Consiglio di Statto Sez.VI n. 6356 del 15 luglio 2024
Urbanistica.Modifica destinazione d'uso con o senza opere 

L'introduzione delle categorie di destinazione urbanistica ad opera del c.d. decreto Sblocca Italia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164) tramite l'inserimento dell'articolo 23-ter nel Testo unico per l'edilizia, per la sua portata assorbente della valutata incidenza sul carico urbanistico, ha fatto perdere un po' di significatività alla già cennata distinzione, tradizionalmente operata in dottrina e giurisprudenza, tra modifiche di destinazione d'uso funzionali o senza opere e modifiche di destinazione d'uso realizzate tramite le stesse. Ciò che conta, infatti, è non tanto la modalità di realizzazione del cambio, ma gli effetti che produce. Da ciò può dunque affermarsi che l'individuazione di elementi sintomatici si rende necessaria a stabilire se in concreto cambio c'è stato o meno ed essi vanno individuati caso per caso, a partire proprio da quelle dotazioni che, a maggior ragione ove consistite non in elementi di arredo ma in fattori strutturali, tradizionalmente connotano un determinato utilizzo del bene, in quanto necessarie allo scopo. Quand'anche, dunque, in singoli casi la realizzazione del servizio igienico o di un mero vano wc potrebbe anche non assumere rilevanza ex se, come nel caso in cui il manufatto sia "pertinenziale", lo stesso non si può affermare laddove, oltre a tale circostanza "logistica", allo stesso si aggiungano altre dotazioni strutturali tipicamente riconducibili all'uso abitativo, quali la presenza di una cucina, anche se questa sia costituita da un “mobile” facilmente rimuovibile e, al momento del sopralluogo, non allacciato all’impianto di distribuzione del gas (il che non dimostra che detto “mobile cucina” potesse essere comunque funzionante e svolgere il proprio ruolo funzionale all’abitabilità del locale).

Pubblicato il 15/07/2024

N. 06356/2024REG.PROV.COLL.

N. 09015/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9015 del 2021, proposto dalla signora Adele Cifani, rappresentata e difesa dall’avvocato Fabio Francario, con domicilio digitale presso l’indirizzo PEC come da Registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio del suindicato difensore in Roma, piazza Paganica, n. 13;

contro

il Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Sergio Siracusa dell’Avvocatura comunale, presso la cui sede è elettivamente domiciliato in Roma, via Tempio di Giove, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. II-bis, 12 marzo 2021 n. 3053, resa tra le parti.


Visto il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma Capitale e i documenti prodotti;

Esaminate le ulteriori memorie con i documenti depositati e le note di udienza;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza del 6 giugno 2024 il Cons. Stefano Toschei. Le parti in giudizio hanno depositato note di udienza con richiesta di passaggio in decisione della controversia senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d’intesa sullo svolgimento delle udienze e delle camere di consiglio “in presenza” nella fase di superamento dello stato di emergenza del 10 gennaio 2023;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. – Il presente giudizio in grado di appello ha ad oggetto la richiesta di riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. II-bis, 12 marzo 2021 n. 3053 con la quale il predetto TAR ha respinto il ricorso (n. R.g. 11273/2010) proposto dalla signora Adele Cifani al fine di ottenere l’annullamento della determinazione dirigenziale del Comune di Roma Capitale n. 1722 del 16 agosto 2010, recante “ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia e/o cambi di destinazione d’uso da una categoria all’altra, abusivamente realizzati in via Franco Lucchini n. 16” (nonché di ogni suo atto preparatorio, presupposto, connesso e consequenziale, con particolare riferimento al verbale d’accertamento del Corpo di Polizia Municipale UO XIX Gruppo, prot. n. 34541 del 17 giugno 2010, indicato nelle premesse della predetta determina e non meglio conosciuto nei contenuti ed alla nota di comunicazione d’avvio del procedimento n. 1455/2010 – 37473).

2. - La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue:

- la signora Adele Cifani riferisce di essere nuda proprietaria di una unità immobiliare sita in Roma e consistente in un monolocale di ca. 18 mq con destinazione ad uso cantina;

- nel corso di un sopralluogo effettuato presso l’unità immobiliare di cui sopra in data 8 giugno 2010, il personale della Polizia municipale di Roma Capitale accertava l’intervenuto “cambio di destinazione d’uso da vano cantina a vano abitativo di un locale al piano terra di circa mq 18,00 composto da un bagno con angolo cottura, privo di fornitura a gas” (così, testualmente, nel verbale relativo al sopralluogo depositato in atti);

- conseguentemente la direzione del Municipio Roma XIX (all’epoca dei fatti territorialmente competente), prendeva atto della comunicazione di constatata violazione urbanistico-edilizia per la realizzazione di opere prive della prescritta concessione o autorizzazione ed adottava la determinazione dirigenziale n. 1722 del 16 agosto 2010 con la quale ingiungeva alla signora Adele Cifani, nella qualità di nuda proprietaria dell’unità immobiliare e alla signora Elisa Alliegro, quale usufruttuaria della stessa, di rimuovere le “opere abusive” dal ridetto monolocale, disponendo anche la sospensione immediata dei lavori, consistenti in un cambio di destinazione d’uso di un locale da vano cantina a residenziale privo di titolo edilizio, attraverso opere di realizzazione di un angolo cottura e di un bagno;

- la determina dirigenziale n. 1722 del 2010 era impugnata dalla signora Cifani dinanzi al TAR per il Lazio in quanto ritenuta illegittima per tre rilevanti profili che possono coagularsi nelle seguenti considerazioni contestative. Con il ridetto provvedimento Roma Capitale ha ritenuto di avere appurato la realizzazione di un presunto mutamento di destinazione d’uso da cantina ad abitazione senza fornire alcuna concreta esplicitazione delle ragioni, degli elementi e degli interventi che avrebbero determinato tale mutamento di destinazione urbanistico edilizia e senza specificare, come invece avrebbe dovuto fare, gli aspetti tecnico edilizi che avrebbero determinato la realizzazione di opere abusive. Inoltre l’amministrazione procedente non ha affatto chiarito sotto quale specifico profilo il vano in esame sarebbe stato concretamente utilizzato con destinazione abitativa, non essendo segnalato nell’atto sanzionatorio alcun maggior carico urbanistico (con variazione di standard) che avrebbe dovuto essere conseguente alla trasformazione in abitativa di una struttura originariamente dedicata a cantina. Nella specie il solo elemento indicato dall’amministrazione a sostegno della misura repressiva adottata è l’assenza del titolo abilitativo che giustifichi il mutamento di destinazione con opere, con riferimenti generici e tutt’altro che concreti e affatto riconducibili all’asserita violazione della disciplina contenuta nell’art. 16 l.r. Lazio 15/2008 in materia di mutamenti destinazione d’uso di immobili;

- il TAR per il Lazio, con la sentenza 12 marzo 2021 n. 3053, ha ritenuto infondate le censure dedotte dalla signora Cifani e ha respinto il ricorso dalla stessa proposto.

3. – Propone quindi appello la signora Adele Cifani nei confronti della sentenza n. 3053/2021, prospettando due complesse traiettorie contestative che possono sintetizzarsi come segue:

I) Error in iudicando - Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990; Violazione e falsa applicazione dell’art. 16 l.r. Lazio 15/2008; Violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 33 d.P.R. 380/2001; Violazione e falsa applicazione d.m. 1444/1968. Nella sentenza qui oggetto di appello il giudice di primo grado ha riconosciuto che il provvedimento impugnato principalmente in quella sede era accompagnato da una modesta motivazione, nondimeno il TAR ha ritenuto che tale deficit non fosse sufficiente a delineare un vizio annullatorio del provvedimento impugnato, potendo la criticità riscontrata incidere esclusivamente sulla ripartizione delle spese di lite. Erroneamente, poi, il giudice di prime cure ha irragionevolmente valorizzato la circostanza per cui la sussistenza di un bagno e di angolo cottura in un ambiente di dimensioni non ridotte (18 mq), comporterebbe una “oggettiva idoneità dell’unità immobiliare a consentire la residenza e dunque l’uso abitativo” che non è compatibile con la destinazione originale di cantina. In tal modo il TAR ha ingiustificatamente depotenziato il rilevante e insuperabile vizio di difetto di motivazione che affligge l’atto principalmente impugnato. D’altronde il giudice di primo grado non ha tenuto in adeguata considerazione la decisiva circostanza per cui l’angolo cottura, rilevato all’interno del locale, altro non è che un mobile amovibile sicuramente inidoneo a dimostrare l’avvenuta realizzazione di un cambio di destinazione d’uso, tanto più che è lo stesso provvedimento impugnato in primo grado a dare espressamente atto come il bene in questione non risulti nemmeno allacciato alla rete del gas, di talché la prospettata carenza di elementi probatori a supporto delle censure dedotte, imputata dal giudice di primo grado a carico della odierna appellante non coglie nel segno;

II) Error in iudicando - Omessa pronuncia: violazione e falsa applicazione dell’art. 34 c.p.a.; Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; Violazione e falsa applicazione dell’art. 16 l.r. Lazio 15/2008; Violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 1, lettera c) nonché dell’art. 33 d.P.R. 380/2001; Violazione e falsa applicazione d.m. 1444/1968. L’appellante si duole della circostanza che il giudice di primo grado abbia completamente omesso di pronunciarsi sul secondo motivo di doglianza dedotto con il ricorso introduttivo, che dunque ritiene indispensabile riproporre in sede di appello. Con detto motivo la signora Cifani ha sostenuto che nella specie l’amministrazione procedente abbia errato nell’applicare il disposto dell’art. 16 della l.r. Lazio 11 agosto 2008, n. 15 che, nella versione vigente ratione temporis, disponeva che il competente organo comunale “qualora accerti l’esistenza di interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lettera c, del DPR 380/2001 e successive modifiche, nonché cambi di destinazione d’uso da una categoria generale all’altra (…) in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività (…) in totale difformità dagli stessi ovvero con variazioni essenziali (…) ingiunge al responsabile dell’abuso, nonché al proprietario, ove non coincidente con il primo, di provvedere in un congruo termine, comunque non superiore a centoventi giorni, alla demolizione dell’opera e al ripristino dello stato dei luoghi”. Deriva dunque dal tenore letterale della norma appena riprodotta come l’amministrazione avrebbe legittimamente potuto disporre l’ordine di demolizione/ripristino soltanto una volta accertata la realizzazione degli interventi di ristrutturazione contemplati dal richiamato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380/2001 e, soprattutto, con riferimento al caso di specie, solo dopo avere accertato la realizzazione “di un intervento di ristrutturazione che, limitatamente agli immobili ricompresi nelle zone omogenee A, comporti mutamento di destinazione d’uso”. Il giudice di primo grado non ha ritenuto di dover affrontare tale profilo di contestazione e soffermarsi a verificare se l’immobile in questione ricadesse o meno in zona omogenea “A” ai sensi del d.m. 1444/1968. Se tale verifica avesse svolto, il giudice di primo grado avrebbe potuto appurare agevolmente che, per l’ubicazione dell’immobile in questione, la sanzione demolitoria non avrebbe potuto essere inflitta, atteso che dalla lettura della stessa determina dirigenziale principalmente impugnata si evince che l’immobile è situato nel “Tessuto della Città Consolidata”, ossia in una zona di P.R.G. che non è affatto riconducibile alla zona omogena “A”, bensì e semmai ad una delle diverse zone omogenee “B” o “C”, entrambe comunque escluse dall’ambito di applicazione della citata norma della l.r. Lazio 15/2008.

4. – Si è costituito in giudizio il Comune di Roma Capitale che ha contestato analiticamente le avverse prospettazioni, confermando la legittimità del provvedimento comunale impugnato in primo grado e chiedendo la reiezione del mezzo di gravame proposto stante la correttezza del percorso logico giuridico sviluppato dal giudice di primo grado per come emerge dalla sentenza qui oggetto di appello.

Nel formulare le proprie controdeduzioni, il comune appellato riepiloga brevemente i fatti, rispetto ai quali costituiscono presupposto inoppugnabile e legittimo della determinazione provvedimentale assunta dagli uffici competenti e qui oggetto di contestazione. In particolare la difesa comunale ricorda che il provvedimento impugnato reca puntualmente la descrizione dell’intervento abusivo realizzato in assenza del doveroso titolo abilitativo, compendiandosi in un cambio di destinazione d’uso di un locale con la correlata realizzazione di opere edilizie. A ciò aggiunge ancora la difesa comunale, con riferimento al secondo motivo di appello, che la formulazione letterale delle disposizioni richiamate nel provvedimento impugnato non lascia adito a dubbi circa la legittimità dell’ordine di demolizione con rimessione in pristino, poiché l’intervenuto mutamento di destinazione d’uso da locale cantina a locale vano abitativo, peraltro effettuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, va ritenuto abusivo perché privo del titolo richiesto dalla normativa, sia nazionale che regionale, vigente all’epoca dei fatti.

Le parti in giudizio, nel corso del processo di appello, hanno prodotto memorie, documenti e note d’udienza, confermando le rispettive conclusioni già formulate nei precedenti atti giudiziali.

5. – Nel presente contenzioso, giunto al grado di appello, si controverte della legittimità della determina dirigenziale del Comune di Roma Capitale n. 1722 del 16 agosto 2010 n. 43844 e di tutti gli atti precedentemente adottati dal predetto comune nel percorso procedimentale che ha condotto all’adozione della predetta determina con la quale, una volta accertata la realizzazione di opere volte al cambio di destinazione d’uso di un locale – di circa 18 mq - destinato a cantina per renderlo residenziale, senza avere richiesto alcun titolo abilitativo, veniva ordinato alla nuda proprietaria e all’usufruttuaria dello stesso di demolire tali opere e di ricondurre in pristino stato la condizione dell’immobile.

In particolare nel provvedimento su richiamato si legge che:

- il locale in questione si trova all’interno di un immobile ricadente nella Zona di P.R.G. del Comune di Roma (all’epoca vigente) così denominato: “città consolidata: tessuti di espansione novecentesca a tipologia definita e a media densità insediativa - T1”;

- detto locale “di circa mq. 18,00”, è collocato al piano terra del suindicato immobile ed è “composto da un bagno con un angolo cottura, privo di fornitura di gas”;

- in esso è stata accertata la realizzazione “di interventi edilizi abusivi di ristrutturazione in assenza dal titolo abilitativo consistenti” in un “cambio di destinazione d'uso da vano cantina a vano abitativo” del ridetto locale posto al piano terra e in “un bagno con un angolo cottura, privo di fornitura di gas”. A ciò si aggiunga che “il locale in oggetto risulta corredato ed utilizzato saltuariamente da circa 2/3 anni”, così come è stato dichiarato agli agenti della Polizia municipale che hanno svolto il sopralluogo nel giugno 2010 (rispetto al quale è stato redatto verbale prot. 34541 del 17 giugno 2010);

- è stato ulteriormente appurato che “le suddette opere non sono state eseguite su immobili compresi nelle zone omogenee A, di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444”;

- si è anche accertato che per la realizzazione di dette opere “non risulta presentata presso l'Ufficio Condono Edilizio istanza di condono” e si è quindi rilevato, “sulla base di motivato accertamento tecnico”, che “al fine di conformare l'organismo edilizio in questione agli strumenti urbanistici ed alla normativa edilizia vigente, le suddette strutture edilizie abusivamente realizzate possano essere demolite, non comportando, tale intervento, problemi statici o comunque pregiudizio per le strutture preesistenti regolarmente realizzate”;

- sulla scorta della valutazione dei suindicati elementi di fatto e di diritto, in applicazione del d.P.R. 380/2001 e dell’art. 16 l.r. Lazio 16/2008, va disposta “la rimozione o demolizione, entro 30 (trenta) giorni (…), di tutte le opere abusivamente realizzate così come specificate in narrativa e delle ulteriori eventuali opere abusive nel frattempo eseguite sul fabbricato preesistente (…)”.

6. - Orbene, sulla scorta dell’analitico esame dei contenuti della determina dirigenziale n. 1722/2010, pur considerando che gli stessi non si manifestano per una ampiezza espositiva delle ragioni di fatto e di diritto poste a supporto della decisione sanzionatoria che essa reca, la motivazione espressa dagli uffici comunali si presenta comunque sufficiente a ricostruire puntualmente sia gli elementi in fatto che i presupposti di diritto che hanno indotto l’amministrazione ad adottare il provvedimento ingiuntivo impugnato, ponendosi detto provvedimento nel solco della consueta stringatezza divulgativa che accompagna tale tipologia di atti sanzionatori.

In altri termini, dunque, può ritenersi che il livello di stringatezza che caratterizza la motivazione della determina dirigenziale principalmente impugnata nel presente contenzioso non è tale da impedire la puntuale individuazione e conoscenza, da parte dei destinatari dell’atto pregiudizievole, delle ragioni di fatto e di diritto che lo sorreggono e che hanno indotto l’amministrazione ad adottare la sanzione demolitoria, come è peraltro dimostrato dalla circostanza che la difesa della odierna appellante è stata in grado di formulare opportunamente e puntualmente, sia in occasione del primo che del secondo grado del presente giudizio, una articolata e approfondita attività contestativa volta ad ottenere l’annullamento del ridetto provvedimento comunale.

Rammentando come di recente la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha puntualizzato che la motivazione di un provvedimento amministrativo si compendia in “un "testo", il cui contenuto evidenzia il percorso valutativo/decisorio dell'amministrazione, ponendone eventualmente in luce insufficienze, contraddittorietà illogicità, irragionevolezza: l'assenza o l'insufficienza di motivazione sono, dunque, deficit testuali dell'atto che costituiscono violazione di legge; le ulteriori declinazioni del vizio più che attenere al testo, afferiscono alla valutazione e/o alla scelta nelle varie figure sintomatiche dell'eccesso di potere” e che “(d)i conseguenza, il vizio di motivazione non può che costituire in via indiretta e strumentale (deficit di testo) o in via diretta (negli altri casi) un vizio sostanziale del provvedimento, poiché la valutazione e la scelta dell'amministrazione non sono compiute, complete, legittime” (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 8gennaio 2024 n. 277), sottoponendo la motivazione della determina dirigenziale del Comune di Roma Capitale n. 1722 del 16 agosto 2010 ad uno stress test il cui criterio di indagine è costituito dalla capacità del provvedimento di indicare puntualmente le norme violate, di rappresentare i fatti presupposti sui quali poggia la valutazione dell’amministrazione e di esternare le ragioni che determinano l’amministrazione ad infliggere la sanzione demolitoria con riduzione in pristino, obiettivamente emerge un quadro di evidente sufficienza circa l’assolvimento dell’onere motivazionale da parte dell’amministrazione.

Sotto tale versante, quindi, le censure diffusamente dedotte nell’atto di appello e soprattutto nel primo dei due complessi motivi di impugnazione che lo caratterizzano non possono essere condivise emergendo, nel contempo, la correttezza dello scrutinio svolto dal giudice di primo grado in ordine al su riferito rilievo contestativo sviluppato, sin dal primo grado di giudizio, dalla odierna parte appellante.

D’altronde, per come ribadito da un orientamento divenuto ormai costante nella giurisprudenza del giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 giugno 2023 n. 6319, recante osservazioni ribadite di recente da Cons. Stato, Sez. VI, 19 aprile 2024 n. 3574) l'interpretazione giudiziale di un provvedimento amministrativo e, in particolare, l'individuazione del potere che con esso si è inteso esercitare, non è vincolata dalle disposizioni di legge in esso citate, ma consegue all'apprezzamento complessivo e sistemico del fine che si è inteso perseguire, delle misure che si è inteso adottare, della situazione di fatto su cui si è inteso intervenire; invero, se l'individuazione del potere esercitato dipendesse dalle disposizioni di legge citate nel provvedimento, si attribuirebbe al (contenuto del) provvedimento stesso la capacità di vincolare l'interpretazione giudiziale, costituzionalmente soggetta solo alla legge, non anche all'amministrazione.

Nella specie l'atto impugnato ordina la demolizione delle opere perché realizzate in assenza di titolo edilizio.

7. – Le considerazioni da ultimo sopra illustrate impingono sull’ulteriore serie di contestazioni dedotte dall’appellante nei confronti della determina dirigenziale n. 1722/2010 e degli atti ad essa presupposti.

Nella sostanza la signora Cifani sostiene che:

- non è dimostrato il cambio di destinazione d’uso da cantina a residenziale, atteso che la realizzazione delle opere effettate all’interno del locale non depone indubitabilmente per l’intervenuto, asserito, mutamento, posto che l’angolo cottura in realtà si compendia in un mobile facilmente asportabile, che peraltro non è neppure in funzione, come gli stessi agenti della Polizia municipale hanno potuto constatare nel corso del sopralluogo, specificando nel relativo verbale che detto angolo cottura non si presentava collegato all’impianto del gas. Sicché la realizzazione del bagno non era idonea, da sola, a giustificare l’intervenuto cambio di destinazione d’uso con opere;

- per le ragioni appena espresse neppure poteva dirsi affermato che la realizzazione delle opere dovesse avvenire previo permesso di costruire e che la mancanza di tale titolo edilizio non poteva che determinare l’amministrazione ad ordinare la demolizione delle stesse, disponendo la riduzione nel pristino stato di utilizzo l’immobile, in quanto la medesima amministrazione non ha provato puntualmente l’intervenuto cambio di destinazione d’uso, oltre al fatto che l’immobile non si trova in zona “A” del P.R.G. (ma è situato nel “Tessuto della Città Consolidata”, corrispondente ad una zona “B” o “C”), circostanza che sola, in ragione della normativa nazionale e regionale applicabile al caso di specie (nella versione vigente ratione termporis), avrebbe potuto giustificare l’irrogazione della grave sanzione demolitoria.

Ad avviso del Collegio anche questo secondo ordine di censure non coglie nel segno.

Il provvedimento oggetto di principale impugnazione nel primo grado del presente giudizio si ispira, espressamente e richiamandole, a due specifiche previsioni normative. In primo luogo viene fatto riferimento all’art. 16 l.r. Lazio 11 agosto 2008, n. 15 il quale al comma 1 (rilevante ai fini del presente contenzioso), all’epoca dell’adozione del provvedimento comunale impugnato, così recitava: “Ferma restando la sospensione dei lavori prevista dall’articolo 14 per le opere non ultimate, il dirigente o il responsabile della struttura comunale competente, qualora accerti l’esistenza di interventi di nuova costruzione in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’articolo 22, comma 3, lettere b) e c), del d.p.r. 380/2001 e successive modifiche o in totale difformità dagli stessi, ovvero con variazioni essenziali determinate ai sensi dell’articolo 17, ingiunge al responsabile dell’abuso, nonché al proprietario, ove non coincidente con il primo, la demolizione dell’opera ed il ripristino dello stato dei luoghi in un congruo termine, comunque non superiore a novanta giorni, indicando nel provvedimento l’opera e l’area che vengono acquisite di diritto nel caso previsto dal comma 2 (…)”.

La disposizione appena riprodotta, dunque, fa un esplicito richiamo (mobile), per disporre la demolizione delle opere realizzate, al caso in cui venga accertata “l’esistenza di interventi di nuova costruzione in assenza di permesso di costruire o casi previsti dall’articolo 22, comma 3, lettere b) e c), del d.p.r. 380/2001” ed infatti anche il provvedimento impugnato richiama esplicitamente le disposizioni recate dal Testo unico dell’edilizia (all’epoca vigenti). Nello specifico (sempre per quel che strettamente concerne il presente contenzioso) e tenuto conto dei testi normativi vigenti all’epoca dei fatti:

- l’art. 10, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 stabili(va) che: “Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso” (…);

- l’art. 22, comma 3, lett. b) e c) d.P.R. 380/2001 così recita(va): “(…) In alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività: (…) b) gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all'entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate; c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche (…)”.

Ad avviso dell’odierna appellante, pur tenendo conto del surrichiamato quadro normativo, le opere contestate come abusive dal Comune di Roma Capitale, in disparte la mancata dimostrazione del mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da parte dell’amministrazione, non avrebbero dovuto subire la sanzione demolitoria perché per la loro realizzazione non si rendeva necessario il previo rilascio del permesso di costruire, di talché, anche in ragione del disposto dell’art. 16 l.r. Lazio 15/2008 la demolizione non poteva essere inflitta.

8. – In materia di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso, con la realizzazione di opere o senza, ai fini dell’irrogazione della sanzione demolitoria, con riferimento alla normativa vigente all’epoca dei fatti qui di interesse, va rammentato che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato aveva raggiunto un unanime approdo interpretativo ritenendo che, in linea generale, il mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato ha per effetto il passaggio da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un'altra e si traduce in un differente carico urbanistico, con la precisazione che lo stesso a volte avviene senza la realizzazione di opere a seguito del mero mutamento d'uso dell'immobile, altre volte si caratterizza per la realizzazione di quelle opere in assenza delle quali l'immobile non può soddisfare quella diversa funzionalità che comporta il passaggio da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un'altra. Il mutamento di destinazione d'uso può avere corso solo nel rispetto della disciplina urbanistica vigente (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 2014 n. 3279).

Il presupposto del mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante ai fini dell'eventuale adozione della sanzione è che l'uso diverso, anche senza opere a ciò preordinate, comporti un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano. L'aggravio di servizi - quali, ad esempio, il pregiudizio alla viabilità ed al traffico ordinario nella zona, il maggior numero di parcheggi nelle aree antistanti o prossime l'immobile - è l'ubi consistam del mutamento di destinazione che giustifica la repressione dell'alterazione del territorio in conseguenza dell'incremento del carico urbanistico come originariamente divisato, nella pianificazione del tessuto urbano, dall'amministrazione locale e su queste basi, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è soltanto quello intervenuto tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico (cfr., sul tema, Cons. Stato, Sez. VI 25 settembre 2017 n. 4469).

In argomento il Collegio tiene a precisare che, in linea di massima, la modifica di destinazione d'uso che si risolve in una trasformazione urbanistica costituisce nuova costruzione (art. 3, comma 1, lett. e) d.P.R. 380/2001). In passato, l'individuazione degli indici della trasformazione urbanistica veniva basata dalla giurisprudenza sul criterio dell'incidenza incidenza e del pregiudizio in concreto agli standard urbanistici e alle dotazioni territoriali.

Con l'introduzione delle categorie di destinazione urbanistica ad opera del c.d. decreto Sblocca Italia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164) tramite l'inserimento dell'articolo 23-ter nel Testo unico per l'edilizia, si è cercato di precostituire a monte le situazioni con riferimento alle quali il carico urbanistico si presuppone omogeneo, indirettamente suggerendo anche una certa uniformità terminologica nella declinazione delle funzioni da parte degli Enti locali nei vari strumenti di governo del territorio. La disposizione, dunque, le riduce a cinque (residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale e rurale), all'interno di ciascuna delle quali, almeno in termini astratti e generali, il carico urbanistico si presume analogo, sicché assume rilevanza solo il passaggio dall'una all'altra, quand'anche non accompagnato dall'esecuzione di opere edilizie. La legislazione regionale e ancor più in dettaglio gli strumenti urbanistici comunali dettano indicazioni esplicative, che tuttavia, come precisato dal giudice delle leggi, non possono mai risolversi nella soppressione di talune categorie, riducendone il numero (v. Corte cost., 23 gennaio 2018 n. 68, ove si è ricordato che l'accorpamento delle categorie funzionali determina l'esclusione della “rilevanza urbanistica” dei mutamenti di destinazione d'uso interni alle stesse e, quindi, della loro assoggettabilità a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con conseguente incisione dell'ambito di applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale nell'esercizio della competenza esclusiva in materia di “ordinamento civile e penale”, di cui all'art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione).

L'introduzione delle categorie, per la sua portata assorbente della valutata incidenza sul carico urbanistico, ha fatto perdere un po' di significatività alla già cennata distinzione, tradizionalmente operata in dottrina e giurisprudenza, tra modifiche di destinazione d'uso funzionali o senza opere e modifiche di destinazione d'uso realizzate tramite le stesse. Ciò che conta, infatti, è non tanto la modalità di realizzazione del cambio, ma gli effetti che produce.

Da ciò può dunque affermarsi che l'individuazione di elementi sintomatici si rende necessaria a stabilire se in concreto cambio c'è stato o meno ed essi vanno individuati caso per caso, a partire proprio da quelle dotazioni che, a maggior ragione ove consistite non in elementi di arredo ma in fattori strutturali, tradizionalmente connotano un determinato utilizzo del bene, in quanto necessarie allo scopo. Quand'anche, dunque, in singoli casi la realizzazione del servizio igienico o di un mero vano wc potrebbe anche non assumere rilevanza ex se, come nel caso in cui il manufatto sia "pertinenziale" (ma tale qualificazione non emerge dagli atti nel caso qui in esame), lo stesso non si può affermare laddove, oltre a tale circostanza "logistica", allo stesso si aggiungano altre dotazioni strutturali tipicamente riconducibili all'uso abitativo, quali la presenza di una cucina, anche se questa sia costituita da un “mobile” facilmente rimuovibile e, al momento del sopralluogo, non allacciato all’impianto di distribuzione del gas (il che non dimostra che detto “mobile cucina” potesse essere comunque funzionante e svolgere il proprio ruolo funzionale all’abitabilità del locale).

Il Collegio dunque, alla luce di tutto quanto si è sopra dedotto e illustrato, è dell’avviso che, nel caso di specie, emergano, anche dal verbale di sopralluogo redatto dalla Polizia municipale (il cui contenuto assume portata significativamente probatoria per la nota forza fidefacente di tale atto), evidenti indici rivelatori del mutamento di destinazione d’uso del locale in questione – pervero di ampiezza non trascurabile perché misurato in circa 18 mq – con opere, senza previa richiesta e rilascio del titolo abilitativo (che avrebbe dovuto essere il permesso di costruire, per quanto si è sopra normativamente ricostruito) da “cantina” a “residenziale”. Sicché trattandosi di un intervento riconducibile ad una ristrutturazione edilizia, esso (per quanto non abbia comportato un mutamento di sagoma esterna) ha determinato un mutamento di destinazione d'uso, da “cantina” a “residenziale” e quindi un aumento del carico insediativo, essendo il fabbricato preesistente di tipo rurale. Un simile intervento, quindi, avrebbe dovuto essere assentito con autonomo titolo edilizio, anche perché generava l'obbligo di corrispondere il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione, che invece non risulta - dalla documentazione prodotta in giudizio - siano mai stati corrisposti, come non è stata presentata alcuna richiesta di sanatoria edilizia. Di conseguenza nessuna rilevanza ai fini della legittimità della sanzione ripristinatoria (con demolizione) può essere assegnata alla localizzazione dell’immobile all’esterno della zona omogenea “A” ai sensi del d.m. 1444/1968 e quindi del centro storico, circostanza peraltro puntualmente segnalata nel provvedimento impugnato e correttamente ritenuta non impeditiva all’adozione della sanzione demolitoria.

9. – Dalle sopra espresse considerazioni il ricorso in appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.

Le spese del grado di appello, ritenuti sussistenti i presupposti di cui all’art. 92 c.p.a., per come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a., stante anche la rilevata modestia del corredo motivazionale che ha assistito il provvedimento impugnato, sebbene non utile a provocarne la dichiarazione di illegittimità, possono compensarsi tra le parti in giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello (n. R.g. 9015/2021), come indicato in epigrafe, lo respinge.

Spese del grado di appello compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 6 giugno 2024 con l'intervento dei magistrati:

Sergio De Felice, Presidente

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere, Estensore

Roberto Caponigro, Consigliere

Giovanni Gallone, Consigliere