Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3255, del 12 giugno 2013
Urbanistica.Illegittimità variante al PRG che vincola determinati immobili a destinazioni di uso come: cinema-teatri, librerie, negozi di antiquariato, gallerie d’arte

E’ illegittima la variante al PRG, che individua una nuova categoria di attività qualificata come “sottozone H3 - Attrezzature private caratteristiche del Centro Storico”, all’interno della quale per determinati immobili sono ammesse soltanto destinazioni di uso come: cinema-teatri, librerie, negozi di antiquariato, gallerie d’arte. Con tale previsione in realtà si è al cospetto di una restrizione dello statuto proprietario, imponendosi a quest’ultimo dei limiti all’utilizzo dell’immobile non giustificati dall’inserimento in una zona o sottozona o microzona ma coincidenti con la pregressa tipologia di attività esercitata, e, in ultima analisi, in uno straripamento rispetto al potere conformativo tipico affidato alle amministrazione comunali. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 03255/2013REG.PROV.COLL.

N. 00470/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 470 del 2011, proposto da: 
Effecom S.r.l. Iniziative Commerciali, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Morbidelli, Stefano Carmini, Elena Antivalle, con domicilio eletto presso Giuseppe Morbidelli in Roma, via Carducci, 4;

contro

Comune di Firenze, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Francesca De Santis, Claudio Visciola, Annalisa Minucci, Maria Athena Lorizio, con domicilio eletto presso Maria Athena Lorizio in Roma, via Dora, 1;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della TOSCANA – Sede di FIRENZE - SEZIONE I n. 01237/2010, resa tra le parti, concernente variante al prg



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Firenze;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Morbidelli e De Santis;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato chiesto dalla Libreria L.E.F. di Zani V. & C. s.n.c., dai Sigg.ri Lorenzo e Tommaso Colombini, quali proprietari dell'immobile sede della Libreria Mondadori, dal Dr. Ernesto Moro, quale legale rappresentante della Soc. Repubblica s.n.c. proprietaria dell'immobile sede della Libreria Edison, dal Sig. Vanni Alfani, quale proprietario dell'immobile sede della Libreria Gozzini e dal Dr. Carlo Porta, quale legale rappresentante della Soc. Alfa s.r.l. proprietaria dell'immobile sede della Libreria Alfani, l’annullamento della deliberazione del Consiglio Comunale di Firenze 27.04.2004 n°2004/C/00084 – 2004/00241, avente ad oggetto “variante al P.R.G. ai sensi dell’art. 40 comma 10 della legge regionale n° 4/1995 – Adozione”, nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente a quello sopraindicato.

Con la sopradetta deliberazione impugnata il Consiglio Comunale aveva adottato la c.d. variante di assestamento al vigente P.R.G., con la quale aveva introdotto numerose modifiche alla disciplina urbanistica di una cospicua parte del territorio comunale.

Tra le modifiche di cui alla predetta variante, si annoverava la estensione della localizzazione delle Zone H3 “Servizi privati e pertinenze” – includendovi una nuova categoria di attività qualificata come “sottozone H3 - Attrezzature private caratteristiche del Centro Storico”, ed erano state individuati a tal fine determinati immobili per i quali erano ammesse “soltanto le destinazioni di uso sopradescritte (cinema-teatri, librerie, negozi di antiquariato, gallerie d’arte) o comunque destinazioni a queste assimilabili; in quest’ultimo caso era necessaria una approvazione con specifica deliberazione del Consiglio Comunale” (art. 57.5 bis delle N.T.A.).

A seguito della proposizione del ricorso di primo grado (da valere anche quale “osservazione”, ai sensi dell'art. 40 c.11 L.R. 16 gennaio 1995 n° 5,) da parte solo di alcune delle librerie del Centro Storico – ricomprese nell’elenco degli immobili classificati come sottozona H3 - il Comune di Firenze aveva riesaminato i contenuti della variante predetta.

Con deliberazione di controdeduzioni n° 275/05 del 27 giugno 2005 il Consiglio Comunale aveva accolto le “osservazioni” degli originari ricorrenti e, per tali effetti, da un lato aveva parzialmente annullato la variante, limitatamente alla localizzazione degli immobili sede delle librerie Mondadori, Alfani, L.E.F. Gozzini, e, dall’altro, per quanto concerne la Libreria Edison, parimenti inserita in sottozona H3, aveva modificato l’art. 57.5/bis delle N.T.A. del P.R.G. in modo da consentire una maggiore gamma di funzioni.

Preso atto della predetta normativa sopravvenuta, con nota depositata in data 28 gennaio 2009, il difensore della Libreria LEF e dei Signori Colombini, quali proprietari dell’immobile occupato dalla Libreria Mondadori, aveva fatto presente che era venuto meno l’interesse dei propri assistiti alla prosecuzione del giudizio.

Con motivi aggiunti depositati in data 27 marzo 2009, la Effecom s.r.l. Iniziative Commerciali – subentrata nella proprietà dell'immobile sede della Libreria Edison –aveva chiesto, invece, l'annullamento della sopravvenuta deliberazione del Consiglio Comunale n° 2005/C/510 – 2005/275 del 27/06/2005, avente ad oggetto le controdeduzioni alle osservazioni presentate alla variante al P.R.G. adottata con deliberazione consiliare 241/2004; della deliberazione n° 2006/C/1 – 2005/1121 del 23.01.2006, avente ad oggetto l’approvazione della variante al P.R.G., ai sensi dell’art. 40 comma 10 della legge regionale n° 4/1995; nonché di tutti gli atti presupposti e conseguenti, fra cui la relazione di controdeduzioni all’osservazione n° 8.

Il primo giudice ha quindi dichiarato la improcedibilità del ricorso di primo grado nei confronti di tutte le originarie parti ricorrenti diverse da quella odierna appellante ed ha partitamente preso in esame le censure contenute nel ricorso principale e nei motivi aggiunti proposte dalla società Effecom s.r.l. Iniziative Commerciali (subentrata nella proprietà dell’immobile ove ha sede la Libreria Edison) respingendole.

In particolare, con riguardo alla deliberazione di adozione della variante n° 2004/C/00084 del 27.04.04, ha affermato la infondatezza del primo motivo di censura con il quale era stata affermata la sussistenza del vizio di sviamento di potere e violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi nonché la violazione della L.R. 39/1994 e dei principi in tema di destinazione d'uso, sul presupposto che essa avrebbe introdotto un vincolo di destinazione d'uso che non sarebbe rientrato nei poteri di pianificazione urbanistica propri dell’Amministrazione comunale.

A tal proposito il primo giudice ha affermato che gli Enti Locali hanno il potere di definire non solo le aree di interesse storico – culturale da sottoporre a tutela, ma anche la tipologia delle attività ritenute incompatibili con tale esigenza: con la avversata variante oggetto del presente ricorso si era previsto di estendere la localizzazione delle Zone H includendovi una nuova categoria di attività: le “Attrezzature private caratteristiche del Centro Storico”; all’uopo erano state identificate delle microzone urbanistiche all’interno delle quali erano state consentite determinate destinazioni d’uso, come avveniva per le zone omogenee in cui era suddiviso il territorio comunale.

Ciò aveva comportato, in concreto - in forza della predetta disciplina - la possibilità di svolgere le attività che abbracciavano tutte le funzioni ammissibili secondo l’art. 57.5/bis delle N.T.A. al P.R.G. ( ovvero, oltre a cinema, teatro, libreria, anche tutte le funzioni ad esse assimilabili, ivi comprese quelle a servizio della residenza, oltre a una quota di attività di supporto – commerciale e di pubblici esercizi – sì da garantire all'operatore condizioni economiche favorevoli alla prosecuzione dell'attività oggetto di tutela).

Infatti, in base all'art. 57.5 bis delle N.T.A. al P.R.G., risultava possibile stipulare un'apposita convenzione per esercitare le attività consentite ed assimilabili a quelle tutelate, ovvero installare una quota di attività di supporto, sempre con l'intento di mantenere quel livello di qualità necessario alla conservazione dei caratteri peculiari del centro storico fiorentino.

Ne risultava, quindi, una disciplina ispirata all’equo contemperamento degli interessi pubblici e privati coinvolti immune dalle denunciate censure.

La odierna appellante aveva richiamato la tesi secondo cui il Piano Regolatore, in quanto strumento urbanistico finalizzato a disciplinare la distribuzione delle funzioni sul territorio, non potesse imporre una determinata destinazione d’uso con riferimento ad uno specifico immobile.

Senonchè tale divisamento, al più riferibile alla disciplina di un'attività produttiva, non era trasferibile alla fattispecie in esame in cui la destinazione d'uso prevista dalla disciplina urbanistica concerneva l'esercizio di una funzione di pubblico interesse quale era quella storico – culturale.

Neppure, ad avviso del primo giudice, poteva concordarsi sull'asserita violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi: la previsione gravata costituiva invece l'espressione dei poteri di pianificazione assegnati all'Amministrazione Comunale.

Né poteva sostenersi che la previsione di una determinata destinazione d’uso impressa a determinati immobili avesse introdotto un vincolo espropriativo, inerendo essa unicamente alla potestà conformativa dello strumento urbanistico generale (soprattutto in casi, quale quello di specie, in cui la norma approvata dall'Amministrazione consentiva una significativa destinazione anche commerciale, e cioè per una S.U.L. fino al 30%).

Quanto all’asserito difetto di motivazione della deliberazione n° 2004/C/00084, (secondo motivo di censura del mezzo introduttivo) trattandosi di un provvedimento a carattere generale, esso non richiedeva una motivazione specifica da parte dell'Amministrazione Comunale.

In concreto, peraltro, l'Amministrazione Comunale aveva specificato, nelle premesse della deliberazione dì adozione della variante, che essa si inseriva in un più ampio procedimento "per la formazione di due distinti progetti di variante al P.R.G." fra cui quella di cui alla deliberazione n° 666/2002, al fine di individuare alcuni immobili ubicati nel Centro Storico entro le mura, da destinare ad attività private di interesse generale e nella relazione tecnica, costituente parte integrante della predetta delibera 666/2002, erano stati ampiamente illustrati i presupposti ed il significato della variante stessa.

Così respinte le doglianze formulate nel mezzo introduttivo, il Tar ha poi esaminato – e disatteso- quelle contenute nei motivi aggiunti, disattendendo le censure di illegittimità derivata e quelle con le quali si faceva riferimento alla tesi per cui si erano disattesi i contenuti "tipici" del Piano Regolatore

Quanto poi alla censura contenuta nel terzo dei motivi aggiunti, inerente la violazione degli arti. 23 e 42 della Costituzione, nonché eccesso di potere per difetto di presupposti, difetto di istruttoria ed illogicità, essa si fondava sul presupposto che la convenzione prevista dall'art. 57.5 bis desse luogo ad un'imposizione a carico del privato: al contrario, si trattava di una previsione finalizzata a garantire al privato condizioni economiche favorevoli al mantenimento dell’attività tutelata compatibilmente con il livello di qualità necessario alla conservazione dei caratteri peculiari del centro storico fiorentino.

Lo strumento della convenzione non si configurava come una arbitraria limitazione alle facoltà del proprietario, bensì – al contrario – come uno strumento per dare la possibilità a quest'ultimo di esercitare un'attività commerciale di supporto alla funzione principale, coniugando in tal modo le esigenze di tutela del tessuto urbanistico -ambientale con la possibilità di utilizzare proficuamente il proprio immobile.

Il mezzo è stato pertanto integralmente disatteso.

Avverso la sentenza in epigrafe l’ originaria ricorrente di primo grado rimasta soccombente ha interposto appello riproponendo le censure disattese dal primo giudice ed evidenziando che la motivazione della impugnata decisione era apodittica ed errata.

La variante gravata imponeva un vero e proprio vincolo di destinazione d’uso sull’immobile dell’appellante società; ciò avrebbe potuto avvenire unicamente con riferimento alle macrocategorie ex art. 4 della legge regionale n. 39/1994 non già imponendo singoli e disparati usi ad un singolo immobile.

Agli strumenti urbanistici, nel sistema italiano, non era consentita la possibilità di vincolare immobili specifici ad usi definiti: essi potevano e dovevano limitarsi alle localizzazioni.

Parimenti risultava sussistere il denunciato vizio di motivazione di cui al secondo motivo del mezzo introduttivo: per gli immobili annoverati nella variante erano ammesse soltanto due destinazioni: libreria o cinema teatro, mentre le altre erano soltanto teoriche.

Il Tar aveva omesso di esaminare funditus la censura, secondo cui era mancato un serio censimento delle attività da disciplinare e degli immobili da vincolare.

Anche le doglianze di cui ai motivi aggiunti meritavano l’accoglimento: l’ oggetto dei poteri urbanistici riposava nelle trasformazioni e destinazioni d’uso degli immobili suddivisi in zone omogenee: la variante aveva disciplinato una attività in sé considerata, e ciò esuberava dai poteri demandati all’amministrazione comunale.

E posto che la sopravvenuta modifica aveva limitato il numero degli edifici ricompresi in zona H3, mantenendo sostanzialmente lo stesso vincolo di destinazione d’uso, la disciplina introdotta risultava vieppiù censurabile (la destinazione “perenne” imposta alla libreria Edison era quella appunto di libreria con inaccettabile compressione dello statuto proprietario).

Parimenti appariva illegittimo che per utilizzare l’immobile mediante le (seppur limitate) funzioni “assimilabili” fosse necessaria la stipula di una convenzione con il comune.

Con ulteriore memoria di replica parte appellante ha puntualizzato e ribadito le proprie censure facendo presente che la libreria Edison, il 30.11.2012, aveva cessato la propria attività.

L’amministrazione comunale ha depositato una comparsa di costituzione datata 24 febbraio 2011 chiedendo la reiezione del ricorso perché infondato, dichiarando di riproporre “tutte le eccezioni e le difese dedotte in primo grado, da considerarsi qui integralmente riproposte, anche laddove non considerate o disattese dalla sentenza impugnata”, e riservandosi “comunque di confutare il ricorso stesso anche con ulteriore memoria”.

Con ulteriore memoria di replica datata 18.3.2013 il comune ha chiesto dichiararsi inammissibile perché tardivo il ricorso per motivi aggiunti depositato in primo grado, nonché inammissibile (in quanto prospettante censure di merito) ed improcedibile per difetto di interesse l’atto di appello (la libreria Edison aveva cessato la propria attività e comunque la sopravvenuta formulazione dell’art. 57/bis consentiva un ampio ventaglio di attività per tutti gli esercizi aventi destinazione a sottozona H3).

Nel merito, ha chiesto respingersi il ricorso perché infondato.

Tutte le parti processuali hanno depositato ulteriori memorie e parte appellante, nella propria memoria di replica, nel confutare le eccezioni pregiudiziali svolte dal Comune, ha anche affermato che la circostanza affermata dal Comune per cui l’avvenuta cessazione dell’attività (e chiusura dell’immobile) della libreria Edison, rendeva alla stessa inapplicabile l’avversata prescrizione ( a meno che la stessa non avesse ripreso l’attività di libreria in detti locali) era pienamente satisfattiva dell’interesse della stessa.

Alla odierna pubblica udienza del 23 aprile 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1. In via preliminare ritiene il Collegio di esaminare le eccezioni di natura processuale proposte in via pregiudiziale dall’appellata amministrazione comunale.

1.1. A tale proposito appare opportuno fare soltanto un breve riferimento alla eccepita inammissibilità del mezzo (in quanto asseritamente prospettante censure di merito) a cagione della circostanza che il dedotto “vizio”, afferendo alla tipologia delle censure prospettate, non rientra tra le eccezioni preliminari semmai integrando questione di merito coinvolgente la fondatezza delle censure sotto il profilo dei vizi ivi denunciabili.

Considerata quale eccezione preliminare la censura è certamente infondata: nel merito, essa verrà esaminata successivamente.

1.2.Parimenti non coglie nel segno la eccezione relativa alla ( in parte sopravvenuta ed in parte originaria) carenza di interesse in capo alla appellante a gravare con motivi aggiunti la delibera del 2005.

1.2.1. Quanto alla improcedibilità “originaria” (a cagione della circostanza che la sopravvenuta formulazione dell’art. 57/bis avrebbe inciso sui contenuti della delibera del 2004 originariamente avversata in primo grado) la tesi esposta è addirittura temeraria, posto che avverso detta sopravvenuta formulazione dell’art. 57/bis è stato proposto in primo grado ricorso per motivi aggiunti laddove erano state chiarite le ragioni per cui la detta modifica non era apparsa satisfattiva (ed anche in questo caso, integra questione di merito lo stabilire se le prescrizioni della stessa comportino il permanere della portata lesiva originariamente denunciata e, secondariamente la legittimità della delibera predetta).

Né può concordarsi con le affermazioni del Comune laddove esso sostiene che lesività non vi fosse sol perché la regolamentazione successiva al parziale accoglimento delle osservazioni integrava una modifica “migliorativa” rispetto al testo originario della delibera.

Tale modo di argomentare sostituisce il proprio convincimento a valutazioni strettamente pertinenti alla sfera dell’appellante e pone in rapporto la modifica sopravvenuta al testo originario della delibera, ma non anche alla situazione originaria.

Ma, posto che il parametro di comparazione deve essere appunto rappresentato dalla situazione originaria dello “statuto proprietario”, l’eccezione non coglie nel segno, non potendo dubitarsi che la complessiva azione amministrativa spiegata, ove comparata alla situazione originaria, sia idonea a comprimere rispetto al passato le facoltà di utilizzo dell’immobile di pertinenza di parte appellante.

La eccezione va pertanto in parte qua disattesa, mentre di qui a poco verrà esaminata la articolazione della eccezione postulante l’improcedibilità sopravvenuta del gravame (punto 3 n. 2 lett. b della memoria di replica del comune datata 18.3.2013).

1.3. Più articolata risposta merita l’eccezione di tardività del mezzo per motivi aggiunti depositato in primo grado nel 2009 dalla originaria ricorrente.

1.3.1. Va premesso che la stessa, anche ove accolta dal Collegio, non potrebbe condurre alla inammissibilità dell’intero ricorso ma soltanto delle censure specificamente avversanti gli atti supervenientes gravati con il ricorso per motivi aggiunti (e non anche delle doglianze veicolate con il mezzo principale avverso il quale nessun sospetto di tardività è stato avanzato e/o riproposto in appello, nella parte in cui le stesse non sono state “rimosse” dalla sopravvenuta formulazione dell’art. 57/bis resa in parziale accoglimento delle osservazioni formulate dagli esercizi commerciali originari ricorrenti).

Ritiene comunque utile il Collegio di interrogarsi sulla complessiva fondatezza della eccezione a partire dalla questione afferente la tempestività di quest’ultima.

1.3.2. Va premesso che il primo giudice ha sul punto così statuito “Con riferimento, invece, alla società Effe. Com s.r.l. Iniziative Commerciali, subentrata nella proprietà dell’immobile ove ha sede la Libreria Edison, si può prescindere dall’esame delle eccezioni di improcedibilità e di irricevibilità del ricorso e dei motivi aggiunti sollevate dall’Amministrazione resistente, stante l’infondatezza nel merito sia del ricorso principale che dei motivi aggiunti.”.

Ci si trova quindi al cospetto di una eccezione di tardività proposta in primo grado non esaminata in quanto assorbita.

Posto che il ricorso in appello è stato passato per la notifica il 10 gennaio 2011 la odierna vicenda processuale è integralmente ricadente sotto l’usbergo del codice del processo amministrativo di cui al d.Lgs n. 104/2010 ex art. 2 del predetto decreto che indica nel 16 settembre 2010 la data di entrata in vigore del c.p.a. ( ciò sebbene la sentenza fosse stata pubblicata in epoca antecedente alla entrata in vigore di quest’ultimo in quanto depositata il 5 maggio 2010)

Non trova quindi ingresso nella presente vicenda processuale la disposizione transitoria di cui all’art. 3 dell’allegato 3 al cpa e, di converso. la tematica della riproposizione dei motivi assorbiti o non esaminati è integralmente regolata dalla disposizione di cui all’art. 101 comma 2 del cpa.

Detta prescrizione decadenziale così recita:” si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.”

Nel caso di specie, quindi, in virtu’ del combinato-disposto dell’art. 101 comma 2 con l’art. 46 del cpa i motivi assorbiti avrebbero dovuto essere riproposti con memoria depositata entro 60 gg dalla notifica del mezzo di primo grado (avvenuta il 10 gennaio 2011) id est: il 9 marzo 2011.

Entro detta data, l’appellato comune ha depositato, come riferito nella parte in fatto, una comparsa di costituzione datata 24 febbraio 2011 dichiarando di riproporre “tutte le eccezioni e le difese dedotte in primo grado, da considerarsi qui integralmente riproposte, anche laddove non considerate o disattese dalla sentenza impugnata” e riservandosi “comunque di confutare il ricorso stesso anche con ulteriore memoria”.

Con ulteriore memoria di replica datata 18.3.2013 ha articolato diffusamente (tra l’altro) la eccezione di tardività del ricorso per motivi aggiunti di primo grado sulla quale si controverte.

Senonchè, posto che detta memoria è certamente tardiva rispetto al termine decadenziale prima individuato, occorre interrogarsi sulla circostanza relativa alla possibilità che la comparsa di costituzione depositata il 24.2.2011 (e quindi tempestiva rispetto alla data decadenziale prima individuata ) soddisfacesse i requisiti di ammissibilità previsti ex art. 101 comma 2 del codice.

In sostanza, il quesito al quale occorre dare risposta è se la detta prescrizione relativa alla riproposizione in appello di censure ed eccezioni svolte in primo grado sia rispettata anche quando si faccia generico riferimento a quelle eccezioni assorbite e/o non esaminate senza riproporle testualmente e rinviando ad un momento successivo l’articolazione puntuale delle stesse -come pacificamente avvenuto nel caso di specie-, ovvero se sia necessario che l’atto di riproposizione, affinchè raggiunga lo scopo suo proprio, indichi e specifichi, riproponendole espressamente, il contenuto delle dette doglianze.

1.3.3. Il Collegio propende per questa seconda tesi , dal che discende la tardività dell’eccezione.

Tale opzione ermeneutica è stata ancora di recente espressa dalla Sezione nella decisione n. 4600/2011 ( che, seppur facente riferimento alla posizione di una parte appellante principale esprime un principio traslabile sulla parte appellata, proprio con riferimento al dato testuale dell’art. 101 c.II del cpa citato) essendosi ivi rimarcato che “va dichiarata l’inammissibilità dell’appello principale nella parte in cui ci si limita a richiamare genericamente, dandole per trascritte, le eccezioni sollevate in primo grado e sulle quali il T.A.R. avrebbe omesso di pronunciarsi: tale formula viola il disposto dell’art. 101, comma 2, cod. proc. amm., secondo cui è onere della parte istante riproporre espressamente nell’atto di appello le eccezioni che intende reiterare dinanzi al giudice di secondo grado.”

Proprio in virtù della disposizione innanzi richiamata, non può avere alcun valore la trascrizione delle eccezioni de quibus inserita dal Comune in una successiva memoria ove quest’ultima sia intempestiva rispetto al predetto termine decadenziale: questo, ad avviso del Collegio, è l’unico approdo interpretativo possibile che concili, sotto il profilo logico, la espressa previsione normativa dell’art. 101 con l’onere di specificazione dei motivi di censura che costituisce jus receptum in giurisprudenza.

La eccezione è quindi tardiva perché è sì stata tempestivamente riproposta- ma con un atto inidoneo allo scopo- mentre la successiva memoria (questa sì in teoria utile alla corretta riproposizione dell’eccezione) non rispettava il termine di cui agli artt. 101 co. 2 e 46 del cpa.

1.3.4. Né dicasi che il Giudice d’appello potrebbe interrogarsi ex officio sulla tardività del mezzo di primo grado o del ricorso per motivi aggiunti ove la relativa censura, seppur non esaminata, non sia stata riproposta (o, il che è lo stesso, non sia stata tempestivamente riproposta) in quanto, come affermato da condivisibile giurisprudenza (Cons. Stato Sez. VI, 07-09-2012, n. 4752) “nel giudizio amministrativo la mancata costituzione in appello della parte ricorrente di primo grado ed il conseguente difetto di riproposizione dei motivi presentati in quella sede e dichiarati assorbiti dalla sentenza appellata implicano l'impossibilità per il giudice di appello di occuparsi di questi ultimi, essendo mancata qualsivoglia sollecitazione processuale da parte della parte interessata (art. 101, comma 2, CPA - D.Lgs. 104/2010) essendo precluso al giudice di appello la conoscenza, di propria iniziativa, dei motivi di ricorso di primo grado dichiarati assorbiti e non riproposti, pena il vizio di ultrapetizione della pronunzia.”(si veda anche Cons. Stato Sez. IV, 06-12-2011, n. 6401).

E ciò anche laddove si trattasse di profili processuali (quale è quello relativo alla tempestività del mezzo di primo grado o dei motivi aggiunti) in via di principio esaminabili dal giudice anche ex officio.

E’ ben vero che la giurisprudenza ( Cons. Stato Sez. VI , sent., 23-05-2008, n. 2494) sostiene che “la questione di inammissibilità, può essere rilevata anche d'ufficio in grado d'appello, laddove il Giudice di primo grado non abbia espressamente statuito sul punto; nell'ipotesi, quindi, di espressa pronuncia sul punto da parte del detto Giudice di prime cure (in assenza di specifica impugnazione in via incidentale da parte degli altri soggetti in lite) si determina la formazione in parte qua del c.d. "giudicato interno", il quale preclude al Giudice di appello di riesaminare ex officio il relativo capo della sentenza.”

Ed è parimenti condivisibile il rilievo secondo cui nel giudizio amministrativo l'accertamento negativo tanto dei presupposti processuali, quanto delle condizioni dell'azione, conduce a pronuncia parimenti processuale d'inammissibilità o d'improcedibilità del ricorso, con l'effetto che anche la decisione processuale, la quale investe l'accertamento sul fondamento di una domanda o soltanto di una questione sostanziale necessariamente pregiudiziale - dedotta dalle parti o esaminata d'ufficio - può condurre alla formazione del giudicato ai sensi dell'art. 2909 c.c., con effetti eteroprocessuali sulle situazioni sostanziali delle parti. (Consiglio Stato , sez. VI, 02 novembre 1999, n. 1662).

Nel momento però, in cui la questione è sollevata in primo grado, è espressamente assorbita dal primo giudice, e non venga riproposta (o, il che è lo stesso, tempestivamente riproposta in appello) la delibazione ex officio finirebbe, inammissibilmente, con il supplire all’inerzia di una parte e svuoterebbe di contenuto l’onere di tempestiva riproposizione sancito ex art. 101 c.II cpa.

La eccezione della difesa comunale di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado dalla odierna appellante va pertanto dichiarata tardiva, e ciò in disparte gli ulteriori argomenti oppositivi dell’appellante incentrati sul diverso termine di decorrenza delle varianti “particolari”(quale pacificamente sarebbe quella per cui è causa) rispetto a quelle “generali”.

1.4. Resta adesso, sempre in via preliminare, da interrogarsi in ordine alla fondatezza della eccezione postulante l’improcedibilità sopravvenuta del gravame (punto 3 n. 2 lett. b della memoria di replica del comune datata 18.3.2013).

Essa si fonda sulla circostanza che la libreria ha ormai cessato l’attività, e, anche, sulla circostanza che nel 2007 era stata presentata dall’appellante una Dia (8.1.2007) per l’apertura di un pubblico esercizio per somministrazione bevande (così “fruendo” della regolamentazione avversata comunale nell’odierno giudizio).

1.4.1.Quanto al secondo profilo menzionato, l’eccezione è destituita di fondamento in quanto una regolamentazione amministrativa avversata in giudizio in quanto (in tesi) lesiva non cessa di essere tale ancorché il destinatario - che la contesta integralmente- nelle more della definitiva decisione sulla legittimità della stessa decida di fruire delle residue possibilità concessagli: ciò non implica acquiescenza alcuna rispetto alla prospettazione “principale” secondo cui nessuna forma di “restrizione”, in assoluto, poteva essergli imposta.

1.4.2.Quanto al primo profilo, in via generale, la circostanza dedotta in giudizio costituirebbe, di regola, un postfactum non valutabile in termini di elisione sopravvenuta dell’interesse a ricorrere. Senonché, il comune ha fatto riferimento alla circostanza per cui, l’avvenuta chiusura della libreria avrebbe prodotto un effetto sostanzialmente estintivo della prescrizione predetta, in quanto – scomparsa la libreria Edison- l’immobile resterebbe pur sempre soggetto alla destinazione H3, ma la stessa dovrebbe essere riconsiderata al momento della presentazione di una nuova denuncia di inizio attività per l’apertura nell’immobile di un esercizio di pubblico interesse (vedasi in particolare anche le ultime 2 pagg. della memoria del 18.3.2013).

L’appellante ha dichiarato, nella propria memoria del 29 marzo 2013 che tale affermazione avrebbe potuto determinare, ove più approfonditamente chiarita e ribadita, la cessazione della materia del contendere.

Senonché, né il Comune – anche in sede di discussione orale – ha esaurientemente chiarito la portata di tale affermazione sulle future determinazioni dell’amministrazione comunale, né l’appellante – forse anche alla luce della non preconizzabilità dell’atteggiamento dell’amministrazione comunale- ha ritenuto di insistere chiedendo la improcedibilità del proprio appello (prova ne sia che entrambe le parti hanno svolto le proprie pregevoli difese orali richiamandosi alle contrapposte argomentazioni già esposte nei motivi).

In tale condizione, in carenza di piena prova in ordine alla sopravvenuta carenza in capo all’appellante dell’interesse a coltivare il gravame, il Collegio non ritiene sia possibile dichiarare la sopravvenuta improcedibilità del mezzo di primo grado, o dell’odierno appello alla stregua di dati ipotetici e congetturali (ex multis, Cons. Stato Sez. VI Sent., 12-11-2009, n. 6997: nel giudizio amministrativo la cessazione della materia del contendere non può essere dichiarata se non sulla base della prova della obiettiva esistenza di una situazione che dimostri in maniera incontrovertibile l'assenza di un interesse attuale alla decisione del ricorso).

2. Così risolte le questioni preliminari, può adesso essere esaminato il merito della controversia.

2.1. L’atto di appello – le cui macrocensure per la loro intima connessione possono essere esaminate congiuntamente per gruppi -affida alla riflessione del Collegio due distinte questioni.

Esso, a differenza di quanto sostenuto dall’appellata amministrazione comunale, non introduce affatto censure di merito, ma propone doglianze di legittimità peraltro articolate in larga parte facendo riferimento a problematiche squisitamente giuridiche che sono, quindi, certamente scrutinabili in seno al presente giudizio.

La prima di esse, di portata più ampia può essere ricondotta al seguente quesito: rientra nei compiti e poteri di un’amministrazione comunale la possibilità di disciplinare l’attività da svolgersi in singoli immobili, adibiti ad uso commerciale, ubicati in una predeterminata zona del centro storico ?

Secondariamente, (e risolta positivamente la prima problematica) si sollecita un giudizio in concreto in ordine a vizi di illegittimità intrinseca (anche sotto il profilo della disparità di trattamento e di ponderazione e di istruttoria) da cui sarebbe affetta l’azione amministrativa intrapresa dall’amministrazione comunale.

2.2. Tenendo separate le dette questioni, il Collegio esaminerà in primo luogo quella – più ampia e di portata assorbente – indicata per prima e (per dirla con la felice espressione utilizzata da qualificata dottrina) postulante il vizio di “eccesso di potere in senso assoluto” sotto il profilo dello straripamento.

2.2.1. Sotto il profilo “storico” e cronologico va tenuto presente che: l’art. 57 delle Nta aveva disciplinato al comma 1 le zone H del prg (“verde privato, servizi privati, e pertinenze”) ed al comma 2 del medesimo articolo le aveva suddivise in tre sottozone (H1, H2, ed H3).

La sottozona H3 (“campeggi ed attrezzature private”) è stata poi implementata, con gli atti gravati, aggiungendovi la destinazione “attrezzature private caratteristiche del centro storico”, prevista dalla scheda 16 (art. 57.5. e 57.5bis delle Nta)

Per tale motivo il Comune insiste nell’affermare la portata conformativa degli atti gravati, disciplinanti una sottozona e non già singoli immobili.

2.3. La pur apprezzabile decisione del primo giudice non pare al Collegio abbia esattamente colto il nucleo centrale delle censure articolate.

2.3.1. In particolare, appare al Collegio superfluo soffermarsi sulla natura (espropriativa, ovvero conformativa) delle avversate prescrizioni, apparendo invece pacifico che le stesse nulla abbiano a che vedere con l’utilizzo di poteri ablatori.

E’ pacifica infatti la portata conformativa dell’azione pianificatoria intrapresa dal Comune.

L’appellata decisione, nel soffermarsi su detta problematica, enuncia principi in realtà incontroversi, ma non risolve il nodo del problema.

2.3.2. Ciò su cui occorre interrogarsi è, invece, in ordine alla portata e latitudine del predetto potere conformativo (in quanto tale privo di previsione di indennizzo in favor del privato che ne sia attinto) pacificamente spettante alle amministrazioni comunali, e sulla corrispondenza del potere in concreto esercitato dall’amministrazione fiorentina alla causa del potere tipico esercitato.

E’ evidente che tale tipologia di potere il Comune ha esercitato, nel perseguire la finalità istituzionale di salvaguardia dei caratteri tradizionali dei centri storici, contrastando il rischio di degrado e snaturamento.

E’ questa, una aspirazione non recente e profondamente sentita, soprattutto riguardante le c.d. “ città d’arte” (il Primo Convegno Nazionale sulla salvaguardia e il risanamento dei centri storici artistici si tenne a Gubbio nel 1960 e nella “Carta di Gubbio” che ne scaturì a seguito della dichiarazione finale, venne ricompresa una affermazione destinata a modificare il concetto di “centro storico” e ad influenzare profondamente la cultura urbanistica italiana. “l’intero centro storico è un monumento”).

Trattasi di una esigenza che il Collegio non esita a definire in sé altamente lodevole e comunque, quel che più rileva, già a più riprese affermata dal legislatore nazionale, con una pluralità di disposizioni normative, contenute in più testi di legge aventi oggetto diverso, che hanno il comune denominatore di aspirare alla conservazione delle caratteristiche di tipicità dei centri storici, nel tentativo di mantenerne il più possibile inalterate le caratteristiche evitando peraltro la marginalizzazione delle iniziative tradizionali.

Sarebbe impossibile fornire un elenco esaustivo delle dette disposizioni in questa sede: ma tralasciando –in quanto scontato- il referente normativo che si rinviene nel TU sull’edilizia, è sufficiente rammentare il disposto di cui all’art. 6, terzo comma, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (che prevede espressamente, come uno degli obbiettivi da perseguire sia quello di salvaguardare e riqualificare i centri storici anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti ed il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ambientale; del pari le Regioni, nel definire gli indirizzi generali devono tener conto principalmente della caratteristiche dei centri storici al fine di salvaguardare e qualificare la presenza delle attività commerciali ed artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato ed evitare il processo di espulsione delle attività commerciali e artigianali più radicate nel tessuto sociale), ovvero la prassi applicativa che è stata data dell’art. 136 del D.Lgs. n. 42/2004 laddove si ammette che si possano, mediante tale norma, porre vincoli su antichi castelli, villaggi, borghi, agglomerati urbani e zone di interesse archeologico e persino su interi centri storici (il decreto legislativo n. 63 del 2008 ha anzi espressamente previsto tale possibilità per siffatta categoria di beni).

Ulteriore comprova sul piano normativo di tale impostazione è data infine dalla Convenzione europea del Paesaggio, siglata a Firenze il 20 ottobre 2000 e recepita nell’ ordinamento italiano con legge 9 gennaio 2006, n. 14 (alla stessa, va attribuita quindi efficacia sub-costituzionale ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione) laddove ivi si afferma espressamente la possibilità, di estendere le norme poste a protezione del paesaggio anche agli spazi urbani (art. 2 della convenzione).

Ciò ha indotto qualificata dottrina ad individuare i "beni ambientali urbanistici" qual categoria a sé stante, con la conseguenza della non eccentricità rispetto al sistema dell'imposizione di vincoli aventi ad oggetto interi centri urbani.

2.3.3. Ciò che invece non risulta ancora esplorato è la possibilità di conseguire da parte delle amministrazioni comunali simili obiettivi, al di là di politiche incentivanti, ricorrendo invece ad iniziative vincolistiche.

Segnatamente, occorre interrogarsi sulla facoltà, per un’amministrazione comunale, di imporre un vincolo sulla utilizzazione di singoli beni ricorrendo al potere conformativo esplicato mediante zonizzazione e, più ancora, di ricorrere a microzonizzazioni. E se ciò sia possibile anche laddove la “zonizzazione” finisca con il coincidere con un singolo bene immobile (imponendo, al contempo, un limite all’utilizzo del medesimo)

2.3.4 La questione non è stata direttamente affrontata in passato dalla giurisprudenza amministrativa che, tuttavia, ha talvolta esaminato problematiche che lambiscono quelle oggetto dell’odierno esame: in particolare, appare utile riportare talune pronunce rese in passato da questo Consiglio di Stato perché ivi possono rinvenirsi le coordinate ermeneutiche utili alla risoluzione del punto centrale della causa.

2.3.5. Un consolidato approdo in passato raggiunto è quello per cui (Cons. Stato Sez. V, 14-11-1996, n. 1368) “se in linea astratta può convenirsi che la suddivisione del territorio in zone, siccome diretta essenzialmente a salvaguardare l'assetto urbanistico e la tipologia edilizia, non implica di per sé né preclude determinate destinazioni d'uso dei fabbricati, le previsioni di piano regolatore, adottate in conformità alle tipologie di cui all'art. 2 del d.m. 2 aprile 1968, non possono peraltro non riflettere la differenziazione sancita in tale norma e insita nel sistema normativo nel suo complesso (art. 41 quinquies, comma 8, legge n. 1150 del 1942, art. 4 e 10 della legge n. 10 del 1977): da ciò ne consegue pertanto che il principio che afferma l'estraneità della destinazione d'uso degli edifici dall'ambito funzionale della potestà di pianificazione urbanistica, incontra una deroga nel senso che l'utilizzazione residenziale o industriale degli immobili da costruire, è rilevante sia ai fini della suddivisione del territorio comunale in zone omogenee, sia e necessariamente, ai fini del rilascio della concessione edilizia, giacchè, altrimenti, verrebbero vanificate le scelte emerse in sede di pianificazione.

Detto principio può ritenersi consolidato, in giurisprudenza, ed afferma una consequenzialità tra la suddivisione in zone e l’utilizzo dei fabbricati ubicati in dette zone, nel senso che gli stessi siano adibiti ad usi compatibili con la zonizzazione.

Ciò, però, pur sempre per macrocategorie di utilizzazioni.

Piace altresì al Collegio rammentare che, pur interrogandosi su una differente fattispecie (id est: portata e latitudine del vincolo di natura storico/artistica/culturale), la giurisprudenza ebbe ad affermare che” nell'ambito dell'interpretazione della L. n. 1089/1939, non è sostenibile quella tale da implicarne l'adattabilità anche alla tutela di attività imprenditoriali che si svolgono in determinati immobili, a meno che il bene locato non abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione ed un suo stretto collegamento per un'iniziativa storico-culturale di rilevante importanza, per cui il valore oggetto di tutela abbia finito con l'incorporarsi a tal punto con l'immobile tutelato con la sola conservazione dell'immobile stesso che diventa esso oggetto del vincolo e non già l'attività in esso esercitata e senza quindi che sia necessario a tal fine garantire necessariamente anche la continuazione dell'attività di impresa in esso esercitata.”.

In particolare, nella detta pronuncia si è rimarcato che “. Già in precedenti occasioni il Consiglio di Stato ha avuto modo di sottolineare che tra i beni tutelati a norma degli artt. 1 e 2 della legge 1 gennaio 1939, n. 1089, non sono comprese le gestioni commerciali o l'esercizio di attività artificiali, anche se attinenti ad alcuni dei valori storici, culturali o filosofici presi in considerazione dalla legge di riferimento; non è, infatti, sostenibile un'interpretazione talmente lata della legge richiamata da implicarne l'adattabilità anche alla tutela di attività imprenditoriali che si svolgono in determinati immobili, a meno che il bene locato non abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione ed un suo stretto collegamento per un'iniziativa storico-culturale di rilevante importanza; per cui il valore oggetto di tutela abbia finito con l'incorporarsi a tal punto con l'immobile tutelato con la sola conservazione dell'immobile stesso che diventa esso oggetto del vincolo e non già l'attività in esso esercitata e senza quindi che sia necessario a tal fine garantire necessariamente anche la continuazione dell'attività di impresa in esso esercitata (Cons. St. Sez. VI, 13 settembre 1990, n. 819).”

In passato era stato affermato che (Cons. Stato Sez. VI, 16-09-1998, n. 1266) “il vincolo storico artistico di cui agli art. 1 e 2 l. n. 1089 del 1939 riguarda le cose materiali incorporanti i valori culturali che sono la ragion d'essere della tutela e non si estende fino a ricomprendere la gestione commerciale o l'esercizio artigianale di determinate attività (svolte in detti locali e/o con detti arredi) con una interpretazione analogica fortemente restrittiva del principio di legalità che caratterizza i poteri ablatori della pubblica amministrazione dell'art. 11 della stessa l. n. 1089 del 1939 che vieta che le cose materiali soggette a detta tutela non possano essere adibite ad usi non compatibili con il loro carattere storico ed artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione o integrità forzando la lettura e la "ratio" complessiva della legge al punto da trasformare la disposizione permissiva del godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, in un precetto impositivo di una servitù pubblica legislativamente innominata, in contrasto con gli art. 42 e 43 cost.; così che la norma in parola non necessita per la sua osservanza di pervenire all'imposizione di un vincolo di destinazione d'uso che investa i locali in cui siano conservate le cose soggette a vincolo.”

2.3.6.Può dunque convenirsi con due affermazioni: da un lato, neppure con un provvedimento “puntuale”, incidente su un singolo bene, comunque demandato all’Autorità centrale, e giustificato dalla singolarissima “individuale” peculiarità di quest’ultimo, potrebbe vincolarsi un bene ad un determinato utilizzo (salvo sconfinare dal potere conformativo esercitato “singulatim”a quello, sostanzialmente ablatorio).

Per altro verso, non è precluso all’amministrazione comunale (che pure non possiede simili prerogative in punto di imposizione di vincolo “singulatim” incidente su un determinato plesso immobiliare) la possibilità di addivenire alla cosiddetta "microzonizzazione" cioè, all'individuazione di sottozone con caratteristiche peculiari nell'ambito di quelle previamente individuate, purché sia rispettata la necessità che, per aree aventi caratteristiche comuni ed omogenee, venga individuata la corrispondente classificazione e con essa l'uniformità di disciplina".

Consegue da ciò che "la previsione di prescrizioni difformi per aree appartenenti ad una determinata zona, con conseguente diversità di disciplina, deve, dunque, ritenersi di per sé consentita all'Amministrazione, che deve farsi interprete delle esigenze peculiari proprie di taluni ambiti, il che richiede, tuttavia, che la correlativa statuizione sia sorretta da un'adeguata e puntuale motivazione" (cfr., T.A.R. Lombardia, Brescia, 20.11.2001, n. 1000, T.R.G.A. Trentino-Alto Adige Trento Sez. Unica, 07-01-2010, n. 1).

Detto ultimo dato risulta confermato dalla legislazione regionale toscana (L.R. 23-5-1994 n. 39) che, all’art 4 commi 1 e 2 prevedeva che ( “Mutamenti di destinazioni d'uso):1. Ai fini della presente legge sono comunque considerati mutamenti delle destinazioni d'uso, i passaggi dall'una all'altra delle seguenti categorie:

a) residenziale;

b) industriale e artigianale;

c) commerciale;

d) turistico-ricettive;

e) direzionali;

f) pubbliche o di interesse pubblico;

g) agricola e attività ad essa connesse;

h) a parcheggio;

i) verde privato.

2. Il Comune potrà altresì definire, nell'ambito delle categorie sopra indicate, ulteriori articolazioni, il passaggio dall'una all'altra delle quali viene considerato mutamento della destinazione d'uso. “.

2.3.6. Alla stregua delle dette coordinate ermeneutiche ritiene il Collegio che il Comune abbia formalmente rispettato i principi in punto di zonizzazione, ma che ciò si sia tradotto in un malgoverno sostanziale dei principi medesimi, o meglio nell’esercizio di un potere di sostanziale sottoposizione a vincolo d’uso (seppur attenuato nella versione “corretta” della delibera a seguito delle controdeduzioni, ma pur sempre sussistente) di singoli immobili.

A ben guardare la struttura delle gravate delibere, infatti, ricorre al concetto di zonizzazione quale sovrastruttura concettuale – quasi uno “schermo”- per poi riferirsi direttamente a singoli immobili (punto 7 delibera CC del 2004, e punto c delle premesse alla delibera del 2005).

Nella sostanza, viene operata una microzonizzazione (questa sì, in via di principio, per le già chiarite ragioni ammissibile), ma poi, nella sostanza, la “zona” non viene disciplinata, o, il che è lo stesso, la “zona” finisce con il coincidere con un punteggiamento che riguarda singoli esercizi (librerie) per i quali si consentono soltanto taluni utilizzi, in continuità con quelli preesistenti.

Id est: la zona “è” l’edificio, o addirittura la singola porzione di edificio ed esiste e si giustifica se ed in quanto in quell’edificio o parte di esso si svolga quella determinata attività.

2.3.7. Ad avviso del Collegio colgono nel segno, quindi, le censure di parte appellante che peraltro si richiama al concetto (consolidato in giurisprudenza), secondo il quale il principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici che discende dal più generale principio di legalità e di tipicità degli atti amministrativi, ridonda nell'impossibilità per l'Amministrazione di dotarsi di piani urbanistici i quali, per "nome, causa e contenuto", si discostino dal numerus clausus previsto dalla legge (si veda Cons. Stato Sez. IV, Sent., 13-07-2010, n. 4545).

Ciò in quanto, nel caso concreto, la microzona, non viene neppure individuata in ragione di caratteristiche tipiche di più edifici e complessi immobiliari adibiti ad una data destinazione e tra essi contigui (ad es: la via degli antiquari, il plesso delle rivendite di armi, etc) ma la microzona “è” il singolo immobile, in quanto esiste e si giustifica con riferimento unicamente a quest’ultimo, tanto che non analoghi vincoli di utilizzo sono previsti su immobili allo stesso contigui o, addirittura, su altre porzioni del singolo immobile, laddove non adibite al detto uso (qualificato come rilevante dal comune).

Se così è, v’ è da chiedersi quale sarebbe stata, sotto il profilo effettuale complessivo, la differenza se, laddove invece di operare un inquadramento sub microzona H3, si fosse invece fatto riferimento al singolo edificio, o parte di edificio: e la risposta è che non ve ne sarebbe stata alcuna.

Ma, stando così i termini della questione, allora non può che convenirsi –sotto un profilo assorbente rispetto alle altre censure prospettate - con la critica dell’appellante, secondo la quale in realtà si è al cospetto di una restrizione (poco importa se piena, ovvero attenuata nella versione definitiva della delibera) dello statuto proprietario, imponendosi a quest’ultimo dei limiti all’utilizzo dell’immobile non giustificati dall’inserimento in una zona o sottozona o microzona ma coincidenti con la pregressa tipologia di attività esercitata, e, in ultima analisi, in uno straripamento rispetto al potere conformativo tipico affidato alle amministrazione comunali.

E – se è consentita al Collegio una ulteriore chiosa a quanto sinora esposto- una ulteriore comprova di quanto sinora affermato si rinviene nelle difese dell’amministrazione comunale, laddove si è ipotizzato che la chiusura della libreria di parte appellante e la cessazione della attività presa in considerazione, potesse comportare la cessazione del vincolo di utilizzo contenuto nei gravati atti, il che non fa che confermare che ben poco di “urbanistico” ed “edilizio” fosse sotteso ai gravati atti, ma che questo fosse la schermatura di un giudizio (in sé ammissibile, ovviamente, ma non perseguibile con poteri conformativi pianificatori) di necessità che venisse esercitata una ben delimitata attività commerciale (e talune in tesi assimilabili).

3. Alla stregua delle superiori argomentazioni, e con assorbimento delle altre censure (è all’evidenza superfluo interrogarsi a questo punto sul “quantum” della limitazione imposta, ovvero sulla razionalità della previsione relativa ai possibili usi consentiti) l’appello va pertanto accolto e, in riforma dell’appellata decisione, ed in accoglimento del ricorso di primo grado e del ricorso per motivi aggiunti, vanno annullati gli atti gravati, nei limiti dell’interesse della parte originariamente ricorrente.

4. La novità e complessità delle questioni esaminate legittimano la integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto,lo accoglie nei termini di cui alla motivazione e, per l’effetto

in riforma della gravata decisione, accoglie il ricorso di primo grado ed il ricorso per motivi aggiunti, ed annulla gli atti gravati, nei limiti dell’interesse dell’originaria ricorrente.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente

Nicola Russo, Consigliere

Sergio De Felice, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Umberto Realfonzo, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 12/06/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)