Cons. Stato Sez. IV n. 846 del 29 febbraio 2016
Urbanistica.Sulla ammissibilità del ricorso proposto per l'annullamento parziale del piano regolatore generale

E' inammissibile il ricorso proposto per l'annullamento in parte qua del piano regolatore generale, che sia stato notificato solo al Comune e non anche alla Regione che lo ha approvato, né tale omissione può essere sanata dal giudice adito con l'ordine rivolto al ricorrente di procedere all'integrazione del contraddittorio, atteso che questa può essere disposta nei confronti dei controinteressati e a condizione che almeno uno di essi sia stato ritualmente evocato in giudizio, e non anche dell' Autorità emanante, che è parte principale ed essenziale del giudizio

N. 00846/2016REG.PROV.COLL.

N. 05829/2011 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5829 del 2011, proposto da:
Regione Puglia, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Sabina Ornella Di Lecce, Anna Bucci, con domicilio eletto presso . Delegazione Regione Puglia in Roma, Via Barberini N.36;

contro

Mastrototaro Grazia, Comune di Trani;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della PUGLIA – Sede di BARI - SEZIONE II n. 04272/2010, resa tra le parti, concernente piano urbanistico generale

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2015 il Consigliere Fabio Taormina e udito per parte appellante l’Avvocato Bucci (anche su delega di Di Lecce);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale della Puglia - Sede di Bari - ha accolto il ricorso proposto dalla odierna parte appellata, corredato da motivi aggiunti, volto ad avversare, ottenendone l’annullamento, gli atti ed i provvedimenti relativi al procedimento di adozione ed approvazione definitiva del Piano Urbanistico Generale (PUG), culminato nella delibera Consiliare di approvazione definitiva n. 8 del 31.3.2009 nella parte in cui disciplinava i suoli di proprietà della parte originaria ricorrente, unitamente a tutti gli atti presupposti e connessi.

Con il predetto ricorso, sostanzialmente, si era lamentato che la nuova classificazione impressa all’area di propria pertinenza, notevolmente penalizzante, violasse i principi generali in materia di comparto.

Il Tar ha anzitutto disatteso l’eccezione di inammissibilità del mezzo di primo grado conseguente alla mancata notifica dello stesso alla Provincia di Bari.

Il Tar ha quindi (capo due della sentenza) esaminato i motivi del mezzo di primo grado, ed ha in primis disatteso il primo motivo ed il quarto motivo, con il quale era stata contestata la illegittimità della delibera di Giunta Regionale n. 1480 del 1° agosto 2008 ( e la conseguente illegittimità derivata degli atti successivi che tale delibera avrebbero acriticamente recepito) avendo asseritamente la stessa compiuto un controllo esulante dai limiti delineati dall’art. 11 della L.R. 20/01.

Ad avviso del Tar, infatti, puntando il dito sulla densità edilizia ed individuando la stessa come causa di compromissione del bene paesaggistico "costa", la Regione non aveva affatto travalicato i limiti del sindacato che poteva compiere sul P.U.G.

Il primo giudice esaminando congiuntamente il secondo ed il terzo dei motivi di ricorso principale,ha proceduto ad un articolato excursus delle disposizioni legislative che regolavano la detta materia ed agli orientamenti della giurisprudenza sul punto, ed ha accolto il ricorso di primo grado, nei limiti dell’ interesse della parte originaria ricorrente, alla stregua di alcune, articolate, considerazioni.

Nel merito, ad avviso del Tar, non era condivisibile il disegno degli estensori del P.U.G. di applicare a tutti i costi, e quindi in maniera indiscriminata i principi perequativi.

Appariva evidente, quindi, come nel caso di specie il P.U.G. avesse abusato della perequazione deviando dallo zoning tradizionale fuori dai casi in cui una simile deviazione poteva ammettersi.

Secondo il Tar, poi, per altro verso, la tipizzazione impressa ai detti suoli di proprietà di parte ricorrente era illegittima in quanto contemplava la delimitazione di un “comparto perequato” a mezzo di uno strumento urbanistico di natura generale (dovendosi escludere, in particolare, che la Legge regionale n. 6/1979 consentisse di delimitare i comparti edificatori in sede di approvazione dello strumento generale).

La Legge regionale n. 6/1979 all’art. 15 “disegnava” il comparto in termini simili al comparto edificatorio ex art. 23 della legge n. 1150/1942 ed al dPR n. 327/2001, art. 7: cioè come strumento di terzo livello (il Tar ha sul punto richiamato la propria precedente sentenza n. 1962/2010)

Secondo l’argomentare del primo giudice nella Regione Puglia la situazione non aveva subìto mutamenti neppure per effetto della entrata in vigore della Legge regionale n. 20/2001, (che aveva disciplinato il Piano Urbanistico Generale, recependo espressamente i principi della perequazione urbanistica, peraltro sospendendo l’obbligo di approvazione del Programma Pluriennale di Attuazione e facoltizzando i comuni che nel frattempo se ne erano dotati a revocarlo o mantenerlo fino alla scadenza, ma non incidendo in alcun modo sull’istituto del comparto edificatorio, di cui non si occupava). L’art. 14 della citata legge regionale, infatti, stabiliva che “Al fine di distribuire equamente, tra i proprietari interessati dagli interventi, i diritti edificatori attribuiti dalla pianificazione urbanistica e gli oneri conseguenti alla realizzazione degli interventi di urbanizzazione del territorio, il PUG può riconoscere la stessa suscettività edificatoria alle aree comprese in un PUE.”);

l’art. 15 della Legge regionale n. 20/2001 stabiliva che “al PUG viene data attuazione mediante PUE di iniziativa pubblica, privata, o mista”;

lo strumento attuativo del PUG, quindi, era il PUE, e non il comparto.

Ed il PUE era strumento che presupponeva la già avvenuta approvazione del PUG (art. 18 della Legge regionale n. 20/2001, secondo cui il PUE non poteva variare le previsioni strutturali del PUG e comma 2 lett. a del detto art. 18 secondo cui ai fini della formazione del PUE “ non costituiva variazione del PUG la modificazione delle perimetrazioni contenute nel PUG conseguente alla trasposizione del PUE sul terreno”).

Da ciò ha fatto discendere la conseguenza per cui non spettava al P.U.G. la perimetrazione dei comparti edificatori (e neppure la stessa perimetrazione dei PUE).

Il nuovo P.U.G. di Trani risultava quindi, ad avviso del Tribunale amministrativo, illegittimo in quanto provvedeva a delimitare il perimetro di comparti definiti specificamente come “comparti edificatori” con rinvio espresso all’art. 15 della L.R. 6/79, (art.5.04 NTA) comparti che, in quanto tali, avrebbero potuto essere individuati solo in sede attuativa.

In sintesi:

Il P.U.G. di Trani (art.5.04 NTA)disegnava un comparto edificatorio identico a quello di cui all’art. 15 L.R. 6/79 : ma esso non tollerava di essere individuato in sede di pianificazione generale.

Ne risultava violato il precetto di cui all’ art. 14 della Legge regionale n. 20/2001(“"Al fine di distribuire equamente, tra i proprietari interessati dagli interventi, i diritti edificatori attribuiti dalla pianificazione urbanistica e gli oneri conseguenti alla realizzazione degli interventi di urbanizzazione del territorio, il PUG può riconoscere la stessa suscettività edificatoria alle aree comprese in un PUE. ",”).

In base a tale norma era possibile attribuire una suscettività edificatoria a fondi che non potrebbero averla in base alla destinazione loro propria.

Ma tale deroga poteva essere applicata solo nell'ambito di un Piano Urbanistico Esecutivo, e solo allo scopo di ottenere, tra tutti proprietari interessati ad un intervento, una eguale ripartizione dei diritti edificatori.

Ad avviso del Tar, quindi, tenuto anche conto del fatto che i PUE potevano essere delimitati solo in sede attuativa, la legislazione pugliese consentiva al fine di dare attuazione ai principi della perequazione:

a)che il PUG potesse soltanto, dopo aver comunque proceduto ad una tipizzazione di massima delle varie zone del territorio comunale nel rispetto dei principi dello zoning tradizionale, individuare zone soggette a pianificazione attuativa all'interno delle quali ogni fondo ricevesse, proprio in forza della norma speciale di cui all'art. 14 L.R. 20/01, un uniforme indice di fabbricabilità convenzionale, (che il PUG poteva predeterminare, magari tra un minimo ed un massimo onde che l’indice di fabbricabilità definitivo fosse determinato nella maniera più confacente al caso di specie);

b) il PUG poteva altresì inoltre indicare i criteri di massima da osservare nella futura delimitazione dei PUE, anche individuando eventuali meccanismi premiali;

c) spettava invece alla pianificazione attuativa perimetrare, all'interno di tali zone, i singoli PUE, ed all'occorrenza i singoli comparti.

Il PUG di Trani non avrebbe potuto, al fine di ripartire l’onere derivante dalla cessione di suoli per urbanizzazioni secondarie, perimetrare un piano attuativo in sede di approvazione dello strumento di pianificazione generale, né attribuire diritti edificatori all’area interessata da tale cessione in misura differente rispetto alle altre aree comprese nel comparto.

Completato questo iter motivo sotto un profilo più generale (sostanzialmente riconoscendo fondata la censura di eccesso di potere per straripamento) il Tar ne ha fatto conseguire la considerazione (alla fine del capo 3.1. della sentenza) secondo la quale la tipizzazione impressa al Cp/29 dal PUG di Trani scontava la violazione dei detti principi, prevedendo in un medesimo comparto soggetto a pianificazione attuativa unitaria, cioè estesa all'intero comparto, la coesistenza di differenti tipizzazioni, residenziale ed alberghiera, con diversi indici di fabbricabilità fondiaria, nonché l'asservimento della maglia ES/10 a servizi al solo scopo di concentrare tutta l'edificazione sulla vicina maglia ES/11, scopo questo che in teoria avrebbe anche potuto essere perseguito tipizzando l'intera area quale zona edificabile e sottoponendo la stessa non a vincolo di comparto ma a pianificazione attuativa, con un uniforme indice di fabbricabilità: la concentrazione dei volumi nella zona più lontana dal litorale sarebbe stata poi ottenuta mediante approvazione di un adeguato piano attuativo.

Parimenti è stato accolto il quinto motivo di censura:

ivi ci si doleva della circostanza che, essendo stata inserita nell’Atlante dei Beni Architettonici della Cappella San Giovanni, era stata disposta la inedificabilità di un’area confinante con tale edificio, considerato come area “annessa”.

Il Tar ha in proposito osservato che sulla possibilità che in sede di pianificazione generale potessero essere individuati beni architettonici da assoggettare a tutela, e che la tipizzazione dei suoli potesse essere condizionata dal vincolo imposto sui beni in questione, era stata in passato resa la sentenza n. 2241/2010.

Ivi era stato precisato che “i vincoli di natura culturale su beni di proprietà di persone fisiche private possono essere imposti solo all’esito della dichiarazione di interesse contemplata all’art. 13 D. L.vo 42/04, mentre quelli di natura paesaggistica derivano dalla legge, da una analoga dichiarazione di interesse ovvero da una pianificazione paesaggistica. Nell’individuare unilateralmente alcuni fabbricati da tutelare, non segnalati neppure a livello di PUTT/P, il P.U.G. si é quindi assunto compiti che non gli spettano, che non gli vengono assegnati neppure dalla L.R. 20/01, e così esercitando tra l’altro competenze che la legislazione nazionale attribuisce ad altre Autorità. La tipizzazione di un’area non può, conclusivamente, dipendere dall’intento di tutelare gli edifici che sopra vi insistono quando la tutela spetti ad altri enti. Si consideri, tra l’altro, che all’esito del procedimento finalizzato alla imposizione del vincolo culturale o paesaggistico potrebbero essere ritenuti compatibili con la tutela anche interventi di ristrutturazione e/o ampliamento: pertanto una tipizzazione delle aree che, a scopo “preventivo”, precluda qualsiasi intervento che vada al di là della manutenzione o del restauro e risanamento conservativo, potrebbe risultare, a posteriori, del tutto ingiustificata e finirebbe per lasciare al gusto, e magari anche alle stravaganze, dei singoli pianificatori la possibilità di imporre limitazioni anche pesantissime alla proprietà privata.”.

Nel caso di specie appariva ad avviso del Tar traslabile alla vicenda il detto principio di cui alla pregressa sentenza n. 2241/2010: l’edificio Cappella San Giovanni non risultava essere stato sottoposto a tutela architettonica né risultava segnalato nel PUTT/p. Il PUG di Trani non potevano assoggettare a vincolo di inedificabilità l’area ad esso circostante, non potendo il potere di pianificazione del territorio essere esercitato per perseguire scopi differenti da quelli per i quali esso era attribuito all’Autorità comunale.

Conseguentemente, in accoglimento dei motivi 2, 3 e 5 del mezzo di primo grado il Tribunale amministrativo ha annullato la delibera del Consiglio Comunale di approvazione definitiva del nuovo Piano Urbanistico Generale, e gli atti ad esso presupposti, limitatamente alle previsioni relative ai fondi di proprietà della parte originaria ricorrente.

L’amministrazione regionale rimasta soccombente ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe sotto tutti i versanti motivazionali suindicati ripercorrendo la cronologia degli accadimenti e chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha in particolare rimarcato che parte originaria ricorrente di primo grado non aveva sollevato doglianze in ordine all’utilizzo di tecniche perequative per la disciplina del suolo di pertinenza: aveva prestato acquiescenza alle modalità con cui avveniva l’edificazione del suolo.

La sentenza di prime cure era affetta dal vizio di ultrapetizione ed extrapetizione ex art. 112 cpc, ed era gravemente errata in quanto impingente sul merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione e resa tenendo in non cale la disciplina regionale di cui alla legge n. 20/2001.

Parimenti il contraddittorio era stato violato perché ex officio, ed obliando l’art. 73 comma 3 del cpa il Tar aveva posto a sostegno della decisione demolitoria vizii mai lamentati e comunque sui quali non era stato sollecitato il contraddittorio.

Sotto altro profilo, ha sostenuto che il mezzo di primo grado non era stato notificato ad alcuno degli altri proprietari di arre ricadenti nel comparto e non impugnanti: ove si fosse ritenuto che la sentenza spiegava incidenza anche su dette posizioni il mezzo doveva essere dichiarato inammissibile.

Parimenti parte appellante ha riproposto (pag 31 e 32 dell’appello, punto 15) la censura relativa alla omessa invocazione in primo grado della Provincia Regionale.

La sentenza, pertanto: era viziata ex art. 112 cpc; affetta da nullità in quanto le tematiche ivi esaminate non erano state oggetto di delibazione svolta in contraddittorio; il ricorso di primo grado, era inammissibile per omessa intimazione alla Provincia.

Nel merito, la sentenza fondava la propria valutazione di illegittimità della pianificazione perequativa prevista dal Pug su argomenti, gravemente errati.

Si era infatti ivi sostenuto che il Comune aveva utilizzato la tecnica perequativa in contrasto con il criterio della zonizzazione e che i comparti perequativi potessero essere perimetrati soltanto in sede di pianificazione attuativa, e non già direttamente nel PUG.

la sentenza, non teneva conto del principio giurisprudenziale affermatosi, secondo cui v’era piena compatibilità tra la zonizzazione prevista dalla legge n. 1150/1942 e la pianificazione perequativa (posto che quest’ultima operava all’interno di comparti perequativi e non introduceva nuove destinazioni di zona).

Quanto alla tesi secondo cui i comparti perequativi (in quanto strumento di “terzo livello” potevano essere perimetrati soltanto in sede di pianificazione attuativa ( e non già direttamente dal PUG), essa non teneva conto della circostanza che la legge regionale n. 20/2001 aveva modificato sostanzialmente la legge regionale n. 56/1980 e quella n. 6/1979.

Gli art. 2 lett. d e 14 della legge regionale n. 20/2001 prevedevano invece espressamente che la perimetrazione dei Pue e quella dei distretti perequativi (ove prevista dal pianificatore locale) venisse effettuata direttamente dallo strumento urbanistico generale.

Il primo giudice aveva confuso i “comparti edificatori” previsti ex art. 870 cc e dall’art. 23 della legge n. 1150/1942 (oltre che dalla ante vigente legislazione regionale) con i comparti perequativi.

La Regione ha inoltre sostenuto (punti 10-14 dell’appello) che parimenti errato era il capo 4 della gravata sentenza che aveva accolto il motivo n. 5 del mezzo di primo grado: non v’era stata alcuna illegittimità nell’ avvenuta inserzione del compendio di pertinenza di parte appellata nell’ Atlante dei Beni Architettonici della Cappella San Giovanni.

Ciò, in quanto i Comuni ben potevano pervenire alla imposizione di vincoli coerenti con la natura dei beni ricadenti nel loro territorio.

La tutela paesaggistica, quindi, poteva anche essere effettuata dal Comune mercè lo strumento urbanistico.

Ad avviso della Regione, poi, ciò discendeva anche da un sereno esame delle prescrizioni legislative regionali.

Inoltre,il Tar aveva errato anche nella parte in cui aveva ritenuto che la disciplina vincolistica imposta, in concreto, avrebbe svuotato lo ius aedificandi.

Parte appellata non ha depositato memoria nel termine di cui all’art. 46 del cpa

Con memoria depositata in vista della odierna udienza pubblica e datata 15.10.2015 parte appellante ha puntualizzato e ribadito le proprie censure.

In vista della odierna pubblica udienza l’appellante Regione ha depositato una memoria tendente a puntualizzare le proprie difese.

Parte appellata non si è costituita nell’odierno grado di giudizio.

Alla pubblica udienza del 17 novembre 2015 la causa è stata rinviata alla odierna pubblica udienza del 15 dicembre 2015.

Alla odierna pubblica udienza del 15 dicembre 2015 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.L’appello principale è soltanto parzialmente fondato, e va soltanto parzialmente accolto, nei limiti di cui alla motivazione che segue. Nella restante parte (punti 10-14) il mezzo va disatteso.

1.1.Al fine di perimetrare anticipatamente il materiale cognitivo in via teorica esaminabile dal Collegio, si rileva che parte originaria ricorrente non essendosi costituita nell’odierno grado di giudizio, non ha tempestivamente riproposto con memoria i motivi del mezzo di primo grado assorbiti dal primo giudice: essi non sarebbero pertanto teoricamente riesaminabili dal Collegio.

Invero (il mezzo di primo grado è stato proposto nel 2009 e la causa è stata assunta in decisione nell’ottobre 2010 mentre la sentenza è stata pubblicata nel dicembre 2010) ove la vicenda processuale fosse regolata ex artt. 101 e 46 del cpa i motivi assorbiti avrebbero dovuto essere riproposti incidentalmente con memoria depositata “entro il termine di costituzione in giudizio” (id est: sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notifica del gravame).

Alle stesse conclusioni si perviene comunque valutando la problematica alla luce della disciplina previgente, in adesione all’orientamento della Sezione secondo cui “e' solo in applicazione estensiva dell'art. 346 c.p.c. che, nel processo amministrativo, si afferma il principio della riproponibilità dei motivi assorbiti o non esaminati mediante memoria , così semplificando gli oneri dell'appellante incidentale (proprio), esentandolo dalla necessità di notificazione dell'atto. Peraltro, se pure si consente la riproposizione dei motivi per il tramite di memoria e non di appello incidentale (accordando prevalenza all'art. art. 346 c.p.c. sull'art. 37 R.D. n. 1054/1924), non si può escludere che detta memoria debba essere comunque depositata entro il termine previsto dal citato art. 37. E ciò a maggior ragione vista l'assenza di diversa previsione nell'art. 346 c.p.c. (Cons. Stato Sez. IV, 10-08-2011, n. 4766).

Posto che parte appellata non depositò tempestiva memoria di costituzione nell’odierno grado di giudizio contenente i motivi sottesi al ricorso di primo grado oggetto di decisione mercè la gravata sentenza rimasti assorbiti, sarebbe precluso al Collegio vagliarne la fondatezza.

Le tematiche che questo Collegio può legittimamente esaminare, quindi, riposano unicamente nelle censure avverso la statuizione accoglitiva del secondo, terzo, e quinto motivo del mezzo di primo grado, e nelle eccezioni preliminari di inammissibilità prospettate dall’appellante Regione (non avendo parte originaria ricorrente peraltro neppure proposto appello incidentale avverso la espressa reiezione dei motivi nn. 1 e 4 del mezzo introduttivo del giudizio di primo grado).

2.Ciò premesso in punto di materiale cognitivo esaminabile dal Collegio, in via preliminare rispetto alla disamina del merito della causa devono appunto essere prioritariamente scrutinate le censure di natura processuale sollevate da parte appellante.

Come già rilevato nella parte in fatto, è stata sollevata la doglianza di extrapetizione, a propria volta connessa con quella di violazione delle regole del contraddittorio, e quella di inammissibilità del ricorso di primo grado per omessa evocazione di una delle autorità emananti (la Provincia regionale di Bari): parte odierna appellata, infatti, non aveva provveduto a notificare il mezzo di primo grado alla Provincia regionale di Bari.

Inoltre, si sottolinea nell’appello, che il mezzo di primo grado non era stato notificato agli altri proprietarii del comparto, per cui (secondo la critica appellatoria) ove si ritenga che la decisione gravata possa spiegare effetti nei confronti dei detti soggetti il mezzo di primo grado avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile.

2.1.Trattandosi di doglianze che, ove accolte, potrebbero condizionare la esaminabilità del merito della causa, esse vanno esaminate prioritariamente.

3. La prima di esse da sottoporre a scrutinio (pag. 32, punto 15 dell’atto di appello), in ordine logico, è quella afferente la originaria inammissibilità del mezzo di primo per omessa evocazione in giudizio di una delle autorità emananti (la Provincia regionale di Bari).

Essa si fonda sul disposto di cui all’art. 11 della legge regionale della Puglia n. 20 del 27 luglio 2001 (recante “Formazione del Pug” il quale (si veda in proposito, per una accurata disamina della citata disposizione la sentenza della Sezione n. 4821/2007) prevede al comma settimo che “il PUG così adottato viene inviato alla Giunta regionale e alla Giunta provinciale ai fini del controllo di compatibilità rispettivamente con il DRAG e con il PTCP, ove approvati. Qualora il DRAG e/o il PTCP non siano stati ancora approvati, la Regione effettua il controllo di compatibilità rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale ove esistente, ivi inclusi i piani già approvati ai sensi degli articoli da 4 a 8 della legge regionale 31 maggio 1980, n. 56, ovvero agli indirizzi regionali della programmazione socio-economica e territoriale di cui all'articolo 5 del d. lgs. 267/2000”.

Il comma 8 prevede che la Giunta regionale e la Giunta provinciale si pronunciano entro il termine perentorio di centocinquanta giorni dalla ricezione del PUG, decorso inutilmente il quale il PUG si intende controllato con esito positivo.

Il comma 9 prevede che qualora la Giunta regionale o la Giunta provinciale deliberino la non compatibilità del PUG rispettivamente o con il PTCP, il Comune promuove, a pena di decadenza delle misure di salvaguardia di cui all'articolo 13, entro il termine perentorio di centottanta giorni dalla data di invio del PUG, una Conferenza di servizi …… In sede di Conferenza di servizi le Amministrazioni partecipanti, nel rispetto del principio di copianificazione, devono indicare specificamente le modifiche necessarie ai fini del controllo positivo.

Il comma 10 prevede che la Conferenza di servizi assume la determinazione di adeguamento del PUG alle modifiche di cui al comma 9 entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data della sua prima convocazione, l'inutile decorso del quale comporta la definitività delle delibere regionale e/o provinciale di cui al comma 9, con contestuale decadenza delle misure di salvaguardia.

Il comma 11 prevede che la determinazione di adeguamento della Conferenza di servizi deve essere recepita dalla Giunta regionale e/o dalla Giunta provinciale entro trenta giorni dalla data di comunicazione della determinazione medesima. L'inutile decorso del termine comporta il controllo positivo da parte della Giunta regionale e/o della Giunta provinciale.

Il comma 12 prevede che il Consiglio comunale approva il PUG in via definitiva in conformità delle deliberazioni della Giunta regionale e/o della Giunta provinciale di compatibilità o di adeguamento di cui al comma 11, ovvero all'esito dell'inutile decorso del termine di cui ai commi 8 e 11.

3.1. Ad avviso di parte appellante stante l’univoco tenore della citata disposizione (in particolare dei commi 7 ed 8 che equiparano in toto la posizione della Provincia a quella della Regione) anche la Provincia Regionale rientrava tra le “autorità emananti” del Pug in quanto alla stessa sono ex lege affidate funzioni di copianificazione.

Dalla omessa notifica del mezzo di primo grado a tale Ente derivava la insanabile inammissibilità dello stesso (in quanto, non essendo la Provincia Regionale di Bari equiparabile ad un controinteressato non poteva configurarsi “unicamente” la omissione dell’ordine di integrazione del contraddittorio,)

3.2. Ritiene il Collegio che la doglianza non sia fondata.

Va premesso che per costante giurisprudenza amministrativa ( Consiglio Stato sez. IV 14 ottobre 2005 n. 5711) “è inammissibile il ricorso (nel caso di specie trattavasi di revocazione ndr) che non sia stato notificato all' Autorità emanante, non essendo possibile in tale ipotesi disporre l'integrazione del contraddittorio.”

In particolare, con riferimento alla questione della impugnazione dei piani regolatori generali, la giurisprudenza ha costantemente affermato che ( Consiglio Stato sez. IV 12 maggio 2009 n. 2901) “è inammissibile il ricorso proposto per l'annullamento in parte qua del piano regolatore generale, che sia stato notificato solo al Comune e non anche alla Regione che lo ha approvato, né tale omissione può essere sanata dal giudice adito con l'ordine rivolto al ricorrente di procedere all'integrazione del contraddittorio, atteso che questa può essere disposta nei confronti dei controinteressati e a condizione che almeno uno di essi sia stato ritualmente evocato in giudizio, e non anche dell' Autorità emanante, che è parte principale ed essenziale del giudizio.” ( ma si veda anche Consiglio Stato sez. IV 16 luglio 2008 n. 3560: “stante la natura di atto complesso della variante a un piano regolatore generale, caratterizzato dal concorso di volontà di comune e regione , l' impugnazione di tale atto va necessariamente notificata a entrambi gli enti, quali amministrazioni emananti.).

Muovendo da questa premessa può certamente concordarsi con la deduzione di parte appellante secondo cui ove si affermasse che la Provincia Regionale di Bari rivestiva la posizione di “autorità co-emanante” essa non sarebbe stata equiparabile ad un controinteressato e non avrebbe potuto ravvisarsi “unicamente” la omissione dell’ordine di integrazione del contraddittorio a cagione della omessa invocazione in giudizio di questa.

La cornice processuale sottesa alla critica appellatoria è, quindi, senz’altro esatta.

3.2.1.Si rivela pertanto essenziale soffermarsi sulla fondatezza della premessa maggiore della doglianza, riposante nella effettiva attribuibilità – o meno- della qualifica di “autorità co-emanante alla Provincia Regionale di Bari.

3.3. A tal uopo il Collegio è edotto della circostanza che con una recente pronuncia (24 agosto 2006 n. 4277) il Tar della Puglia- Sede di Lecce- ha espressamente affermato il detto principio, stabilendo che “ai fini dell'adozione del piano urbanistico generale, il procedimento di cui all'art. 11 l. reg. Puglia 27 luglio 2001 n. 20, prevede una copianificazione, all'interno della quale si collocano, oltre al comune procedente, anche Provincia e Regione, la cui funzione non può che essere quella della cura degli interessi affidati al proprio livello di governo. Il principio di sussidiarietà verticale non vale, pertanto, a relegare a mero suggerimento non vincolante per l'autorità comunale una espressa manifestazione di dissenso formulata dalla Regione in riferimento a interessi conservati al proprio livello di governo da leggi regionali. La stessa espressione “controllo di compatibilità”, contenuta nel citato art. 11, indica il ruolo della Regione nella copianificazione, che non è di mero ausilio o apporto istruttorio, ma di gestione esclusiva degli interessi sovracomunali di dimensione, appunto, regionale, coinvolti dalla pianificazione territoriale del comune.”

Ritiene sul punto il Collegio che mentre sotto il profilo teorico l’espresso tenore della suindicata disposizione di legge regionale conforta la tesi di parte appellante (e gli approdi cui è giunto il Tar di Lecce nella menzionata decisione prima indicata) non altrettanto può affermarsi con riferimento alla disamina della situazione concreta che, al contrario, induce a conclusioni opposte rispetto a quelle sostenute dall’ amministrazione odierna appellante.

Il punto è già stato esplorato dalla Sezione nelle sentenze n. 03537/2013 e 6040/2012(relative alla impugnazione del PUG del comune di Palo del Colle e sul cui contenuto pure ci si soffermerà nuovamente in seno al presente elaborato ) e non si ritiene di mutare divisamento rispetto all’approdo ivi raggiunto.

3.4. Invero la seconda parte del comma 7 della citata disposizione di cui all’art. 11 della legge regionale n. 20/2001 stabilisce espressamente che: “Qualora il DRAG e/o il PTCP non siano stati ancora approvati, la Regione effettua il controllo di compatibilità rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale ove esistente, ivi inclusi i piani già approvati ai sensi degli articoli da 4 a 8 della legge regionale 31 maggio 1980, n. 56, ovvero agli indirizzi regionali della programmazione socio-economica e territoriale di cui all'articolo 5 del d. lgs. 267/2000”.”.

Appare al Collegio evidente che la impostazione teorica che consente di ricomprendere la Provincia tra le Autorità co-emananti non possa trovare applicazione allorché la Provincia in concreto al momento dell’adozione del Pug non avesse ancora approvato il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, che costituisce il termine di riferimento per il giudizio di compatibilità di competenza provinciale: se essa non ha ancora approvato il proprio PTCP il controllo viene effettuato unicamente dalla Regione. 3.4.1.Nella incontestata considerazione che, nel caso di specie, allorchè il Pug venne adottato la Provincia regionale di Bari non si era ancora dotata del proprio PTCP va rimarcato che - norma dell’art. 11, comma 7°, secondo alinea, della L.R. 20/01 prima citato- allorché il DRAG e/o il Piano Territoriale di Coordinamento siano mancanti il controllo di compatibilità deve essere effettuato con riferimento agli altri strumenti di pianificazione regionale territoriale, ove esistenti, ovvero agli indirizzi regionali della programmazione socio-economica; e l’ente che la disposizione in esame individua per effettuare siffatta valutazione di compatibilità é solo la Regione, e non anche la Provincia.

Id est: laddove la Provincia non risulti aver ancora adottato il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale alla data di adozione di un nuovo P.U.G., la valutazione di compatibilità dovrà essere effettuata solo dalla Regione (evidentemente con riferimento al solo DRAG ovvero, in mancanza di questo, ad altri strumenti di pianificazione regionale o agli indirizzi regionali di programmazione socio-economica).

Può quindi affermarsi che nella Regione Puglia, dopo l’entrata in vigore della L.R. 20/01, l’impugnativa di un P.U.G. deve essere notificata, a pena di inammissibilità, a Comune, Regione e Provincia in qualità di enti ai quali é contemporaneamente riferibile il Piano Urbanistico Generale : ma ciò solo nella ipotesi (che non ricorre nel caso di specie) in cui la Provincia in concreto partecipi al procedimento di copianificazione, effettuando la valutazione di compatibilità alla stessa attribuito.

Né a contrario divisamento può indurre la circostanza che la Conferenza di servizi indetta ai sensi dell’art. 11 comma 9 della L.R. 20/01 vede come partecipante necessaria la Provincia.

In disparte la considerazione che nel caso di specie la Provincia non ebbe a parteciparvi (all’evidenza perché, non avendo la stessa ancora approvato il proprio PTCP non avrebbe potuto spiegare alcun apporto) secondo quanto si evince dall’art. 11 comma 9, ultimo alinea (“In sede di Conferenza di servizi le Amministrazioni partecipanti, nel rispetto del principio di copianificazione, devono indicare specificamente le modifiche necessarie ai fini del controllo positivo.”) alla Conferenza di servizi é affidato il compito, non di ridiscutere tutto il P.U.G., ma solo quegli aspetti che hanno determinato il parere di non compatibilità: in tale sede le varie Amministrazioni sono tenute a rispettare il principio di copianificazione, e quindi a non interferire su questioni che non attengono alla tutela degli interessi loro affidati.

Si evince poi dal comma 11 della disposizione in esame che le determinazioni assunte dalla Conferenza di Servizi non devono essere necessariamente recepite sia dalla Giunta regionale che dalla Giunta provinciale: la determinazione di adeguamento deve infatti essere recepita dalla Giunta Regionale e/o dalla Giunta provinciale entro i 30 giorni successivi alla comunicazione della determinazione medesima, e l’inutile decorso di detto termine comporta il controllo positivo da parte della Giunta regionale e/o della Giunta provinciale.

Non é, dunque, dalla semplice partecipazione alla Conferenza di servizi che discende la riferibilità del P.U.G. alla Provincia, bensì dal fatto che questa ultima in concreto eserciti la cura degli interessi localizzati a livello provinciale: ove ciò non accada il P.U.G. sarà riferibile solo al Comune ed alla Regione, alla quale é comunque demandato un controllo di compatibilità del nuovo strumento urbanistico.

3.5. Il ricorso introduttivo del giudizio, conclusivamente, nel caso di specie non andava notificato a pena di inammissibilità alla Provincia (che al momento dell’adozione del Pug non si era ancora dotata del PTCP), non essendo gli atti impugnati “riferibili” a questa ultima (si segnala in proposito che due sentenze del Tar Puglia, -la n. 307/2011 e la n. 4270/2010 entrambe non regiudicate per il vero, in quanto gravate in appello- hanno raggiunto analogo approdo ermeneutico): tale affermazione appare l’unica logica ed aderente al dettato normativo ed è vieppiù rafforzata dalla considerazione che le determinazioni della Conferenza di servizi non sono state recepite in alcun atto esplicito o tacito della Provincia (che neppure ebbe a parteciparvi), né le determinazioni medesime sono sostitutive di altri provvedimenti (tanto vero che debbono essere formalmente recepite ai sensi dell’art. 11 comma 11): ne consegue la inapplicabilità in concreto alla odierna vicenda processuale dell’insegnamento secondo il quale “posto che la conferenza di servizi è un modulo procedimentale, un metodo di azione amministrativa, e non un ufficio speciale della p.a. autonomo rispetto ai soggetti che vi partecipano, è imprescindibile la notifica del ricorso alle autorità amministrative, tra quelle partecipanti, che mediante lo strumento della conferenza di servizi abbiano adottato un atto a rilevanza esoprocedimentale lesivo della sfera giuridica del privato ricorrente.”(Cons. Stato Sez. VI, 03-03-2010, n. 1248).

La doglianza va quindi disattesa.

3.5. Non miglior sorte merita la connessa eccezione secondo cui il mezzo di primo grado non era stato notificato agli altri proprietarii del comparto, per cui ove si ritenga che la decisione gravata possa spiegare effetti nei confronti dei detti soggetti il mezzo di primo grado avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile (pag 6 dell’appello, punto 1, penultimo cpv).

3.5.1. Come è noto, il vizio di omesso rispetto del contraddittorio è rilevabile anche ex officio (vedasi oggi art. 105 del cpa):la censura/eccezione è pertanto ammissibile anche ove proposta per la prima volta in appello.

Essa è però infondata in fatto: espressamente il Tar ha fatto presente che la statuizione demolitoria era stata resa nei limiti dell’interesse di parte originaria ricorrente, per cui la statuizione non “intacca” la posizione degli altri proprietarii del comparto. Il mezzo di primo grado, quindi, non doveva essere notificato a questi ultimi

4. La ulteriore censura di natura processuale, ex art. 112 cpc, attinge direttamente la sentenza: si evidenzia a tal proposito, da parte dell’ appellante amministrazione, che il primo giudice si è discostato dal petitum dell’ originaria parte ricorrente ponendo in larga parte a fondamento della statuizione demolitoria argomenti e motivi non prospettati (violazione dell’art. 112 cpc pacificamente applicabile al processo amministrativo) e neppure sui quali era stato mai sollecitato il contraddittorio processuale (oggi: art. 73 comma 3 cpa).

4.1. Come è noto, di regola, la eccezione ex art. 112 del codice di procedura civile anche se accolta, non potrebbe condurre, all’annullamento delle statuizione gravata costituendo jus receptum (ribadito dall’attuale testo dell’art. 105 cpa) il principio per cui “l'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa.” (Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289).

Analogo principio dovrebbe valere in ipotesi di extrapetizione.

Senonchè, da un canto, laddove il giudice incorra in un simile vizio, la corrispondenza tra chiesto e pronunciato costituisce soltanto uno dei profili da esaminare, unitamente a quello di violazione delle regole che presiedono al contraddittorio processuale (come segnalato da parte appellante) che vieta le c.d. “decisioni a sorpresa” che non consentono alle parti di interloquire su tematiche processuali (ma anche sostanziali) successivamente poste a fondamento della decisione (si veda, sul punto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2000).

Sotto altro profilo, laddove il vizio ex art. 112 cpc sia sì grave da comportare uno stravolgimento assoluto delle regole processuali potrebbe ricorrere l’ipotesi di nullità “sostanziale”della sentenza (si veda: Consiglio Stato sez. V 19 novembre 2009 n. 7235) .

4.2. Entrambi i profili sinora evidenziati verranno esaminati dal Collegio, che in prima battuta verificherà se la sentenza impugnata sia effettivamente incorsa nella violazione dell’espresso disposto di cui al comma 3 dell’art. 73 del cpa, ovvero anche del principio generale sotteso alla detta disposizione.

4.2.1 Invero è noto l’orientamento della giurisprudenza amministrativa (applicato nel caso di specie ad una pronuncia di irricevibilità, ma predicabile ogniqualvolta sia stato dal giudice individuato ex officio un thema decidendi nuovo)secondo il quale “ai sensi dell'art. 105 comma 1, c.p.a. va annullata con rinvio al giudice di primo grado la sentenza che sia stata emessa senza che la questione d'irricevibilità/inammissibilità del ricorso, rilevata d'ufficio dal collegio, sia stata sottoposta alla trattazione delle parti, comportando tale omissione violazione del generale principio processuale di garanzia del contraddittorio immanente alla garanzia costituzionale del giusto processo di cui all'art. 111 cost., che opera non solo nella fase d'instaurazione del processo ma ne permea l'intero svolgimento, ponendosi detto principio come garanzia di partecipazione effettiva delle parti al processo, ossia come riconoscimento del loro diritto d'influire concretamente sullo svolgimento del processo e d'interloquire sull'oggetto del giudizio, sicché le stesse devono essere poste in grado di prendere posizione in ordine a qualsiasi questione, di fatto o di diritto, preliminare o pregiudiziale di rito o di merito, la cui risoluzione sia influente ai fini della decisione.” (Consiglio di Stato, sez.V, 08 marzo 2011, n. 1462).

Della decisione si è riportato un breve passaggio motivazionale, in quanto integralmente condiviso dal Collegio.

L'obbligo del giudice di provocare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, a pena di nullità della sentenza, è stato espressamente introdotto, nel processo civile, prima per il giudizio di cassazione con la novella apportata all'art. 384, comma 3, c.p.c. dall'art. 12 d. lgs, 2 febbraio 2006, n. 40, poi in via generale con la novella apportata all'art. 101, comma 2, c.p.c. dall'art. 45, comma 13, l. 18 giugno 2009, n. 69 - con effetto dal 4 luglio 2009 per i giudizi instaurati dopo tale data -, ma già in precedenza era ricavabile in via sistematica dalla garanzia costituzionale del giusto processo (v. Cass. Civ., Sez. III, 5 agosto 2005, n. 16577; Cass. Civ., Sez. II, 9 giugno 2008, n. 15194). Detto obbligo, correlato al potere-dovere del rilievo d'ufficio delle questioni non riservate all'eccezione di parte, quale espressione di un principio generale del processo, doveva ritenersi operante - quantomeno dopo l'entrata in vigore delle novelle apportate al c.p.c. - anche nel processo amministrativo già nella disciplina previgente l'entrata in vigore del nuovo cod. proc. amm., ove risulta ormai codificato dall'art. 73, comma 3”.

4.2.2 Con tale arresto è stato ampliato il tema delle conseguenze della violazione in primo grado del principio del contraddittorio, e si è affermato il principio della nullità della sentenza affetta da un simile vizio e, quale corollario del detto principio l’obbligo di annullare la decisione con rinvio al primo giudice (per consentire l’effettivo dispiegarsi della garanzia del doppio grado di giurisdizione) con ciò superandosi il principio in passato affermato secondo il quale” Il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d'ufficio (nella specie, il difetto di giurisdizione), deve indicarla alle parti, per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio; la violazione di questo principio, però, non consente al giudice d'appello di annullare la decisione restituendo gli atti al giudice di primo grado, ma comporta che il giudice d'appello debba comunque decidere la causa, eventualmente rimettendo in termini le parti per svolgere le difese sulla questione rilevata d'ufficio. “(Consiglio Stato , sez. IV, 14 aprile 2010 , n. 2079).

4.2.3. Orbene, nel caso di specie, ritiene il Collegio che occorra in primo luogo interrogarsi in ordine alle conseguente della applicabilità del superiore orientamento della Corte di Cassazione –che il Collegio condivide e fa proprio- alla controversia oggetto della odierna delibazione.

4.2.4. Il Collegio ritiene che la risposta debba essere in senso sfavorevole all’accoglimento della doglianza fondata sull’omesso rispetto del principio consacrato sub art. 73 comma 3 del cpa avuto riguardo alla legge vigente al momento di proposizione della domanda giudiziale di primo grado (id est: al momento della notifica del ricorso di primo grado).

Va infatti rilevato che il ricorso di primo grado è stato notificato prima della entrata in vigore dell’art. 45, comma 13, l. 18 giugno 2009, n. 69 che ha modificato l’art. 101 cpc.

E’ noto, in proposito, che la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile la “novella” di cui alla legge n. 69/2009 soltanto alle controversie instaurate successivamente alla data in cui essa è entrata in vigore (Cassazione civile , sez. trib., 26 marzo 2010 , n. 7241).

Ciò in aderenza a quanto espressamente previsto dal legislatore ai sensi dell’art. 58 della legge n. 69/2009 citata (“Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. Ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano gli articoli 132, 345 e 616 del codice di procedura civile e l'articolo 118 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile, come modificati dalla presente legge. Le disposizioni di cui ai commi quinto e sesto dell'articolo 155 del codice di procedura civile si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data del 1º marzo 2006. La trascrizione della domanda giudiziale, del pignoramento immobiliare e del sequestro conservativo sugli immobili eseguita venti anni prima dell'entrata in vigore della presente legge o in un momento ancora anteriore conserva il suo effetto se rinnovata ai sensi degli articoli 2668-bis e 2668-ter del codice civile entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Le disposizioni di cui all'articolo 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge.”).

Il Collegio condivide tale approdo e da esso non ha intenzione di discostarsi.

Ne consegue che al momento della pronuncia della gravata decisione non poteva ravvisarsi in capo al primo giudice l’obbligo di “avvertimento alle parti” oggi consacrato nell’art. 73 comma 3 del cpa in quanto allorchè era stato notificato il ricorso di primo grado (ricorso passato alla notifica il 5 gennaio 2009, depositato il successivo 26 gennaio) non era ancora entrata in vigore la “novella” modificativa dell’art. 101 cpc (né, ovviamente, l’art. 73 comma 3 del cpa).

4.3. Esclusa la ricorrenza del vizio discendente dall’omesso rispetto del principio oggi consacrato ex art. 73 del cpa, deve a a questo punto di essere scandagliato l’argomento che si pone quale profilo centrale della sollevata eccezione di extrapetizione.

4.3.1. Con l’avvertenza, però, che –avuto riguardo a quanto si è finora detto in punto di non ravvisabilità dell’obbligo ex art. 73 del cpa- tale disamina avrebbe ed ha una portata quasi esclusivamente teorica: come si è prima chiarito per granitico orientamento della giurisprudenza amministrativa (oggi confermato ex art. 105 del cpa che non menziona il vizio ex art. 112 cpc quale causa di annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice) nella ipotesi di “semplice” 'omessa pronuncia su una o più censure il giudice di appello elimina il vizio integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa.

4.4. Tanto premesso, occorre soffermarsi sulla effettiva ricorrenza del vizio ex art. 112 cpc.

4.4.1. Il Collegio non ritiene esso si ravvisabile, nel caso di specie: la parte originaria ricorrente aveva avversato il PUG proponendo critiche anche in termini generali, ipotizzando il vizio di violazione di legge, ed aveva contestato il quomodo della perequazione urbanistica effettuata dolendosi dell'inserimento dei terreni di pertinenza della odierna appellata in un comparto perequativo.

L' impugnata decisione amplia e sviluppa tematiche già affrontate -sia pure, è bene riconoscerlo, in modo assai più embrionale e limitato - nel mezzo di primo grado: non si ravvisa, nel caso di specie, una generalizzata violazione alla regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 cpc; la sentenza, salvo quanto verrà sul punto meglio in merito precisato in prosieguo, potrebbe in teoria essere contestata in rito per extrapetizione laddove, ampliando al massimo la contestazione di parte appellata perviene all'affermazione secondo cui il Pug, in quanto strumento non attuativo non avrebbe potuto direttamente disporre l'inserzione dei suoli di parte in distretti/comparti perequativi.

La circostanza che il denunciato vizio potrebbe forse attingere soltanto una modesta parte dell'iter motivazionale della citata decisione e che, perdipiù, avverso il capo della sentenza affetto dal detto vizio siano state articolate dall'appellante Regione puntuali censure (che come di qui a poco si chiarirà, peraltro, il Collegio considera fondate) esonera dal disporre la regressione del procedimento annullando la sentenza, e consente (in ossequio al principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 della Costituzione che impone di non disporre la regressione allorchè la violazione alle regole processuali - pur riscontrabile - non arrechi danno alla posizione di chi ha ragione) di ritenere la causa decidendo il merito.

4.4.2. Quanto sinora rilevato- si evidenzia per completezza espositiva- avrebbe quindi, comunque implicato altresì la reiezione del connesso profilo della affermata violazione del contraddittorio (principio, come prima si è chiarito, che è oggi consacrato ex art. 73 del cpa,) :il modesto scostamento dalle censure articolate nel mezzo di primo grado non ha condotto il giudice ad esaminare argomenti sui quali mai la parte ricorrente in primo grado aveva sollecitato il vaglio, di guisa che nessuna concreta lesione avrebbe potuto essere riscontrata anche sotto tale angolo prospettico.

5. Può a questo punto essere vagliato il merito della controversia, iniziando la disamina alle censure articolate avverso i capi di sentenza che hanno accolto le censure di primo grado rubricate ai nn 2 e 3 del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

5.1. Il Collegio, ritiene di immediatamente evidenziare le propria condivisione dei principi già contenuti in due sentenze della Sezione (la n. 03537/2013 e la n. 6040/2012 resa all’udienza pubblica del 6 novembre 2012 e depositata in data 28 novembre 2012) ed, altresì parzialmente richiamati in una più recente sentenza della Sezione (la n. 1241 resa all'udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2013 e depositata il 13.3.2014, relativa proprio al PUG di Trani).

5.2. Nell’ambito della detta richiamata vicenda processuale di cui alle sentenze n. 03537/2013 e n. 6040/2012, in particolare, è stata esaminata la legislazione regionale pugliese ed è stato esaminato un profilo di diritto esattamente coincidente con la tematica delibata nella prima parte della sentenza gravata.

Con le dette decisioni –da intendersi integralmente richiamate e trascritte in questa sede è stata confutata la motivazione demolitoria (identica a quella oggetto dell’odierno esame giudiziale) incentrata sulla non delimitabilità dei comparti ad opera del PUG.

5.3. Ivi sono stati affermati e principi che di seguito si illustrano e si ribadiscono.

5.3.1. E’apparsa innanzi tutto corretta la premessa maggiore del ragionamento seguito dal Tar, laddove questo ha

affermato un principio – quello secondo il quale la perequazione urbanistica mediante comparto potrebbe aver luogo soltanto per il tramite di uno strumento attuativo – attraverso una dotta e circostanziata ricostruzione di natura “storica” in larga parte non contestata dalla appellante Regione.

In particolare, la ricostruzione dell’istituto contenuta sino al capo n. 2.2.5. della decisione n. 1962/2010 (cui la sentenza gravata ha fatto integrale rifermento) richiama il dettato normativo di cui all’art. 15 della legge regionale della Puglia 12 febbraio 1979 n. 6 (“Il comparto costituisce una unità di intervento e/o di ristrutturazione urbanistica ed edilizia.

Può comprendere immobili da trasformare e/o aree libere da utilizzare secondo le previsioni e prescrizioni degli strumenti urbanistici generali ed attuativi.

Esso ha come finalità precipua quella di conseguire, tra i proprietari e/o gli aventi titolo interessati, la ripartizione percentuale degli utili e degli oneri connessi all'attuazione degli strumenti urbanistici generali.

Il comune può procedere alla delimitazione dei comparti in sede di attuazione degli strumenti urbanistici generali, ivi compreso il Programma di Fabbricazione, ovvero in sede di formulazione del P.P.A.

La realizzazione degli interventi previsti nel comparto è subordinata all'approvazione di strumenti urbanistici attuativi di iniziativa pubblica o privata estesi all'intero comparto.

L'approvazione dei predetti strumenti urbanistici esecutivi costituisce dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità di tutte le opere previste nel comparto [19].

Il sindaco, entro trenta giorni dall'avvenuta approvazione dello strumento urbanistico attuativo, notifica ai proprietari e/o aventi titolo interessati il provvedimento medesimo, indicando loro le modalità di esecuzione del comparto ed i termini entro cui dovranno dichiarare se intendono, da soli o riuniti in Consorzio, eseguire le opere programmate previa stipula di apposita convenzione.

Decorso il termine su indicato, il Comune procede all'esecuzione d'ufficio del Comparto, anche a mezzo di esproprio, nei confronti dei proprietari e/o degli aventi titolo che non abbiano assentito al Comparto.

Le aree e gli immobili espropriati vengono acquisiti al patrimonio del Comune conservando la destinazione d'uso prevista dagli strumenti urbanistici vigenti e sono utilizzati a norma dell'art. 13 comma sesto della presente legge, ovvero a norma dell'art. 15 comma terzo della legge n. 10 del 28 gennaio 1977.”) e non è stata avversata da parte appellante.

Il comma 3 della citata disposizione, effettivamente, prevedeva che il comune potesse procedere alla delimitazione dei comparti in sede di attuazione degli strumenti urbanistici generali (detta disposizione così è stata in passato interpretata dalla giurisprudenza: “la norma dell'articolo 15 della L.R. 12 Febbraio 1979, n. 6 attribuisce al comparto l'importante ed innovativa funzione di individuare, essenzialmente a fini perequativi, una unità di intervento urbanistica ed edilizia, superando il risalente istituto del comparto meramente edificatorio già contemplato dagli artt. 870 del C.C. e 23 della L. 17 Agosto 1942, n. 1150 -al quale era affidata la più limitata funzione di individuare le unità fabbricabili al precipuo scopo di realizzare concretamente, anche a mezzo di esproprio, le previsioni edificatorie degli strumenti urbanistici attuativi-, e unificando le posizioni dei vari proprietari entro un ambito spaziale più ampio di quello dei singoli lotti, allo scopo di ottenere l'equa distribuzione tra gli stessi dei vantaggi e degli oneri derivanti dalle –diverse- destinazioni previste -per le rispettive aree- dallo strumento urbanistico generale -tramite il c.d. "zoning"-. Tar Puglia, Lecce Sez. I, sent. n. 1385 del 02-04-2007.”).

Parte appellante ha formulato invece una serrata critica allo sviluppo motivazionale ulteriore, contenuto nei successivi capi della impugnata decisione, laddove il primo giudice è pervenuto al convincimento che la situazione non abbia subìto mutamenti neppure per effetto della entrata in vigore della L.R. 20/2001, che ha disciplinato il Piano Urbanistico Generale, recependo espressamente i principi della perequazione urbanistica, peraltro sospendendo l’obbligo di approvazione del Programma Pluriennale di Attuazione e facoltizzando i comuni che nel frattempo se ne sono dotati a revocarlo o mantenerlo fino alla scadenza.

Ad avviso del Tar la L.R. 20/2001 non toccava in alcun modo l’istituto del comparto edificatorio, di cui non si occupa minimamente. Essa dichiarava di ispirarsi ai principi della perequazione (art. 2 lett. d), ma di fatto introduceva un solo strumento di perequazione, laddove, all’art. 14, stabiliva che “Al fine di distribuire equamente, tra i proprietari interessati dagli interventi, i diritti edificatori attribuiti dalla pianificazione urbanistica e gli oneri conseguenti alla realizzazione degli interventi di urbanizzazione del territorio, il PUG può riconoscere la stessa suscettività edificatoria alle aree comprese in un PUE.”.

L’ avversata decisione, conclude, coerentemente con le premesse pedissequamente riportate in precedenza, esprimendo il convincimento che non spetta invece al P.U.G. non che la perimetrazione dei comparti edificatori, neppure la stessa perimetrazione dei PUE: infatti tale operazione comporta un vincolo di aggregazione tra aree che suppone valutazioni proprie della pianificazione di dettaglio e che, tra l’altro, preclude ai proprietari dei fondi di valutare diverse, e magari più proficue, ipotesi di aggregazione.

5.3.2. Il Collegio – come già avvenuto con le richiamate decisioni - concorda con le critiche prospettate da parte appellante a detta ricostruzione.

La portata innovativa della legge regionale della Puglia in parte qua, rispetto al previgente quadro normativo, si rinviene negli arrt. 14, 9 comma 3 e 18 della legge n. 20/2001.

Dette prescrizioni, infatti, delle quali di qui a breve si riporterà il testo - nelle parti di interesse per l’odierno procedimento- consentono di affermare che la affermazione contenuta nella lett. d del comma 2 della citata legge (art. 2:“ La presente legge assicura il rispetto dei princìpi di:

a) sussidiarietà, mediante la concertazione tra i diversi soggetti coinvolti, in modo da attuare il metodo della copianificazione;

b) efficienza e celerità dell'azione amministrativa attraverso la semplificazione dei procedimenti;

c) trasparenza delle scelte, con la più ampia partecipazione;

d) perequazione.”) non integri una mera manifestazione di intenti di natura programmatica ma abbia immutato il quadro normativo di riferimento.

Diversamente da quanto sostenuto nella gravata sentenza, laddove si svaluta la portata innovativa della citata legge affermando che la stessa introduca un solo strumento di perequazione all’art. 14 (“al fine di distribuire equamente, tra i proprietari interessati dagli interventi, i diritti edificatori attribuiti dalla pianificazione urbanistica e gli oneri conseguenti alla realizzazione degli interventi di urbanizzazione del territorio, il P.U.G. può riconoscere la stessa suscettività edificatoria alle aree comprese in un P.U.E.”), nel testo di legge suddetto si rinviene all’art. 9 comma 3 la norma “cardine” che consente di affermare che la parte programmatica del PUG possa direttamente disciplinare i comparti perequativi ( “Le previsioni programmatiche:

a) definiscono, in coerenza con il dimensionamento dei fabbisogni nei settori residenziale, produttivo e infrastrutturale, le localizzazioni delle aree da ricomprendere in P.U.E., stabilendo quali siano le trasformazioni fisiche e funzionali ammissibili; b) disciplinano le trasformazioni fisiche e funzionali consentite nelle aree non sottoposte alla previa redazione di P.U.E. ” ).

Il successivo art. 18, poi, dedicato alla disciplina dei rapporti intercorrenti tra Pug e Pue, prevede che :“ Il P.U.E. può apportare variazioni al P.U.G. qualora non incida nelle previsioni strutturali del P.U.G., ferma l'applicazione del procedimento di cui all'articolo 16.

2. Ai fini della formazione del P.U.E., non costituiscono in ogni caso variazione del P.U.G.:

a) la modificazione delle perimetrazioni contenute nel P.U.G. conseguente alla trasposizione del P.U.E. sul terreno;

b) la modificazione delle localizzazioni degli insediamenti e dei relativi servizi che non comporti aumento delle quantità e del carico urbanistico superiore al 5 per cento. ” .

Ad avviso del Collegio – che concorda sul punto con quanto segnalato dalle parti appellanti – tale armonico quadro normativo comporta una decisa smentita all’affermazione contenuta nelle impugnate decisioni, e consente di affermare che nel Pug possa essere contenuta in via diretta la “perimetrazione” del Pue.

Peraltro, una formidabile comprova a quanto finora affermato si rinviene, ad avviso del Collegio, nell’art. 4 comma 3 della citata legge regionale “1. La Giunta regionale, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, approva il Documento regionale di assetto generale (D.R.A.G.) in coerenza con i programmi, gli obiettivi e le suscettività socio - economiche del territorio.

2. Il D.R.A.G. definisce le linee generali dell'assetto del territorio, nonché gli obiettivi da perseguire mediante i livelli di pianificazione provinciale e comunale.

3. In particolare, il D.R.A.G. determina:

a) il quadro degli ambiti territoriali rilevanti al fine della tutela e conservazione dei valori ambientali e dell'identità sociale e culturale della Regione;

b) gli indirizzi, i criteri e gli orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto degli strumenti di pianificazione provinciale e comunale, nonché i criteri per la formazione e la localizzazione dei Piani urbanistici esecutivi (P.U.E.) di cui all'articolo 15;

c) lo schema dei servizi infrastrutturali di interesse regionale”.

Secondo l’espresso tenore della citata disposizione,quindi il D.R.A.G. determina gli indirizzi, i criteri e gli orientamenti per la formazione, il dimensionamento e il contenuto degli strumenti di pianificazione provinciale e comunale, nonché i criteri per la formazione e la localizzazione dei Piani urbanistici esecutivi (P.U.E.) di cui all'articolo 15.

Proprio nel D.R.A.G approvato con Delib.G.R. 3 agosto 2007, n. 1328 in particolare, è dato rinvenire l’affermazione secondo la quale “Il PUG - parte programmatica, inoltre, dovrà stabilire quanto segue… “I comparti urbanistici o altri meccanismi che consentano l'applicazione del principio della perequazione introdotto dall'art. 2 della L.R. n. 20/2001 e di quanto indicato nell'art. 14 della medesima legge; a questo scopo il PUG/P può suddividere il territorio comunale in "distretti perequativi", individuati in base allo stato di fatto ed allo stato di diritto, indipendentemente dalla destinazione specifica, pubblica o privata, assegnata loro dal disegno del piano urbanistico; per ciascun distretto il PUG/P attribuisce un indice di utilizzazione territoriale diverso, a partire da dette differenti condizioni; qualora quest'ultimo metodo perequativo non sia realizzabile per ragioni legate alla struttura proprietaria o a resistenze culturali, sarebbe comunque opportuno privilegiare l'attuazione mediante PUE di iniziativa privata con realizzazione delle urbanizzazione e dei servizi a totale carico dei privati; in caso contrario la dimostrazione della disponibilità delle risorse finanziarie per la realizzazione di infrastrutture e servizi pubblici e/o dei modi e strumenti per provvedervi, che dovrebbe comunque caratterizzare le previsioni programmatiche del PUG, assume ancora maggiore rilevanza.”.

Tale affermazione – che per le già chiarite ragioni il Collegio non considera disarmonica rispetto all’espresso dettato normativo contenuto nella legge regionale n. 20/2001- costituisce la più puntuale smentita alle affermazioni contenute nella citata decisione.

5.3.3. Nella richiamata decisione n. 6040/2012 pur ivi concordandosi con la circostanza secondo cui la prescrizione del Drag non trovava applicazione per i piani adottati in epoca precedente all'approvazione dello stesso, è stato peraltro rilevato che “la (unica) conseguenza che si poteva ricavare dalla circostanza della mancata applicazione del DRAG ai piani adottati in precedenza era quella per cui laddove Pug comunale discostato dalle indicazioni contenute nel Drag, - in quanto non vincolanti avuto riguardo all’epoca di adozione del piano predetto- esso non avrebbe potuto essere affetto da alcun vizio di illegittimità a cagione della omessa diretta previsione di comparti urbanistici.”

Non poteva invece certamente affermarsi che le dette previsioni contenute nel Pug “divenissero” illegittime sol per essersi “conformate” ad indicazioni – per le già chiarite ragioni ratione temporis non vincolanti- contenute nel Drag.”

Nelle più volte richiamate decisioni, poi, il Collegio ha irrobustito l’iter motivazionale rilevando che “non possono trarsi argomenti contrari all’approdo ermeneutico dianzi esposto dalla motivazione della recente decisione della Sezione n. 4828/2012 in quanto nella stessa si afferma espressamente (con rifermento all’art. 14 della legge regionale della Puglia n. 20/2001) che “La formulazione della norma rende evidente come la circostanza che il piano urbanistico generale attribuisca ad aree in un piano urbanistico esecutivo una valenza edificatoria è vicenda del tutto eventuale e non cogente. L’art.14 si rivolge, infatti, agli enti pianificatori, attribuendo a questi la potestà di avvalersi, al momento della redazione dello strumento generale, dell’istituto perequativo. ”.

L’inciso successivo ivi contenuto, secondo il quale “la perequazione disciplinata dalla legge regionale non opera allora come un principio conformante l’azione del Comune, ma rappresenta una delle modalità con le quali può essere esplicata la facoltà pianificatoria a questi attribuita e, pertanto, il principio perequativo si applicherà se ed in quanto previsto nello stesso strumento generale, venendo poi attuato tramite un piano urbanistico esecutivo” non vale ad escludere che alla perequazione si addivenga direttamente mercè lo strumento generale.”.

5.3.4. Nè, ad avviso del Collegio, in senso contrario alla ricostruzione sinora esposta può essere invocata la disposizione5.04 delle N.T.A. del PUG in esame: il requisito della maggioranza previsto per la presentazione del piano di comparto attiene alla esecuzione delle trasformazione sull’area così individuata, e garantisce i proprietari “maggioritari”, ma non attiene alla perimetrazione, a monte, dei comparti medesimi.

5.4. Il Collegio, alla luce di quanto sinora esposto ribadisce e fa proprie le considerazioni di cui alle citate decisioni n. 03537/2013 n. 6040/2012 e n. 1341/2013, il che implica l’accoglimento della parte dell’appello che va dal punto2 al punto 7.

In più, può affermarsi che appare altresì al Collegio –ad abundantiam- condivisibile il punto 8 ed il punto 9, fondato su una disamina in contrato della applicazione del principio dello zoning da parte del PUG di Trani: ciò discende dalla constatazione che esso è stato articolato nelle zone omogenee normate dal dM 1444/68, e che quindi, la suddivisione in comparti non fa venire meno la zonizzazione, finendo con l’incidere, unicamente, sul quomodo dell’acquisizione delle aree a standard e sul trattamento omologo dei proprietarii delle aree inserite in comparto, che sono latori di eguale volumetria, a prescindere dalla destinazione concreta delle aree di rispettiva pertinenza.

Il che si inquadra appieno nella ratio e nella filosofia che sta alla base della tecnica pianificatoria perequativa e risponde agli scopi della legislazione pugliese nei termini che sono stati rappresentati dal Collegio.

In parte qua, l’appello va dunque accolto

6. Ciò non esaurisce il compito demandato al Collegio perché, come già succintamente esposto nella parte “in fatto” del presente elaborato, il Tar ha anche accolto la specifica doglianza di cui al quinto motivo del mezzo di primo grado, mercè il quale si era censurato che, essendo stata inserita nell’Atlante dei Beni Architettonici una certa Cappella San Giovanni, era stata disposta la inedificabilità di un’area confinante con tale edificio, considerato come area “annessa”.

6.1 Ad avviso dell’appellante Regione (motivi 10-14 dell’atto di appello, pagg. 23-31), il Tar aveva errato anche sotto tale profilo, in quanto la legislazione pugliese consentiva ed imponeva che l’ente locale provvedesse anche alla tutela di aree di pregio architettonico in quanto “riflesso” della tutela paesaggistica.

6.2. Il Collegio non concorda con la critica appellatoria.

6.3. La critica appellatoria muove da una premessa fondata, ed approda a conseguenze del tutto non condivisibili.

Può affermarsi che il punto di partenza dell’appello (peraltro ivi espressamente citato) riposa in una condivisibile constatazione resa in una importante pronuncia di questa Sezione (n. 4818/2005), laddove, esplorandosi il rapporto fra piano regolatore generale o sue varianti da un lato, e vincoli e destinazioni di zone a vocazione storica, ambientale e paesistica, dall'altro, (in conformità ai precedenti indirizzi espressi del Consiglio di Stato: sez. IV, n. 1734 del 1998 cit.; Cons. giust. amm. sic. 30 giugno 1995, n. 246) si è affermato che i beni costituenti bellezze naturali possono formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica o ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione, preordinate a curare, con diversi strumenti, distinti interessi pubblici, e che il comune conserva la titolarità, nella sua attività pianificatoria generale, della competenza ad introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al soddisfacimento di interessi paesaggistici.

Può a ciò aggiungersi che di recente (decisione della Sezione n. 3255, del 12 giugno 2013) si è riconosciuta la portata conformativa di atti provenienti dall’Amministrazione comunale, in chiave protettiva di interessi ambientali e paesaggistici.

Nella detta pronuncia in ultimo citata, si è evidenziato che costituisce finalità istituzionale ascrivibile alle amministrazioni comunali quella di salvaguardia dei caratteri tradizionali dei centri storici, contrastando il rischio di degrado e snaturamento; ed ivi, parimenti,

(quale si riporta uno stralcio motivazionale della richiamata sentenza ) si è affermato che “E’ questa, una aspirazione non recente e profondamente sentita, soprattutto riguardante le c.d. “ città d’arte” (il Primo Convegno Nazionale sulla salvaguardia e il risanamento dei centri storici artistici si tenne a Gubbio nel 1960 e nella “Carta di Gubbio” che ne scaturì a seguito della dichiarazione finale, venne ricompresa una affermazione destinata a modificare il concetto di “centro storico” e ad influenzare profondamente la cultura urbanistica italiana. “l’intero centro storico è un monumento”).

Trattasi di una esigenza che il Collegio non esita a definire in sé altamente lodevole e comunque, quel che più rileva, già a più riprese affermata dal legislatore nazionale, con una pluralità di disposizioni normative, contenute in più testi di legge aventi oggetto diverso, che hanno il comune denominatore di aspirare alla conservazione delle caratteristiche di tipicità dei centri storici, nel tentativo di mantenerne il più possibile inalterate le caratteristiche evitando peraltro la marginalizzazione delle iniziative tradizionali.

Sarebbe impossibile fornire un elenco esaustivo delle dette disposizioni in questa sede: ma tralasciando –in quanto scontato- il referente normativo che si rinviene nel TU sull’edilizia, è sufficiente rammentare il disposto di cui all’art. 6, terzo comma, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (che prevede espressamente, come uno degli obiettivi da perseguire sia quello di salvaguardare e riqualificare i centri storici anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti ed il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ambientale; del pari le Regioni, nel definire gli indirizzi generali devono tener conto principalmente della caratteristiche dei centri storici al fine di salvaguardare e qualificare la presenza delle attività commerciali ed artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato ed evitare il processo di espulsione delle attività commerciali e artigianali più radicate nel tessuto sociale), ovvero la prassi applicativa che è stata data dell’art. 136 del D.Lgs. n. 42/2004 laddove si ammette che si possano, mediante tale norma, porre vincoli su antichi castelli, villaggi, borghi, agglomerati urbani e zone di interesse archeologico e persino su interi centri storici (il decreto legislativo n. 63 del 2008 ha anzi espressamente previsto tale possibilità per siffatta categoria di beni).

Ulteriore comprova sul piano normativo di tale impostazione è data infine dalla Convenzione europea del Paesaggio, siglata a Firenze il 20 ottobre 2000 e recepita nell’ ordinamento italiano con legge 9 gennaio 2006, n. 14 (alla stessa, va attribuita quindi efficacia sub-costituzionale ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione) laddove ivi si afferma espressamente la possibilità, di estendere le norme poste a protezione del paesaggio anche agli spazi urbani (art. 2 della convenzione).

Ciò ha indotto qualificata dottrina ad individuare i "beni ambientali urbanistici" qual categoria a sé stante, con la conseguenza della non eccentricità rispetto al sistema dell'imposizione di vincoli aventi ad oggetto interi centri urbani.”

Nella detta decisione, poi, la Sezione si è interrogata “sulla facoltà, per un’amministrazione comunale, di imporre un vincolo sulla utilizzazione di singoli beni ricorrendo al potere conformativo esplicato mediante zonizzazione e, più ancora, di ricorrere a microzonizzazioni. E se ciò sia possibile anche laddove la “zonizzazione” finisca con il coincidere con un singolo bene immobile (imponendo, al contempo, un limite all’utilizzo del medesimo) “.

La risposta è stata negativa, essendosi ritenuto che “neppure con un provvedimento “puntuale”, incidente su un singolo bene, comunque demandato all’Autorità centrale, e giustificato dalla singolarissima “individuale” peculiarità di quest’ultimo, potrebbe vincolarsi un bene ad un determinato utilizzo (salvo sconfinare dal potere conformativo esercitato “singulatim”a quello, sostanzialmente ablatorio).

Per altro verso, non è precluso all’amministrazione comunale (che pure non possiede simili prerogative in punto di imposizione di vincolo “singulatim” incidente su un determinato plesso immobiliare) la possibilità di addivenire alla cosiddetta "microzonizzazione" cioè, all'individuazione di sottozone con caratteristiche peculiari nell'ambito di quelle previamente individuate, purché sia rispettata la necessità che, per aree aventi caratteristiche comuni ed omogenee, venga individuata la corrispondente classificazione e con essa l'uniformità di disciplina".

Consegue da ciò che "la previsione di prescrizioni difformi per aree appartenenti ad una determinata zona, con conseguente diversità di disciplina, deve, dunque, ritenersi di per sé consentita all'Amministrazione, che deve farsi interprete delle esigenze peculiari proprie di taluni ambiti, il che richiede, tuttavia, che la correlativa statuizione sia sorretta da un'adeguata e puntuale motivazione" (cfr., T.A.R. Lombardia, Brescia, 20.11.2001, n. 1000, T.R.G.A. Trentino-Alto Adige Trento Sez. Unica, 07-01-2010, n. 1).”

E’ stato pertanto ivi stigmatizzato che “venisse operata una microzonizzazione (questa sì, in via di principio, per le già chiarite ragioni ammissibile), ma poi, nella sostanza, la “zona” non viene disciplinata, o, il che è lo stesso, la “zona” finisce con il coincidere con un punteggiamento che riguarda singoli esercizi (librerie) per i quali si consentono soltanto taluni utilizzi, in continuità con quelli preesistenti.

Id est: la zona “è” l’edificio, o addirittura la singola porzione di edificio ed esiste e si giustifica se ed in quanto in quell’edificio o parte di esso si svolga quella determinata attività. “.

In ultimo, si è posto in luce “che il principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici che discende dal più generale principio di legalità e di tipicità degli atti amministrativi, ridonda nell'impossibilità per l'Amministrazione di dotarsi di piani urbanistici i quali, per "nome, causa e contenuto", si discostino dal numerus clausus previsto dalla legge (si veda Cons. Stato Sez. IV, Sent., 13-07-2010, n. 4545).

Ciò in quanto, nel caso concreto, la microzona, non viene neppure individuata in ragione di caratteristiche tipiche di più edifici e complessi immobiliari adibiti ad una data destinazione e tra essi contigui (ad es: la via degli antiquari, il plesso delle rivendite di armi, etc) ma la microzona “è” il singolo immobile, in quanto esiste e si giustifica con riferimento unicamente a quest’ultimo, tanto che non analoghi vincoli di utilizzo sono previsti su immobili allo stesso contigui o, addirittura, su altre porzioni del singolo immobile, laddove non adibite al detto uso (qualificato come rilevante dal comune).”.

Sin qui la sentenza richiamata n. 3255/2013.

Ritiene il Collegio che essa offra utili spunti per la risoluzione della controversia, e che gli argomenti ivi contenuti, unitamente a quelli che si vanno ad enunciare, militino senz’altro per la reiezione dell’appello.

Come correttamente esposto dal Tar, invero, pur dovendosi affermare la possibile compresenza delle tutele, è patrimonio acquisito quello per cui (ex aliis Consiglio di Stato sez. VI

13/09/2012 n. 4872)le valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo e del conseguente regime, costituiscono espressione di un potere di apprezzamento essenzialmente tecnico, con cui si manifesta una prerogativa propria dell'Amministrazione dei beni culturali nell'esercizio della sua funzione di tutela del patrimonio.

Analoghi principii devono valere laddove l’interesse sia di natura architettonica, artistica, etc, ovviamente stante la equiordinazione di tali “interessi” che giustificano il provvedimento di apposizione del vincolo: equiordinazione contenuta nel d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42 .

Nella citata decisione 13/09/2012 n. 4872 è stato poi chiarito che la dichiarazione di interesse particolarmente importante di un immobile ai sensi della legge n. 1089 del 1939 (come oggi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42 - Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte II) costituisce il propriun della tutela (e scaturisce dall'applicazione di canoni e criteri apprezzamento tecnico del valore artistico, ovvero della rilevanza storica o testimoniale dei beni: da questa caratteristica connotazione consegue la limitazione del riscontro di legittimità per eccesso di potere al difetto di motivazione, ovvero all'illogicità manifesta o all'errore di fatto).

La legislazione nazionale tiene in via di principio separata la materia dell’edilizia da quella protezionistica degli interessi ambientali e paesaggistici.

Assai numerose sono le disposizioni che unitamente a quella, di portata centrale, individuata dal Tar (“ i vincoli di natura culturale su beni di proprietà di persone fisiche private possono essere imposti soloall’esito della dichiarazione di interesse contemplata all’art. 13 D. L.vo 42/04, mentre quelli di natura paesaggistica derivano dalla legge, da una analoga dichiarazione di interesse ovvero da una pianificazione paesaggistica”) depongono in tale senso.

Ai sensi dell'art. 146, d.lg. 22 gennaio 2004 n. 42 ogni intervento lato sensu edilizio, che coinvolga beni tutelati dal punto di vista architettonico e/o paesaggistico, è soggetto a previa autorizzazione paesaggistica la quale, a regime, viene rilasciata dall'Autorità titolare della gestione del vincolo, su parere obbligatorio e vincolante della competente Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio o, in caso di compresenza anche del vincolo archeologico, della Direzione regionale per i beni culturali.

Quindi v’è una –ed una sola –Autorità centrale deputata alla gestione del vincolo.

Avuto riguardo alla possibilità che le prescrizioni vincolistiche si esplichino mediante tutela indiretta, vengono in rilievo le fonti normative di cui al d.Lvo n. 42/2004 ed al D.P.R. n. 233/2007.

L'art. 17, c. 3, lett. e) del DPR 26 novembre 2007 n. 233 (Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, a norma dell'articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296), così recita:

"1. Le direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici coordinano l'attività delle strutture periferiche del Ministero di cui all'articolo 16, comma 1, lettere b), c), d), e), e f), presenti nel territorio regionale; queste ultime, pur nel rispetto dell'autonomia scientifica degli archivi e delle biblioteche, costituiscono articolazione delle direzioni regionali. Curano i rapporti del Ministero e delle strutture periferiche con le regioni, gli enti locali e le altre istituzioni presenti nella regione medesima .

2. L'incarico di direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici è conferito ai sensi dell'art. 19, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previa comunicazione al presidente della regione, sentito il segretario generale.

3. Il direttore regionale, in particolare:

....e) detta, su proposta delle competenti Soprintendenze di settore, prescrizioni di tutela indiretta ai sensi dell'articolo 45 del Codice".

L'art. 45 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) statuisce che:

"1. Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.

2. Le prescrizioni di cui al comma 1, adottate e notificate ai sensi degli articoli 46 e 47, sono immediatamente precettive. Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici".

Si potrebbe continuare.

Il quadro che emerge, è, ad avviso del Collegio univoco:

a)spetta all’Autorità centrale il compito di stabilire l’an della tutela (se un bene immobile sia o meno di interesse storico, artistico, culturale);

b)alla stessa spetta individuare altresì il quomodo di tale tutela, mercè gli strumenti apprestati ex lege;

c)ciò avviene in seno ad un procedimento “garantito” (che è quello disegnato prima dalla legge del 1909,poi dalla legge n. 1089 del 1939 ed oggi dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42) ;

d) e l’apposizione del vincolo comporta penetranti conseguenze (diritto di prelazione, necessità di autorizzazione per modifiche ed interventi sullo stesso impingenti etc);

e)tutta questa attività “gestoria” successiva e conseguente alla avvenuta apposizione del vincolo pertiene alla stessa autorità centrale che lo ha imposto.

Il principio di possibile compresenza dei vincoli, implicha che gli enti locali e le Regioni possano introdurre ulteriori prescrizioni o sottoporre i beni vincolati a forme aggiuntive di tutela (purchè, è ovvio, non incompatibili od interferenti con le prescrizioni dettate dall’autorità centrale).

E che in sede di zonizzazione possano a loro volta salvaguardare valori paesaggistici.

Ciò che certamente non pertiene all’Ente Locale riposa nel:

a)vincolare un bene che non sia già stato sottoposto a vincolo dalla competente Autorità centrale (o che, addirittura, l’Autorità centrale abbia già ritenuto di non dovere sottoporre a vincolo, evenienza questa che rende plastica la contraddizione in cui incorre la critica appellatoria):

b)salvaguardare interessi paesaggistici agendo singulatim su un singolo bene: il limite è quello della zonizzazione

Ciò per una congerie di ragioni, in parte enunciate dal Tar:

a)perché la Legge stabilisce un ordine di competenza e quella vincolistica non “architettonica” e/o culturale od artistica non rientra tra le competenze comunali e/o esclusive regionali;

b)perché – può aggiungersi -poi non si saprebbe individuare il soggetto “gestore” della fase post-vincolistica (chi dovrebbe autorizzare eventuali lavori urgenti sul bene? La Soprintendenza che quel bene non ha mai vincolato? O l’intera congerie di prescrizioni scolpita nel d.Lgs n. 42/2004 dovrebbe fare capo all’ente locale?in ipotesi di alienazione del bene quale sarebbe l’Autorità deputata ad esercitare la prelazione?);

c)perché un vincolo puntuale di tale natura impresso su un singolo bene con un strumento urbanistico generale dequota tutte le garanzie infraprocedimentali a tutela dello statuto proprietario contenute nel d.Lgs n. 42/2004.

La Regione ed il Comune hanno certamente un potere di segnalazione; con le zonizzazioni possono intervenire a salvaguardia di aree di pregio non previamente vincolate dall’autorità centrale: non possono imporre un vincolo su un singolo bene se non a costo di una sovrapposizione di poteri di cui non v’è traccia nella legislazione nazionale ed in relazione alla quale non sono utilmente invocabili gli strumenti della legislazione regionale a tutela dell’ambiente e del paesaggio.

Può a ciò aggiungersi che un tale principio emerge con chiarezza da una serena analisi della giurisprudenza in punto di “interferenza” delle valutazioni regionali con quelle delle Autorità preposte ai vincoli storici, paesaggistici, etc (ex aliis T.A.R. Lecce sez. I 20/11/2014 n. 2833) ma, soprattutto, da una analisi dei numerosi convergenti arresti del Giudice delle leggi.

Limitandosi a richiamare i più recenti (Corte Costituzionale

17/07/2013 n. 194 “soltanto la disciplina statale - specialmente nel codice dei beni culturali - può assicurare, in funzione di tutela -e, in considerazione della unitarietà del patrimonio culturale…-“; Corte Costituzionale

04/06/2010, n. 193) si rammenta che la Corte Costituzionale ha, in primis, affermato che “gli art. 4 e 5 d.lg. 22 gennaio 2004 n. 42, impongono la cooperazione con lo Stato quale presupposto per l'esercizio da parte delle regioni di funzioni amministrative di tutela, nella parte in cui si riferiscono (non solo alla gestione o alla valorizzazione, ma anche) alla tutela del patrimonio storico-culturale ed architettonico o di quello archeologico, storico, artistico e culturale.”( Corte Costituzionale 04/06/2010, n. 193).

Secondariamente, si evidenzia che in una recente decisione la Consulta (Corte Costituzionale 09/07/2015 n.140) ha - non soltanto ribadito il principio della doverosa leale collaborazione tra Stato e Regioni per le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, ma anche- perimetrato i rispettivi ambiti di intervento dei detti Poteri dello Stato.

Ivi, infatti, si è condivisibilmente affermato che “tale patrimonio, costituendo un bene intrinsecamente comune e refrattario ad arbitrarie frantumazioni, è affidato alla cura della Repubblica nelle sue varie articolazioni, dovendosi pertanto individuare una ideale contiguità tra le funzioni di tutela (intesa come l'individuazione, la protezione e la conservazione dei beni che costituiscono il patrimonio culturale), affidate alla competenza esclusiva dello Stato, e quelle di valorizzazione (intesa come la migliore conoscenza, fruizione e utilizzo dei medesimi), assegnate invece alla competenza concorrente di Stato e Regioni. “.

La funzione di tutela, quindi, resta saldamente attribuita alla esclusiva competenza statuale.

Piace al Collegio riportare per esteso un breve passo della citata decisione, perché ivi è tratteggiato il nucleo centrale del con visibile approdo della Corte Costituzionale.

Si è rilevato infatti che “6.1. - Ciò premesso, va (sotto altro profilo) riaffermato come la tutela dei beni culturali, inclusa nel secondo comma dell'art. 117 Cost., sotto la lettera s), tra quelle di competenza legislativa esclusiva dello Stato, sia materia dotata di un proprio àmbito, ma nel contempo contenente l'indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce quindi una materia-attività (sentenza n. 26 del 2004), in cui assume pregnante rilievo il profilo teleologico della disciplina (sentenza n. 232 del 2005).

D'altro canto, è però significativo come lo stesso art. 1 del codice dei beni culturali, nel dettare i princìpi della relativa disciplina, sancisca (al comma 2) che «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura». Ciò implica, per un verso, il riferimento a un “patrimonio” intrinsecamente comune, non suscettibile di arbitrarie o improponibili frantumazioni ma, nello stesso tempo, naturalmente esposto alla molteplicità e al mutamento e, perciò stesso, affidato, senza specificazioni, alle cure della “Repubblica”; per altro verso, una sorta di ideale contiguità, nei limiti consentiti, fra le distinte funzioni di “tutela” e di “valorizzazione” di questo “patrimonio” medesimo, ciascuna identificata nel proprio àmbito competenziale fissato dall'art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost. (sentenza n. 194 del 2013).

All'interno di questo sistema, appare indubbio che “tutela” e “valorizzazione” esprimano - per esplicito dettato costituzionale e per disposizione del codice dei beni culturali (artt. 3 e 6, secondo anche quanto riconosciuto sin dalle sentenze n. 26 e n. 9 del 2004) - aree di intervento diversificate. E che, rispetto ad esse, è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l'esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione; mentre alle Regioni, ai fini della valorizzazione, spettino la disciplina e l'esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel patrimonio (sentenza n. 194 del 2013). Tuttavia, nonostante tale diversificazione, l'ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità (come nella specie) che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello Stato e delle Regioni.”.

Muovendo da tale punto di partenza, è evidente che la diretta attribuzione da parte dell’Ente regione ( perdipiù intervenendo su un atto riferibile all’ente-locale Comune), ovvero già in prima battuta dal Comune medesimo, della “natura” culturale ad un complesso immobiliare, straripi dai compiti e dalle funzioni ad essa affidate, risolvendosi nella negazione del principio secondo il quale devono restare “inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l'esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione”.

7. Tale porzione dell’appello va quindi disattesa.

8. Conclusivamente,l’appello va solo in parte accolto, ed in parziale riforma della gravata decisione va solo in parte accolto il mezzo di primo grado, con annullamento delle prescrizioni gravate unicamente nella parte in cui impongono la determinazione vincolistica sul bene indicato in motivazione adiacente alla Cappella San Giovanni mentre gli atti gravati vanno fatti salvi nella restante parte, in cui applicano i principi perequativi. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

9. Quanto alle spese processuali, esse all’evidenza vanno compensate a cagioen della complessità della controversia.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie solo in parte ed in parziale riforma della gravata decisione accoglie in parte il mezzo di primo grado, con annullamento delle prescrizioni gravate unicamente nella parte in cui impongono la determinazione vincolistica sul bene adiacente alla Cappella San Giovanni indicato in motivazione; lo respinge nella restante parte con conferma della gravata decisone, per cui, in parziale reieizione del mezzo di primo grado gli atti gravati vanno fatti salvi nella restante parte, in cui applicano i principi perequativi.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2015 con l'intervento dei magistrati:

 

Riccardo Virgilio, Presidente

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Andrea Migliozzi, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere

Giuseppe Castiglia, Consigliere

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 29/02/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)