolo visuale dal quale sono tratte le singole immagini. In assenza inoltre di una vera e propria servitù di veduta, non si comprenderebbe su cosa potrebbe basarsi la (presunta) menomazione della posizione giuridica di controparte.
6.1. Col secondo ordine di motivi hanno invece rimarcato l’errata interpretazione del combinato disposto degli artt. 19 e 21-novies della l. n. 241 del 1990, che riconosce sì al terzo controinteressato la facoltà di compulsare i controlli dell’amministrazione sui procedimenti dichiarativi, ma non prevede la sospensione della decorrenza del termine di effettuazione degli stessi in ragione dell’avvenuta presentazione di una semplice istanza mirante allo scopo. Del tutto inconferente sarebbe poi il richiamo giurisprudenziale contenuto nella motivazione della sentenza impugnata (Cons. Stato, sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006), trattandosi di pronuncia intervenuta su un’azione promossa avverso l’inadempimento della p.a., dunque basata su presupposti completamente diversi da quelli di cui all’odierna controversia.
6.2. Il signor Mario Fré ha inoltre eccepito la irricevibilità del ricorso di primo grado in quanto avente ad oggetto un atto adottato sulla base di un mero sollecito come tale privo di rilevanza, laddove l’esercizio dell’autotutela avrebbe richiesto il rispetto delle condizioni di cui all’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990, ovvero, oltre che dei termini massimi per la sua attivazione, la verifica della sussistenza di un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità e il bilanciamento fra gli interessi coinvolti. L’avvio dei lavori dopo la presentazione della s.c.i.a., peraltro, aveva reso percepibile l’eventuale lesività dell’intervento, imponendone da subito la contestazione.
6.2.1. La nota del 24 agosto 2020, in quanto mero riscontro di cortesia ad un esposto, non poteva neppure essere fatta oggetto di gravame: ammettendolo, si rischia di aprire la strada all’affermazione di un obbligo di risposta a fronte di qualsivoglia istanza, nonché di farne derivare, in sede conformativa, la - già ricordata - riesercitabilità del potere di controllo in una fase successiva alla scadenza del correlativo termine.
6.3. La difesa civica ha invece insistito (anche) sulla inammissibilità sia del ricorso di primo grado che dell’appello: sotto il primo profilo, il Tribunale adito avrebbe dovuto rilevare come l’annullamento della nota impugnata, peraltro di per sé affatto lesiva, non avrebbe prodotto alcun beneficio alla parte, avendo l’Amministrazione esaurito il suo potere di intervento sulla s.c.i.a. già al momento della presentazione dell’esposto, sopravvenuto ben oltre il termine “ragionevole” imposto dalla legge; sotto il secondo profilo, l’esaurimento di ridetto potere renderebbe egualmente superflua la pronuncia in appello, non essendo ipotizzabile un controllo tardivo sulle s.c.i.a. in virtù dell’effetto ordinatorio della sentenza. Tale effetto può infatti impegnare l’amministrazione solo ove essa disponga (ancora) di un potere, ossia laddove quest’ultimo sia inesauribile sotto il profilo temporale; quando invece, come nella fattispecie, il potere è sottoposto a un termine di attivazione, la sentenza non può spingersi sino al punto di imporne (e consentirne) l’esercizio ad libitum, dilatandolo a beneficio di un particolare soggetto (v. anche quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza del 31 marzo 2021, n. 45, ove si è riconosciuto che tale modello di tutela del terzo resta insoddisfacente, e purtuttavia non è suscettibile di riscritture pretorie).
6.3.1. Il difetto di interesse della ricorrente conseguirebbe altresì all’insistita affermazione in forza della quale l’immobile del signor Fré avrebbe raggiunto un’altezza superiore a quella massima di zona già a seguito dei lavori effettuati in attuazione della concessione edilizia del 1992, stante che il dato opposto è ormai cristallizzato in ridetto titolo, incontestabile perché mai impugnato, né evidentemente, impugnabile all’attualità.
6.4. La sentenza sarebbe affetta da difetto di interpretazione e di lettura della documentazione in atti, con susseguente invasione delle competenze valutative del Comune, avendo presentato come divergente un dato assolutamente incontestato tra le parti, ovvero la valutazione della quota naturale dei terreni tenendo conto dello stato degli stessi per come risultante dai lavori del 1992. Tali lavori, infatti, non hanno fatto “emergere” il seminterrato, ma reso abitabile un piano che già esisteva ed era visibile perfino nelle foto, che ne raffigurano il fronte lato valle contrassegnato da un portico a vista completamente fuori terra.
6.5. Tale cambio di destinazione d’uso non si sarebbe certo risolto in un mutamento anche del livello del piano naturale di campagna, né, men che meno, nella elevazione dell’altezza del manufatto, che non ha mai aggiunto (e men che meno superato) l’altezza massima di zona: da qui la legittimità della successiva sopraelevazione per recuperarne il sottotetto possibile sulla base dell’art. 64, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005, in deroga ai parametri di cui all’art. 63, c. 6, qualificandola come ristrutturazione.
6.5.1. Il Comune ha infine riproposto le eccezioni svolte con riferimento alle domande e ai motivi dichiarati assorbiti dal T.a.r. per la Lombardia, condizionandone lo scrutinio all’ipotesi di appello incidentale di controparte e segnatamente:
- inammissibilità e infondatezza del secondo motivo di ricorso di primo grado, con il quale la signora Pierrette Monteggia asserisce che l’intervento di recupero del sottotetto a fini abitativi realizzato nella fattispecie sarebbe da qualificare alla stregua di una nuova costruzione, come tale soggetta alle regole sulla distanza dalle costruzioni sul fondo confinante. A prescindere dalla genericità della contestazione - ex se pertanto inammissibile - che neppure consentirebbe di comprendere quali distanze avrebbero dovuto essere rispettate e sarebbero state violate, trattandosi di recupero di un sottotetto ai sensi dell’art. 64, comma 2, della più volte ricordata legge regionale del 2005, le uniche distanze da rispettare erano quelle dai fabbricati imposte dal d.m. n. 1444 del 1968, che nella specie, come chiarito nella nota impugnata, «risultano verificate»;
- inammissibilità e comunque infondatezza delle domande proposte in via subordinata, in quanto non essendo l’amministrazione rimasta inerte a seguito della ricezione dell’esposto presentato dalla ricorrente, non era possibile chiederne la condanna a provvedere, estesa pure all’ambito sanzionatorio.
7. La signora Pierrette Monteggia si è costituita con distinte memorie di analogo contenuto in entrambi i procedimenti.
7.1. Nel procedimento n.r.g. 4346/2024 ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello del Comune alla luce del riavvio del procedimento di riesame dell’istanza del 31 luglio 2020, di cui a nota inoltrata via PEC in data 9 maggio 2024, versata in atti, che comproverebbe l’acquiescenza al contenuto della sentenza impugnata.
7.2. In relazione all’interesse ad agire, ne ha ribadito la sussistenza sia in ragione del mancato rispetto della disciplina sulle distanze di cui all’art. 7, lett. t), delle N.T.A. del P.G.T. del Comune, cui l’intervento doveva sottostare ove qualificato correttamente come nuova costruzione, sia soprattutto per la subita riduzione della vista panoramica, della quale le controparti solo in appello lamentano la mancata prova avuto riguardo alla collocazione del fabbricato sopraelevato nel cono visuale della propria abitazione. La giurisprudenza ha infatti da sempre riconosciuto il panorama quale valore aggiunto degli immobili, che ne incrementa la quotazione di mercato e dà vita ad un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, la cui lesione, derivante dalla sopraelevazione o costruzione illegittima di un fabbricato vicino, determina un danno ingiusto da risarcire (Cons. Stato, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 362).
7.3. Con riferimento alla presunta tardività del ricorso, ha ricordato il granitico orientamento della giurisprudenza amministrativa in forza del quale è irrilevante il periodo temporale, sia pure significativo, trascorso tra la presentazione della s.c.i.a. e l’iniziativa assunta dai terzi che si reputano lesi al fine di sollecitare il potere di verifica e controllo dell’Amministrazione, laddove quest’ultima eserciti, infine, il predetto potere e adotti, come nel caso di specie, un provvedimento espresso, poi oggetto di impugnazione giudiziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2021, n. 521; sez. II, 12 marzo 2020, n. 1795). Il ricorso, cioè, non è stato promosso per ottenere dall’Amministrazione un tardivo controllo sulle s.c.i.a., ma per l’annullamento del provvedimento con il quale il Comune ha negato di dover agire in autotutela, dopo essere stato invitato a farlo chiedendo di svolgere gli opportuni accertamenti e, conseguentemente, di intervenire per rimuovere le presunte violazioni edilizie indicate.
7.3.1. Ad ogni buon conto, anche accedendo alla tesi di controparte, il ricorso, notificato il 12 ottobre 2020, sarebbe intervenuto nel termine di 18 mesi previsti dall’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990, da computare peraltro a partire dallo scadere dei 30 giorni previsti per il controllo inibitorio trattandosi di s.c.i.a. ex art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 31 maggio 2021, n. 4142).
7.3.2. Per quanto attiene alla mancata verifica degli ulteriori presupposti richiesti dall’art. 21-novies della l. n. 241/90, e di cui controparte lamenta l’insussistenza nel caso di specie, ossia un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità e un bilanciamento fra gli interessi coinvolti, ha richiamato lo jus receptum (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 9; sez. VII, 11 aprile 2024, n. 3315; sez. II, 2 ottobre 2023, n. 8617) in forza del quale il provvedimento con cui è ingiunta, sia pure a distanza di tempo, la demolizione di un immobile abusivo non assistito da un titolo legittimo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al sussistere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata neanche nel caso in cui la stessa sia disposta a distanza di tempo dalla realizzazione dell’illecito.
7.4. Nel merito della sussistenza dell’abuso, ha ribadito la propria prospettazione circa la corretta lettura da dare all’art. 7, lett. e) e q), delle N.T.A. del P.G.T., avuto riguardo ad una costruzione, quale quella di cui è causa, posta a distanza maggiore di m. 10 dal ciglio stradale su un lotto di terreno scosceso e con profilo altimetrico irregolare. Il calcolo dell’altezza andava effettuato «dalla quota media baricentrica come calcolata nelle norme sulla Superficie Coperta fino alla quota di estradosso dell’ultimo solaio del piano sviluppante S.L.P.», tenendo conto che ridetta quota media baricentrica si computa «sulla proiezione dell’edificio rispetto la quota naturale del terreno esistente» e che in caso di ampliamento «[…] la verifica viene effettuata con riferimento al baricentro dell’edificio compreso l’ampliamento in progetto». L’errore in cui sarebbe incorso il Comune nel provvedimento impugnato, come riconosciuto dal Tribunale adito, consisterebbe nell’avere individuato quale «quota naturale del terreno esistente», cui parametrare la «quota media baricentrica» dell’edificio, il terreno originario antecedente la costruzione del fabbricato, senza tenere conto dello stato di fatto conseguito allo sbancamento effettuato nel 1992.
7.5. Ai sensi dell’art. 101, comma 2, ha riproposto i motivi di censura non esaminati dal T.a.r. in quanto assorbiti nell’esito favorevole della decisione, contestandone l’eccepita inammissibilità da parte del Comune. In sintesi, ha ribadito che:
- il recupero del sottotetto attraverso l’aumento del volume (sopralzo della copertura e sopralzo della muratura perimetrale), come occorso nel caso di specie, ai fini dei rapporti con i fabbricati esistenti e i confini di proprietà, si configura ad ogni effetto come intervento di “nuova costruzione” (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. II, 11 maggio 2022, n. 14883). Di conseguenza, sarebbe stato necessario rispettare non solo le distanze tra i fabbricati esistenti (ovvero i m. 10 di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444/1968), ma altresì quelle minime dai confini, risultanti chiaramente dall’art. 7, lett. t), delle N.T.A. al P.G.T. che le fissa in m. 5, nel caso di specie non sussistenti, essendo l’abitazione ubicata a m. 2,91/2,92 dal limite esterno della proprietà;
ii- la richiesta di condanna alla riedizione del potere formulata unitamente a quella di annullamento del provvedimento del Comune di Laveno Mombello del 24 agosto 2020, è intrinseca nei principi di effettività della tutela. Soltanto un riesame, nei termini statuiti dal T.a.r. per la Lombardia, dell’atto annullato, infatti, può accordare piena tutela alla ricorrente, che altrimenti si vedrebbe privata di qualsiasi strumento di difesa, in dispregio dell’art. 24 della Costituzione. Di ciò sarebbe ben consapevole l’Amministrazione, tant’è che ha (ri)avviato il procedimento con nota del 10 maggio 2024.
7.6. Nella denegata ipotesi, infine, in cui gli appelli di controparte fossero accolti e, dunque, venisse meno la condanna del Comune al riesame del proprio provvedimento e non si procedesse all’auspicata demolizione dell’opera abusiva, all’interessata spetterebbe quanto meno di essere risarcita del danno durevole cagionatole dalla lesione del c.d. “diritto al panorama” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 362), di matrice prevalentemente giurisprudenziale, ricondotto dalla Corte di Cassazione nell’ambito delle norme del codice civile inerenti alle distanze, alle luci ed alle vedute (artt. 900 - 907 c.c.). La sostanziale servitù altius non tollendi che consegue allo stesso individua l’utilitas nella particolare amenità di cui il fondo dominante è dotato per il sol fatto che gode di una particolare visuale, sicché è preclusa al proprietario del fondo servente la facoltà di alzare costruzioni o alberature - quand’anche per altri versi consentite - in pregiudizio di tale visuale (Corte Cass., sez. II, 20 ottobre 1997, n. 10250; id., 18 aprile 1996, n. 3679).
7.6.1. Il deprezzamento commerciale subito dall’immobile in ragione della perdita di panorama è stato quantificato sulla base di una valutazione del 18 giugno 2024 affidata ad una Società operante nel settore delle vendite di immobili di prestigio, che prospetta, in verità quale evenienza del tutto ipotetica (il prezzo di vendita «potrebbe subire un brusco calo») un abbassamento del valore rispetto a quello attuale di mercato del fabbricato, pari a € 380.000,00, di circa il 25 %.
8. Il signor Mario Frè, che non si è costituito nel procedimento n.r.g. 4346/2024, ha versato in atti del procedimento n.r.g. 4263/2024 memoria e successiva memoria di replica per ribadire le proprie argomentazioni.
8.1. Parallelamente, il Comune di Laveno Mombello, che non si è costituito nel procedimento n.r.g. 4263/2024, ha presentato memoria nel procedimento n.r.g. 4346/2024. In particolare ha negato di aver perso interesse all’appello in ragione dell’avvenuto inoltro della comunicazione di avvio del procedimento di riesame dell’istanza dell’appellata, che contiene un’espressa riserva di gravame della sentenza di primo grado, cui non ha inteso in alcun modo prestare acquiescenza.
9. La signora Pierrette Monteggia ha replicato in data 11 aprile 2025, ribadendo le proprie prospettazioni.
10. All’udienza pubblica del 6 maggio 2025 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
11. In via preliminare il Collegio dispone la riunione dei due ricorsi, nn.r.g. 4263/2024 e 4346/2024, in quanto presentati avverso la medesima sentenza del T.a.r. per la Lombardia, n. 938 del 2024.
12. Seguendo quindi la tassonomia dei motivi di appello per come delineata dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.P., 27 aprile 2015, n. 5), va esaminata l’eccezione di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse sollevata dall’appellata avuto riguardo al gravame proposto dal Comune di Laveno Mombello.
13. Il rilievo non può essere condiviso.
13.1. In primo luogo va ricordato che nei casi di riedizione del potere in mera ottemperanza di una sentenza si configura un comportamento attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice (Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2011, n. 1757; id., 2 gennaio 2019, n. 16). Solo laddove il nuovo atto implichi un’adesione sostanziale, implicita o esplicita, alla sottesa decisione, esso finisce per attrarre su di sé la potenziale lesività contenutistica e il conseguente interesse del destinatario alla relativa caducazione.
13.1.1. Nel caso di specie, neppure può parlarsi di concreta riedizione del potere, essendosi limitato il Comune a dare avvio formale al relativo procedimento, premunendosi altresì di prendere le distanze dal contenuto della sentenza successivamente impugnata. Non solo, dunque, la nota del 10 maggio 2024, in quanto meramente endoprocedimentale, non anticipa il quomodo della decisione finale, che ben potrebbe essere una conferma dei contenuti dell’atto di cui è causa, ma essa contiene una inequivoca clausola di salvezza laddove afferma che «[…] l’attivazione del procedimento di riesame non costituisce acquiescenza della […] sentenza, rispetto alla quale l’amministrazione si riserva espressamente la facoltà di impugnazione di fronte al Consiglio di Stato».
14. Ciò detto, può ora passarsi all’esame dei singoli motivi di gravame, congiuntamente per i due procedimenti, stante la già ricordata formulazione speculare dei ricorsi e fermi restando gli approfondimenti delle questioni distintamente prospettate.
15. Con la prima censura entrambi gli appellanti lamentano la ritenuta sussistenza della legittimazione e dell’interesse ad agire, in verità argomentando solo sulla carenza di quest’ultimo, non avendo la signora Monteggia dimostrato in alcun modo il pregiudizio che le sarebbe derivato dalla sopraelevazione dell’abitazione del signor Fré. Al riguardo, nessuna significatività poteva essere attribuita alla scarna documentazione fotografica versata in atti, che non darebbe affatto conto della lamentata perdita di visuale, in ragione anche dei piani sfalsati su cui si collocano i rispettivi immobili.
16. Il Collegio ritiene la ricostruzione priva di pregio.
16.1. Se è vero, infatti, che la mera vicinitas non assorbe in sé tutte le condizioni dell’azione, come da ultimo chiarito anche dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.P., 19 dicembre 2021, n. 22), è egualmente vero che l’interesse ad agire non si collega esclusivamente al pregiudizio subito da una posizione giuridica soggettiva civilisticamente rilevante, quale quella che consiste nella titolarità di un diritto reale di godimento.
Al contrario, esso va inteso nella maniera più ampia, che se comprende certamente il collegamento con la titolarità di posizioni di diritto soggettivo dominicale, deve essere inteso come collegato anche all’intervenuto o potenziale – seppur dimostrato – nocumento derivante dalla realizzazione di un intervento edilizio ritenuto contra legem, coincidente con il possibile deprezzamento dell’immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero con la compromissione dei beni della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata. In particolare possono essere considerati a tal fine la diminuzione di aria, luce, visuale o panorama (ancorché esulanti dai limiti di tutela del diritto dominicale), appunto, così come le menomazioni di valori urbanistici o le degradazioni dell’ambiente in conseguenza dell’aumentato carico urbanistico in termini di riduzione dei servizi pubblici, sovraffollamento o aumento del traffico (ex multis, Cons. Stato, sez. II, 11 aprile 2024, n. 3310).
16.2. Vero è che è la stessa appellata a dimostrare di non avere chiari gli esatti confini del proprio interesse ad agire, laddove nel riproporre la domanda risarcitoria quale alternativa a quella caducatoria invoca proprio il c.d. diritto al panorama, distinto e ulteriore rispetto a quello di veduta, nato dalla elaborazione giurisprudenziale attingendone i presupposti dal codice civile. A prescindere da ogni considerazione in ordine alla riconducibilità giuridico-formale (o meno) del “panorama” a “bene” oggetto di diritto ex art. 810 c.c.,, anche il “diritto” (o l’interesse legittimo) e comunque la mera posizione di vantaggio connessa al godimento del panorama può essere oggetto di costituzione di servitù, la cui utilità per il fondo dominante consiste nella possibilità di godere della particolare amenità del paesaggio e della visuale che si attinge dal fondo c.d. dominante. Ma come tutte le servitù essa è sottoposta alle regole generali sulla tipicità dei modi di acquisto, non essendo insita nella proprietà del fondo che ne beneficia nei fatti.
16.3. Da ciò deriva da un lato l’insussistenza di un vero e proprio “diritto”, tale da impedire l’altrui sopraelevazione a tutela del patrimonio fruito nei fatti (c.d. servitus altius non tollendi) quale presupposto della (conseguentemente inammissibile) azione risarcitoria intrapresa dall’appellata, qui riproposta quale denegata ipotesi (v. § 7.6); dall’altro, in senso diametralmente opposto, la astratta valutabilità della medesima situazione giuridica in termini di titolarità di interesse legittimo, con la conseguente sussistenza dell’interesse ad agire, ravvisabile anche nella mera circostanza che l’altrui costruzione si ponga nel cono visuale in precedenza “occupato” da immagini paesaggistiche di innegabile bellezza (nella specie, il lago sottostante).
16.4. La visuale panoramica, dunque, anche se priva come tale di una protezione giuridica in via diretta (come avverrebbe laddove fosse possibile riconoscerla quale oggetto del diritto di proprietà oltre i limiti riconosciuti dal codice civile), in quanto capace di incidere sulla fruibilità dell’immobile e quindi sul suo valore economico, ove compromessa può, in concreto, integrare i presupposti di quel pregiudizio che si ritiene idoneo a configurare l’interesse a ricorrere.
Il che non costituisce contraddizione con la negata inerenza della stessa al bene oggetto del diritto di proprietà. Ed infatti, mentre quest’ultimo si caratterizza per una pluralità di facoltà e poteri per come individuati, riconosciuti e limitati dal codice civile e, in generale, dal diritto privato (e il panorama non costituisce in sé un aspetto del bene oggetto di facoltà di godimento), la visuale panoramica si collega solo indirettamente al diritto di proprietà del bene in virtù del quale il suo titolare, in via di mero fatto ed accidentalmente, ha la possibilità di goderne. Di modo che, venendo meno tale situazione di oggettivo e fattuale “godimento”, vuoi per esercizio di poteri pubblici (come il rilascio di un titolo edilizio), vuoi per commissione di un illecito edilizio che sollecita l’intervento dei poteri pubblici repressivi, la posizione giuridica cui si riconnette l’interesse ad agire non è già il diritto dominicale leso, bensì, più propriamente, un interesse legittimo “autonomo” che non sorge (come nella tradizionale configurazione dell’interesse legittimo oppositivo) per compressione del diritto soggettivo (in questo caso di proprietà) ma per pregiudizio autonomamente subito per (presunto) illegittimo esercizio del potere; un interesse legittimo “parallelo” al diritto di proprietà e che costituisce il fondamento dell’interesse ad agire.
16.5. Vero è che deve trattarsi di un pregiudizio effettivo e “serio”.
Proprio l’evanescenza del bene tutelato, che non può consistere nella percezione soggettiva della bellezza della veduta, al fine di non incorrere nel rischio di ricomprendere profili di danno completamente disancorati da dati di realtà ovvero addirittura di piegare l’iniziativa giudiziaria a scopi meramente emulativi, richiede la dimostrazione della sua effettiva preesistenza e del suo basarsi su evidenti, peculiari e qualificati profili di pregio. Nel caso di specie in realtà la documentazione fotografica versata in atti non rende immediatamente percepibile l’entità del danno alla veduta o panorama subito in conseguenza della sopraelevazione, pur essendo chiara l’identità di angolazione da cui sono tratte le immagini, connotate soltanto da una diversa focalizzazione: esso parrebbe infatti circoscritto all’ostacolata visione di un dettaglio del lago, identificabile in un’insenatura ubicata sulla sponda verso la quale declinano i terreni di cui in controversia. Né tale entità della limitazione in termini di impatto sulla pienezza del godimento del bene dell’appellata si ricava dalla dichiarazione resa dalla Società immobiliare interpellata dalla parte allo scopo: anche a prescindere dalla circostanza che ridetta dichiarazione esprime una mera opinione, seppure proveniente da un operatore del settore, priva in quanto tale di qualsivoglia portata certificativa, la sua formulazione in termini del tutto ipotetici, quale evenienza non verificata in concreto (ad esempio mediante la produzione, ovvero semplicemente il richiamo, di offerte di acquisto precedenti e successive ai lavori in controversia), la rende se non inattendibile, quanto meno inidonea a documentare un’effettiva perdita di valore in ragione della sua eccessiva genericità.
16.6. Nessun rilievo assume poi ai fini della configurazione dell’interesse la lamentata violazione delle regole sulle distanze fra proprietà che avrebbero dovuto trovare applicazione laddove l’intervento fosse stato qualificato quale nuova costruzione e non ristrutturazione edilizia. Il fatto che alle disposizioni sulle distanze – e in particolare a quella di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che nel caso di specie è stata rispettata – sia riconosciuta innanzi tutto una finalità pubblicistica, non implica ex se un pregiudizio per il vicino. Anche su tale aspetto la già ricordata pronuncia dell’Adunanza plenaria (Cons. Stato, A.P. n. 22 del 2021, cit. sub § 16.1.), riconoscendo che nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, afferma che può assumere rilievo perfino la violazione della distanza legale con una costruzione terza, anziché del ricorrente, ma sempre purché ne discenda, con l’annullamento del titolo edilizio, un effetto di ripristino concretamente utile per lo stesso, e non meramente emulativo (v. Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2023, n. 6438; id., 13 luglio 2024, n. 5916).
17. Tanto opportunamente precisato in punto di elementi individuativi delle condizioni dell’azione nelle fattispecie tra le quali rientra quella per cui è causa, il Collegio ritiene tuttavia che la fondatezza nel merito degli appelli consenta di non scrutinare oltre la questione della ammissibilità del ricorso dando per scontato che una limitazione della visuale sul lago dall’abitazione della ricorrente in primo grado, per quanto limitata, vi è effettivamente stata, pur non essendone chiaro l’impatto in concreto sul valore o semplicemente la godibilità della stessa.
18. Col secondo motivo di gravame gli appellanti lamentano sotto vari punti di vista un’errata ricostruzione della disciplina dell’autotutela sugli atti formati ai sensi dell’art. 19 l. n. 241/1990 e segnatamente su quelli in ambito urbanistico-edilizio. Ciò in quanto la sentenza impugnata ha qualificato l’istanza del 31 luglio 2020 quale richiesta di attivazione presentata tempestivamente rispetto ai termini di legge, di tale tipologia di procedimento, cui il Comune ha dato riscontro negativo con la nota del 24 agosto 2020, oggetto di gravame.
19. Al fine di correttamente inquadrare le varie questioni poste traendo spunto da ridetto, incontestato inquadramento, il Collegio ritiene necessaria una sintetica ricostruzione dei principi fondamentali che governano la materia, per come da ultimo chiariti in molteplici arresti, anche del giudice delle leggi.
20. Va innanzi tutto ricordato come in realtà l’utilizzo del termine autotutela con riferimento all’istituto di cui all’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, sia improprio, giusta la differenza dello stesso per così dire sul piano ontologico dal modello generale declinato dall’art. 21-novies, cui pure rinvia: in caso di s.c.i.a., infatti, la riedizione del potere di controllo non va ad incidere su un precedente provvedimento amministrativo, e per tale ragione si connota come procedimento di primo e non di secondo grado. Ad esso si arriva dopo la decorrenza del termine “fisiologico” di verifica della regolarità della s.c.i.a. -60 o 30 giorni, a seconda che si versi o meno nell’ambito della materia edilizia- effettuando la doverosa comparazione di interessi sottesa alla scelta di procedere all’annullamento d’ufficio, secondo i principi generali che governano la materia.
21. Mentre di regola il potere di autotutela è ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e pertanto non coercibile, al punto che la pubblica amministrazione non ha neanche l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio, nel caso di cui all’art. 19, comma 4, della l. n. 241/1990 si ritiene invece che tale obbligo di attivazione sussista. Depone nel senso della doverosità (in deroga dunque al ricordato e consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile) l’argomento letterale e segnatamente la diversa formulazione dell’art. 21-novies rispetto all’art. 19, c. 4, della l. n. 241/1990: quest’ultimo, infatti, a differenza del primo, dispone che l’amministrazione «adotta comunque» (non già semplicemente «può adottare») i provvedimenti repressivi o conformativi, sempre che ricorrano le “condizioni” per l’autotutela ( in tal senso cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208; sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415).
21.1. Tale ricostruzione, cui il Collegio ritiene di aderire, consente di sgombrare il campo dalle eccezioni di inammissibilità sollevate dalle parti in relazione alla tipologia di atto impugnato, che non costituisce affatto una mera risposta di cortesia alla segnalazione del privato, priva in quanto tale di qualsivoglia valenza provvedimentale.
21.2. In linea generale, la categoria dei c.d. “atti di cortesia”, di creazione pretoria, fa riferimento a situazioni che si collocano al di fuori dei presupposti di operatività dell’art. 2 della l. n. 241/1990, nelle quali la risposta dell’amministrazione costituisce un di più, ovvero è resa in ossequio al principio di leale collaborazione che comunque deve improntare i rapporti con i cittadini. Esse cioè in quanto ultronee ovvero meramente esplicative di scelte già adottate, non hanno la capacità di ledere la posizione giuridica soggettiva del privato e come tali non sono suscettibili di impugnazione.
A ben guardare, in effetti, un esempio tipico di “risposta di cortesia” viene ravvisata proprio nel caso in cui l’amministrazione decida di rendere il privato edotto della volontà di non accedere alla sua istanza di rimeditare un provvedimento sfavorevole, esplicitandone o meno le ragioni, e senza che vi siano una nuova istruttoria ed una nuova ed autonoma valutazione, e dunque l’esercizio di un autonomo potere provvedimentale.
Trattasi tuttavia di inquadramento che consegue alla ricordata incoercibilità del potere di autotutela, incompatibile con la casistica in esame nella quale invece, per quanto sopra precisato, si riconosce la sussistenza di un obbligo da parte della p.a. di riscontrare le istanze dei privati volte a richiedere i controlli sugli atti di cui all’art. 19 della l. n. 241 del 1990. Così come l’istanza della Monteggia del 31 luglio 2020 non può essere dequotata a mera “segnalazione”, egualmente il riscontro datone dal Comune non va derubricato a atto mosso da spirito collaborativo, ontologicamente privo di qualsivoglia portata lesiva nei confronti del destinatario.
22. Il limite estremo verso il quale possono spingersi le deviazioni dalle ordinarie regole che governano il potere di autotutela in caso di istanza di controllo della regolarità di una s.c.i.a. arriva fino a ritenere sussistente, accanto al ricordato obbligo di attivazione, anche un assai più pregnante obbligo di pronuncia, di talché l’amministrazione è chiamata a motivare non soltanto le ragioni dell’annullamento, ma anche quelle opposte, che la inducono a non annullare.
23. Va ora ricordato come in materia urbanistico-edilizio la giurisprudenza ha ricondotto la ritenuta sussistenza dell’obbligo di riscontro formale oltre che alla peculiarità della disciplina dell’autotutela di cui all’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, all’immanenza sulla stessa dei poteri di vigilanza. Ciò a maggior ragione alla luce delle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale (Corte cost., sentenza n. 45 del 13 marzo 2019) la quale – pur riconoscendo di non potere intervenire sui vuoti normativi esistenti nel sistema – li ha ampiamente evidenziati (sul punto, v. Cons. Stato, sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737, che richiama id., 13 febbraio 2017, n. 611, nonché sez. VI, 3 novembre 2016, n. 4610). La «[…] prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati […]» invocata dalla Consulta per mitigare le carenze di disciplina attinge proprio, tra l’altro, gli artt. 27 ss. del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Ai sensi dell’art. 27, co. 1, del d.P.R. 380/2001, infatti, «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente, la vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Ciò ha fatto ritenere configurabile il silenzio-inadempimento anche nelle ipotesi di inerzia dell’Amministrazione a fronte dell’invito all’esercizio di poteri repressivi di abusi edilizi da parte del privato confinante, senza che tuttavia ne consegua anche un obbligo di riscontro, a maggior ragione laddove il Comune non si determini in senso ripristinatorio, laddove, ad esempio, degli ipotizzati abusi non ravvisi gli estremi.
24. La circolarità del sistema che interseca l’interesse pretensivo del terzo controinteressato a corrette verifiche sugli atti dichiarativi ex art. 19 l. n. 241/1990 con quello di matrice pubblicistica al buon governo del territorio, trova riscontro nella scelta del legislatore di non abbandonare il riferimento all’autotutela esecutiva, pur quando ha ipotizzato l’autotutela decisoria: con riferimento proprio all’ambito edilizio, ad esempio, l’art. 19, co. 6-bis, della l. n. 241/1990, tiene «ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica, 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali»; a livello più generale, il comma 2-bis dell’art. 21, recante «Disposizioni sanzionatorie», richiama «le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio alle attività ai sensi degli artt. 19 e 20».
25. In altre parole, l’attività di vigilanza e i poteri sanzionatori che ne conseguono non costituiscono un’alternativa fungibile all’esercizio di quelli di autotutela sul titolo edilizio rilasciato o sull’intervento assentito a seguito di s.c.i.a.: laddove l’opera sia stata “legittimata”, infatti, il controllo non può prescindere da tale atto di (provvisoria) legittimazione e solo dopo la sua rimozione può sfociare, ad esempio, nell’ordine di ripristino.
25.1. Il legislatore peraltro si occupa espressamente dei casi in cui venga “annullata” una s.c.i.a. alternativa a permesso di costruire, assimilandone la disciplina ai casi di interventi eseguiti in base a permesso annullato, d’ufficio o in via giurisdizionale, mentre nulla dice per l’ipotesi in cui l’autotutela riguardi una s.c.i.a. per così dire ordinaria (art. 38, comma 2-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001). Proprio tale previsione conferma comunque l’autonomia dei due procedimenti, caducatorio e sanzionatorio, ravvisando nel primo il necessario e imprescindibile presupposto del secondo.
Diversamente da quanto affermato dall’appellata, solo agli atti afferenti il procedimento sanzionatorio, doverosi e a contenuto necessitato, non è richiesta un’esplicita motivazione dell’interesse pubblico che li ispira, essendo sufficiente il richiamo, intrinseco all’accertamento dell’illecito, al ripristino della legalità lesa.
25.1. L’argomento, tuttavia, che gli appellanti utilizzano in senso diametralmente opposto, non ha alcun rilievo in relazione al caso di specie, stante che l’atto impugnato non è espressivo di autotutela, ma, al contrario, ne costituisce il diniego: non vi era ragione, dunque, di indugiare sulla valutazione dell’interesse pubblico ad un annullamento che non si è inteso disporre per carenza del suo presupposto principe (la illegittimità dell’atto sottostante), né, men che meno, era possibile chiedere che alla sua riedizione conseguisse anche in automatico la condanna all’adozione dei provvedimenti demolitori. Tale prospettazione, della quale comunque il T.a.r. per la Lombardia non ha tenuto conto, rendeva effettivamente inammissibile la relativa richiesta della ricorrente in primo grado in parte qua. L’affermata necessità di tenere conto della lettura ritenuta corretta delle norme tecniche afferenti il regime di edificabilità del suolo nella zona consegue all’annullamento del diniego di autotutela, che sull’interpretazione di tali norme si basa integralmente.
25.2. Il Collegio ricorda per completezza come a diverse conclusioni si debba pervenire laddove il controllo sul titolo, lato sensu inteso, si risolva nell’accertamento di uno “sconfinamento” dal perimetro definitorio dello stesso, sicché l’opera/attività non può che esserne considerata priva (si pensi agli interventi non destinati a soddisfare esigenze temporanee e contingenti, realizzati presentando una semplice comunicazione inizio lavori – Cil – ex art. 6, co. 1, lett. e-bis, ovvero all’utilizzo di una comunicazione inizio lavori asseverata –Cila – ex art. 6-bis del d.P.R. n. 380/2001 per interventi che risultino invece riconducibili a s.c.i.a.). Per quanto la distinzione non sia affatto agevole, al fine di non trasformare il richiamo all’art. 27 del T.u.ed. nel grimaldello attraverso il quale consentire l’effettuazione dei controlli sui titoli sine die, in sostanziale dispregio finanche delle più recenti previsioni nel senso della inefficacia degli atti adottati tardivamente (comma 8-bis dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, introdotto dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120), occorre valutare caso per caso se l’amministrazione ha effettuato una diversa operazione ermeneutica, ad esempio del regime urbanistico di zona, ovvero, appunto, ha ritenuto travalicato radicalmente il perimetro definitorio dell’intervento riconducibile ad un determinato titolo di legittimazione, sì da rendere quest’ultimo tamquam non esset.
Solo in questi casi, l’amministrazione potrà agire direttamente “in vigilanza”. Negli altri, la mancanza dei presupposti o delle condizioni di utilizzo della s.c.i.a. deve essere verificata entro 60 o 30 giorni, con obbligo di intervento di tipo sospensivo o inibitorio; ovvero, allo spirare di tale ristretto termine, negli ulteriori dodici mesi (in precedenza, diciotto e prima ancora entro un “termine ragionevole”, ancora evocato impropriamente dalla difesa civica), ma purché sussistano i presupposti di cui all’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990.
25.4. L’inesauribile potere/dovere di vigilanza sul territorio attribuito ai comuni dall’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 consente dunque di verificare in ogni momento la correttezza dei titoli, ma non di caducarli al di fuori dei presupposti di cui al già ricordato art. 21-novies della l. n. 241 del 1990. Il tutto, evidentemente, ferme «le responsabilità connesse all’adozione [recte, in caso di s.c.i.a., alla mancata effettuazione dei controlli nel termine ordinario di 30 o 60 giorni] e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (v. ancora art. 21-nonies, c. 1, ultimo periodo).
26. Va ora ricordato il regime delle tutele accordate al terzo controinteressato in via giurisdizionale, contenuto come noto nel comma 6-ter dell’art. 19 della l. n. 241/1990. La norma, dopo avere affermato che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ed avere codificato la ricordata facoltà dello stesso di «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione», completa il quadro riconoscendogli «esclusivamente» la possibilità, in caso di inerzia, di esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.: il che sottintende appunto un obbligo di pronuncia, ancorché negativa, pur senza indirizzarne i contenuti. Anche sulla base di una lettura costituzionalmente orientata di tale disposto normativo, infatti - avendo il legislatore optato per il ricorso avverso il silenzio inadempimento quale unico mezzo di tutela amministrativa messo a disposizione del terzo - non consente di ritenere che non sussista alcun obbligo di iniziare e concludere il procedimento di controllo tardivo con un provvedimento espresso, privando il terzo di tutela effettiva davanti al giudice amministrativo in contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost.
26.1. La giurisprudenza ha chiarito che una volta attivata la via giudiziaria, la questione dei termini per l’esercizio dei poteri amministrativi viene assorbita da quella dell’efficacia della sentenza che definisce il giudizio, in quanto «l’estinzione dell’interesse pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo e la decadenza dall’azione che [a] questo è correlata, non decorra più per la parte ricorrente, mentre continua produrre gli effetti preclusivi insiti nella decadenza nei confronti di qualunque altro soggetto che sia rimasto inerte, secondo il medesimo meccanismo che governa il termine di decadenza nel ricorso proposto nell'ambito della giurisdizione generale di legittimità» (Cons. Stato, sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006, richiamata nella sentenza impugnata). Quanto detto comporta che in tali casi il potere dell’amministrazione non deriva più dalla norma di cui all’art. 21 novies della legge 7 agosto 1990, n. 241, ma direttamente dall’effetto conformativo della sentenza pronunciata dal giudice amministrativo. Ragionando in termini opposti, verrebbe frustato il principio di effettività della tutela, secondo cui la durata del processo non può mai andare a discapito della parte che ha ragione.
26.2. Per contro, la mancata sospensione/interruzione dei termini in caso di mera attivazione dei poteri di verifica da parte del terzo è stata segnalata come criticità nel regime delle tutele anche dal giudice delle leggi nella già ricordata sentenza n. 45 del 2019 (v. sub § 23). In essa si rimarca infatti « […] l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere». Ritiene il Collegio che pure tale affermazione confermi il fatto che ove il privato si limiti a compulsare la p.a., senza agire in giudizio per superarne l’inerzia il relativo potere si consuma comunque. Ma lo stesso non può essere affermato laddove l’amministrazione si sia pronunciata sull’istanza, come accaduto nel caso di specie.
27. Alla luce di tutto quanto detto, infatti, la nota gravata ha avuto l’innegabile merito di riscontrare – com’era doveroso – l’istanza di autotutela presentata dalla Monteggia. La sua impugnativa, evidentemente tempestiva rispetto ai termini decadenziali di legge, non può non produrre lo stesso effetto di “trascinamento” del termine che la giurisprudenza ha inteso attribuire all’azione avverso il silenzio inadempimento. Diversamente opinando, si arriverebbe alla paradossale, quanto discriminatoria conseguenza, di accordare al privato una tutela nel caso di inerzia della p.a. più intensa rispetto a quella che gli spetta avverso gli atti espliciti della stessa. La sostanziale impossibilità che la decisione sul gravame di un provvedimento espresso di diniego di autotutela sopraggiunga nel termine di diciotto (o addirittura dodici) mesi dalla sua adozione, la renderebbe sempre inutiliter data, così privando il cittadino di una delle poche forme di tutela che il sistema gli riconosce ove si sia tempestivamente attivato per compulsare i controlli della p.a.
28. Nella specie, dunque, la Monteggia ha presentato il suo “esposto/denuncia” in tempo utile per l’effettuazione da parte del Comune di Laveno Mombello delle richieste verifiche sulle s.c.i.a. presentate dal Fré, a maggior ragione ove si abbia riguardo alla seconda di esse e si tenga conto del chiarimento fornito dal d.lgs. n. 222 del 2016 sulle modalità di computo dei diciotto mesi applicabili ratione temporis (Cons. Stato, sez. III, 31 maggio 2021, n. 4142).
29. Complessivamente, quindi, la ricostruzione effettuata dal primo giudice in ordine alla tipologia di procedimento seguito dal Comune è da ritenersi corretta, essendosi lo stesso soffermato principalmente sul rispetto delle tempistiche, stante che il contenuto di rigetto dell’istanza della nota impugnata non richiedeva vagli aggiuntivi finalizzati a valutare l’astratta possibilità di determinarsi diversamente da parte dell’amministrazione. Le precisazioni fornite, seppure talvolta attingano a spunti di suggestione rivenienti anche dalle argomentazioni degli appellanti, non sono tali da portare ad una diversa qualificazione dell’atto, mutando sul punto le affermazioni contenute nella sentenza impugnata.
30. Resta infine da valutare la motivazione del rigetto di autotutela, ovvero la ritenuta correttezza dell’intervento effettuato avuto riguardo alla tipologia di procedimento seguito (s.c.i.a. alternativa a permesso di costruire per una peculiare ipotesi di ristrutturazione edilizia, tipizzata dalla legislazione regionale e riferita al recupero dei sottotetti, nella specie con sopraelevazione).
31. Punto essenziale della controversia, dunque, è la modalità di calcolo dell’altezza originaria del fabbricato, in quanto imprescindibile dato di partenza per valutare l’assentibilità dell’intervento: ove la stessa, infatti, già superasse i limiti massimi di zona consentiti dallo strumento urbanistico vigente, il recupero del sottotetto non avrebbe potuto comportare alcuna modifica delle quote di copertura esistenti. A cascata, esulando dal perimetro della ristrutturazione, in quanto nuova costruzione avrebbe dovuto anche rispettare la distanza tra fondi previste dalle medesime N.T.A., pari a m. 5, nella specie mancante (v. la specifica censura riproposta dall’appellata in quanto non esaminata dal T.a.r. per la Lombardia).
31.1. Di fatto, cioè, ciò che si contesta è il preesistente stato legittimo dell’immobile quale risultante dall’ultimo titolo rilasciato (la concessione del 1992) non ex se – circostanza questa che sarebbe preclusa dal consolidarsi degli effetti di ridetto titolo, siccome non fatto oggetto di gravame a tempo debito- ma quale presupposto dell’intervento successivo avuto riguardo alle modalità di realizzazione seguite. Le regole previste dalla legge regionale di settore, infatti, in materia di recupero dei sottotetti, qualificato come ristrutturazione, consentono la sopraelevazione solo in caso di edifici di altezza pari o inferiore al limite posto dallo strumento urbanistico, al fine di assicurare i parametri di abitabilità indicati.
32. Postulato di partenza dello scrutinio della questione è l’indicazione in m. 8 dell’altezza massima dell’edificio siccome previsto dall’art. 20, lettera d), del P.G.T. con riferimento alla densità edilizia territoriale (TdE).
L’art. 7, lettera q), delle N.T.A. al P.G.T. del Comune di Laveno Mombello stabilisce che per gli edifici posti ad una distanza maggiore di m. 10 dalla via pubblica, l’altezza del fabbricato si calcoli dalla quota media baricentrica sino alla quota di estradosso dell’ultimo solaio sviluppante superficie lorda di pavimento (SLP). Nel caso di solaio inclinato, il calcolo viene effettuato tenendo conto della quota media all’estradosso della copertura inclinata.
L’art. 7, lett. e), delle medesime N.T.A., infine, per il calcolo della quota baricentrica fa riferimento alla «proiezione dell’edificio rispetto la quota naturale del terreno esistente», imponendo di computare anche l’ampliamento in progetto, ove previsto. Trattasi, dunque, della c.d. “impronta dell’edificio” che va individuata in relazione alla «quota naturale» del terreno «esistente», appunto.
33. Alla base della contrapposta visione delle parti si pone l’individuazione di ridetta “quota naturale”, che l’appellata vuole “abbassata” artificialmente nel momento in cui si è fatto “emergere” fuori terra il piano seminterrato sbancando il terreno circostante e il T.a.r. per la Lombardia egualmente include nel computo, seppure a prescindere dalle cause di tale raggiunta conformazione.
34. La ricostruzione non può essere condivisa.
35. Va innanzi tutto precisato che il ricorso alla quota media baricentrica ex se è tipicamente utilizzato per determinare l’altezza effettiva di un manufatto quando le pareti hanno altezze diverse, ovvero il fabbricato si colloca in un contesto orografico altimetricamente irregolare: in caso di edificazione su una superficie regolare e piana, è di tutta evidenza che il calcolo dell’altezza non necessita, in linea di massima, di alcun correttivo/accorgimento pratico. Nessuna lacuna di disciplina, dunque, è dato ravvisare nelle N.T.A. del P.G.T. del Comune di Laveno Mombello, diversamente da quanto opinato dal primo giudice, stante che, al contrario, la regola è stata dettata presumibilmente proprio per dare risposte armoniche alla peculiarità morfologica del proprio territorio, connotato da plurimi pendii e dislivelli.
36. Le prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici in tema di altezza degli edifici, quali quelle in esame, sono dirette a tutelare, in una visione organica e globale della zona, quegli specifici valori urbanistico - edilizi (aria, luce, vista) sui quali incidono tutti i volumi che, sporgendo al di sopra della linea naturale del terreno, modificano in modo permanente la conformazione del suolo e dell’ambiente. Appare dunque logico escludere dal computo i volumi sottostanti al naturale piano di campagna, tranne per quei manufatti che vengono a trovarsi fuori terra a seguito di una alterazione del terreno circostante.
Ma nel caso di specie, come documentato in maniera inequivoca dagli allegati grafici alla pratica edilizia del 1964 e alla successiva del 1992, nonché ancor più efficacemente dimostrato dalle fotografie, anche dell’epoca, non vi è stato alcuno sbancamento o alterazione del piano di campagna, essendo la quota naturale dello stesso esattamente quella originaria. L’incomprensibile salto logico operato nella sentenza impugnata, dunque, va ravvisato proprio in tale aspetto: una volta escluso, infatti, che vi sia stato un artificioso abbassamento della quota naturale del terreno, ovvero, ancor più genericamente, una comprovata alterazione/modifica della stessa, l’unico metodo per individuare l’altezza “convenzionale” dell’edificio è quello che fa riferimento alla situazione originaria, ovvero in primo luogo, come detto, quella del 1964, concretamente utilizzata dal professionista di parte.
37. I limiti alle altezze degli edifici devono essere ancorati a dati certi e oggettivi ricavabili dalla situazione dei luoghi anteriore agli interventi (Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4923) e, in linea generale, il computo della misura entro la quale è consentita l’edificazione, va effettuato prendendo come parametro l’originario piano di campagna, cioè il livello naturale del terreno di sedime e non la quota del terreno sistemato, salvo normative regolamentari espresse, nella specie per giunta mancanti (Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2009, n. 2579). Ciò risponde ad una esigenza pratica, prima ancora che a una considerazione giuridica: la norma tecnica, in caso di terreno connotato da dislivelli che necessariamente determinerebbero, a seconda del punto che si assume per la misurazione, dati di altezza diversi, per scongiurare tali divergenze individua il punto interno all’edificio da cui far passare l’asse oggetto di misurazione (baricentro) ragguagliandolo al “piano naturale di campagna” , che viene determinato per interpolazione tra i diversi livelli del terreno esterno all’edificio.
Sul relativo calcolo, dunque, non può incidere l’esistenza di un seminterrato, ovvero la circostanza che lo stesso sia stato reso abitabile in attuazione della concessione edilizia del 1992: e ciò per l’evidente ragione che il mutamento di utilizzazione meramente funzionale, entro la destinazione residenziale già acquisita, di un volume preesistente (come dimostrato dalla tavola dei prospetti allegati al nulla osta n. 21 del 1964, nonché dalle fotografie del fronte esterno dell’edificio, che ne evidenziano la configurazione a portico da subito e comunque già nella documentazione fotografica del 1992) non ha prodotto modificazioni del piano di campagna, ovvero non è stato dimostrato che le abbia prodotte.
38. L’impronta dell’edificio, quindi, in quanto proiezione in pianta dello stesso, è neutra rispetto al piano di campagna e serve esclusivamente a determinare il punto da cui far partire l’asse verticale su cui viene effettuata la misurazione. Il metodo seguito dunque, che non a caso il Comune dichiara di avere utilizzato per tutti gli interventi edilizi effettuati nella zona, ha tenuto conto della quota «naturale» del terreno «esistente», intendendo per tale sia quella risultante dagli allegati tecnici ai titoli edilizi originari, sia l’attuale, proprio in quanto risultate invariate.
39. L’equivoco di fondo nel quale incorre il primo giudice consiste dunque nell’aver operato un commistione tra concetto di altezza del fabbricato nel suo complesso, necessariamente comprensiva di tutti i piani, e concetto di altezza rilevante a fini urbanistici, che va parametrata alla sporgenza rispetto al piano di campagna e per tale ragione non coincide mai con la prima quando, come nella specie, il terreno non è piano.
40. In sintesi, il mutamento d’uso (da accessorio residenziale a spazio abitativo), in difetto di variazione delle quote altimetriche esterne, non modifica il metodo di calcolo dell’altezza dell’immobile, posto che alcuna disposizione reca una simile previsione.
41. Alla luce di quanto sopra detto deve essere accolto il terzo motivo di entrambi gli appelli (n.r.g. 4263 /2024 e n.r.g. 4346/2024 ), previamente riuniti e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Lombardia n. 938 del 2024 deve essere respinto il ricorso della signora Pierrette Monteggia e confermata la legittimità della comunicazione del Comune di Laveno Mombello del 24 agosto 2020 circa la regolarità, sotto il profilo delle altezze, dell’intervento di recupero del sottotetto posto in essere dal signor Mario Frè.
41.1. La qualificazione del recupero del sottotetto quale “ristrutturazione” e non quale “nuova costruzione” in quanto conforme alle indicazioni della legislazione regionale in materia e alle regole urbanistiche di zona sulle altezze dei fabbricati, comporta l’infondatezza della censura riproposta dall’appellata afferente la necessità di rispettare quelle sulla distanza tra terreni. Una volta esclusa, infine, l’illegittimità della nota impugnata, neppure si pone l’esigenza di valutare l’estensione della portata conformativa della pronuncia alla pretesa adozione (anche) degli atti ripristinatori dello stato dei luoghi, in relazione ai quali varrebbero comunque le considerazioni svolte sull’esatta estensione del regime delle tutele dei terzi controinteressati alla realizzazione di un intervento edilizio e la sua coerenza con l’invocato principio di effettività delle tutele.
Devono essere, pertanto, respinti i motivi riproposti dall’appellata nel presente grado di giudizio.
41.2. La complessità della vicenda trattata, in fatto e in diritto, giustifica la compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sugli appelli (n.r.g. 4263 e n.r.g. 4346 del 2024), previamente riuniti,
li accoglie nei sensi e limiti di cui in motivazione;
rigetta i motivi riproposti dall’appellata nel presente grado di giudizio;
per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, Milano, n. 938 del 2024, respinge il ricorso di primo grado presentato dalla signora Pierrette Monteggia.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 maggio 2025 con l’intervento dei magistrati:
Oberdan Forlenza, Presidente
Francesco Frigida, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino, Consigliere
Ugo De Carlo, Consigliere