LA CONTROVERSA NATURA GIURIDICA DELLA D.I.A.
di Ennio MORO
ARTICOLO A CURA DEL SEGRETARIO GENERALE AVV. ENNIO MORO
SPECIALISTA IN DIRITTO AMM.VO E SCIENZA DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

1. PREFAZIONE

Com’è noto, si tratta di un tema alquanto complesso e dibattuto, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.

La giurisprudenza ha avuto modo di affrontare le varie questioni inevitabilmente in relazione ai casi specifici pervenuti e da angolazioni diverse: in relazione all’apertura di un « centro di trasmissione dati » e con riferimento al problema dell’avvio del procedimento, è stato affermato che in materia di DIA si « prescinde dall’emanazione di un provvedimento amministrativo »; nei casi di realizzazione di impianti di telefonia cellulare si rinviene un orientamento che qualifica la denuncia di inizio attività corroborata dal decorso del tempo in termini di provvedimento amministrativo tacito ; mentre, sempre con riferimento agli impianti di telefonia cellulare, è stato escluso che la DIA abbia valore di provvedimento amministrativo e che il potere repressivo, pur ricondotto allo schema generale dell’autotutela, costituisca attività di secondo grado . Ancora, è stato ricollegato , senza ulteriori precisazioni, alla DIA, questa volta in materia edilizia, la «formazione di un implicito assenso»; mentre, in maniera più articolata e mossa soprattutto da considerazioni attinenti alla tutela dei terzi, è stato inoltre ritenuto sufficiente che gli interessati contestino la realizzabilità dell’intervento.

Non è possibile in questa sede ripercorrere in dettaglio le varie tesi, molte delle quali tendenti a enucleare, dal regime giuridico della denuncia di inizio attività, un peculiare regime della DIA edilizia. Probabilmente le incertezze regnanti in materia, che inevitabilmente si ripercuotono sul piano delle tutele, discendono anche da una progressiva trasfigurazione dell’istituto in parola, sorto e naturalmente allocato tra gli strumenti di liberalizzazione delle attività private (che, cioè, presuppongono un’attività non soggetta al regime autorizzatorio), e poi utilizzato come strumento di semplificazione procedimentale inerente, paradossalmente, a procedimenti di natura autorizzatoria: il che ha inevitabilmente portato l’istituto in parola a confondersi con lo strumento del silenzio-assenso o, quanto meno, a frantumarsi in una pluralità di istituti diversi, ciascuno dei quali assoggettato a un regime più o meno peculiare.

La soluzione della questione, deve tendere, sul piano dell’ermeneusi, a privilegiare le ipotesi che possano semplificare, in termini di chiarezza, il quadro normativo, assicurando, al contempo, una facile e quindi efficace tutela ai privati, siano essi gli interessati all’intervento edilizio, siano essi i controinteressati allo stesso.

2. LE DUE PRINCIPALI TESI A CONRONTO

Le tesi che sono state sostenute in tema di natura giuridica della DIA, nella dottrina e nella giurisprudenza soprattutto dei Tribunali amministrativi, oscillano tra due poli opposti: si sostiene, da un lato, che la denuncia di inizio attività sia un mero atto di iniziativa privata che consente solo un intervento di tipo inibitorio, in difetto dei presupposti, della Pubblica Amministrazione; dall’altro, che la denuncia di inizio attività, per effetto del decorso del tempo assegnato all’Amministrazione Pubblica per esercitare il potere inibitorio, dia luogo sostanzialmente a una fattispecie, da taluni definita anche complessa o a formazione successiva, configurabile come titolo abilitativo tacito.

Le due tesi, che si presentano variamente articolate al loro interno, comportano rilevanti conseguenze sul piano delle tutele, sia del denunciante nei confronti dell’Amministrazione, sia dei terzi contrari all’intervento edilizio, ammettendosi, in via alternativa: l’immediata impugnativa della denuncia di parte; l’impugnazione del silenzio serbato dall’Amministrazione Pubblica sull’istanza e quindi il mancato esercizio del potere inibitorio; l’impugnazione del provvedimento tacito che si forma per effetto combinato della denuncia del privato e del mancato esercizio del potere inibitorio da parte dell’Amministrazione. Si è giunti anche a ipotizzare, pur dinanzi al giudice amministrativo, un’azione di accertamento con la quale il privato controinteressato contesti al denunciante la realizzabilità dell’intervento edilizio o, quanto meno, la sua assentibilità mediante la procedura della DIA.

In estrema sintesi, secondo un primo orientamento, la DIA costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato che, in presenza di determinate condizioni ed all’esito di una fattispecie a formazione progressiva, attribuisce al privato una legittimazione ex lege allo svolgimento di una determinata attività, che sarebbe così liberalizzata.

Viceversa, secondo altro indirizzo giurisprudenziale , la complessa fattispecie risultante dalla combinazione della denuncia di inizio attività con il decorso del termine (30 gg.) prescritto dalla normativa di settore va ricondotta allo schema delle cd. autorizzazioni implicite di natura provvedimentale, suscettive di diretta impugnazione da parte dei terzi controinteressati.

La prevalente giurisprudenza sembra, invece, sostanzialmente d’accordo sulla necessità, ai fini dell’adozione dei provvedimenti repressivi, di distinguere tra potere inibitorio e potere sanzionatorio: il primo, esercitabile nel termine previsto dalla legge a pena di decadenza; il secondo, sovente ricondotto per la DIA in materia edilizia all’articolo 4 della legge n. 47 del 1985 e, comunque, al più generale potere di ordinare la cessazione dell’attività « in tutti i casi di mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti », potere generalmente tenuto distinto dal generale potere di autotutela (da chi nega la formazione di un provvedimento tacito, per mancanza del provvedimento su cui intervenire; in ogni caso, per il carattere discrezionale dell’annullamento in autotutela).

3. AUTORIZZAZIONE IMPLICITA DI NATURA PROVVEDIMENTALE

Questo indirizzo giurisprudenziale, a dire il vero minoritario, sostiene la tesi secondo cui la DIA costituirebbe una forma di autorizzazione implicita di natura provvedimentale e sul punto si evidenzia che: la legge n. 80/2005 ha espressamente previsto in relazione alla DIA il potere dell’Amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies; d’altronde, la natura provvedimentale della DIA, ancor prima delle modifiche legislative del 2005, avrebbe potuto desumersi, altresì, dalle norme contenute nel testo unico sull’edilizia le quali estendono agli interventi assoggettati a DIA le conseguenze legate all’annullamento del permesso di costruire; anche la previsione dell’ultimo comma dell’art. 19 legge 241/90 circa la giurisdizione esclusiva del G.A. nelle controversie in materia di DIA sarebbe sintomatica della volontà legislativa di sottoporre tale atto alla piena sindacabilità giurisdizionale.

A sostegno della tesi, si fa notare inoltre che il T.U. sull’edilizia - D.P.R. 380/2001 (in particolare l’art. 22) - tratta il permesso di costruire e la denuncia di inizio attività come titoli abilitativi di natura analoga, diversi solo per il procedimento da seguire: sarebbe pertanto irragionevole e lesivo dell’effettività della tutela giurisdizionale ritenere che il terzo controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo abilitativo, peraltro rimesso alla scelta della parte o ad una diversa normativa regionale .

Orbene, anche alla stregua delle suddette considerazioni, non potrebbe esservi - per i sostenitori di questo indirizzo - nessun residuo dubbio che qualsivoglia intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di interessi risultante da una DIA già perfetta ed efficace, la relativa attività deve necessariamente esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita che ha già determinato la piena espansione del cd. ius aedificandi.

4. MERO ATTO DEL PRIVATO E STRUMENTO DI LIBERALIZZAZIONE DELLE ATTIVITA’

L’altro indirizzo giurisprudenziale per inquadrare l’esatta natura giuridica della DIA prende le mosse dalla ricostruzione del sistema cui dà luogo l’istituto della denuncia di inizio attività, con riferimento particolare alla materia edilizia, e all’uopo distingue tra due distinti rapporti: quello tra denunciante e Amministrazione e quello che riguarda i controinteressati all’intervento. Tali rapporti, pur attenendo a una medesima vicenda sostanziale, possono infatti essere tenuti distinti sul piano delle tutele, anche in considerazione della diversità dei poteri di cui dispone l’Amministrazione. E’ vero, invece, che, proprio perché trattasi di situazioni direttamente collegate all’esercizio di un potere pubblicistico dell’Amministrazione cui possono contrapporsi interesse legittimi dei vari interessati, le relative controversie rientrano comunque nella giurisdizione del giudice amministrativo (salve le ipotesi di concorrenti azioni tra privati sulla base delle norme del codice civile sui rapporti di vicinato).

Dunque, nei rapporti tra denunciante e Amministrazione, la denuncia di inizio attività si porrebbe come atto di parte, che, pur in assenza di un quadro normativo di vera e propria liberalizzazione dell’attività, consente al privato di intraprendere un’attività in correlazione all’inutile decorso di un termine, cui è legato, a pena di decadenza, il potere dell’Amministrazione, correttamente definito inibitorio dell’attività. Viene precisato che, sul piano pratico, rileverebbe poco se, in forza di un’inversione procedimentale, la fattispecie dia luogo, con la scadenza del termine, a un titolo abilitativo tacito o al consolidarsi, per volontà legislativa, degli effetti di un atto di iniziativa di parte. L’interessato potrebbe contestare l’esercizio del potere inibitorio, tale qualificato dall’Amministrazione, vuoi per motivi formali (decadenza dal termine), vuoi sul piano sostanziale (sussistenza dei requisiti).

A tale potere resterebbe estraneo, sul piano normativo della qualificazione degli interessi, colui che si oppone all’intervento, perché la norma sulla denuncia di inizio attività non prenderebbe (ancora) formalmente in considerazione la sua posizione, per qualificarla in senso legittimante, ed egli, in definitiva, non potrebbe opporsi, in sede di giurisdizione amministrativa, all’attività del privato.

Una volta decorso il termine senza l’esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza, generalmente ritenuta, del generale potere repressivo degli abusi edilizi, colui che si oppone all’intervento, essendosi consolidata la fattispecie complessa che abilita, ex lege o ex actu non rileva, il privato a costruire, chi si oppone all’intervento sarebbe legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio, che pertanto non avrebbe, né potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio dell’Amministrazione – essendo decorso, il relativo termine, con la conseguenza, sottolineata in dottrina, che il giudice non potrà costringere l’Amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta - bensì il generale potere sanzionatorio, potere sicuramente a carattere vincolato.

La tesi esposta, da un lato, consentirebbe di attenuare i profili critici di ordine generale cui conduce l’utilizzazione normativa della denuncia di inizio attività in termini di semplificazione procedimentale anziché di supporto ad attività liberalizzate; dall’altro, consentirebbe di assicurare la tutela dei terzi in termini ragionevoli con lo strumento del silenzio, secondo uno schema più lineare e quindi semplice, rispetto alle variegate ipotesi cui in pratica può condurre l’altra tesi sopra prospettata, connotata dal non irrilevante problema della precisa individuazione dell’oggetto del giudizio.

Per quanto dianzi argomentato, secondo i sostenitori di questo indirizzo, non potrebbero dunque essere accettata, né la tesi per cui oggetto dell’impugnativa siano gli effetti della DIA, né la tesi che configura la DIA come un provvedimento autorizzatorio tacito. Difatti, la ricostruzione del sistema nei termini poc’anzi prospettati escluderebbe in radice che tali atti possano assumere valore provvedimentale, in quanto il principio di legalità e di conseguente tipicità dei provvedimenti amministrativi escluderebbe che possano essere inseriti nella sequenza procedimentale provvedimenti non espressione di poteri tipici previsti dalla legge.

Ai fini, dunque, delle modalità di contestazione della realizzabilità dell’intervento da parte del terzo non rileverebbe che l’intervento medesimo sia escluso in radice dalla normativa urbanistica o che lo stesso non possa ritualmente essere avviato tramite DIA: in entrambe le ipotesi, occorrerebbe che il terzo stimoli il potere repressivo dell’Amministrazione, diverse potendo essere solo le conseguenze che derivino dall’accoglimento dell’asserito motivo di illegittimità.

5. CONCLUSIONI

La soluzione è da ricercarsi alla stregua di quell’orientamento della giurisprudenza , secondo cui la D.I.A. continua ad avere natura di mero atto del privato e di strumento di liberalizzazione delle attività anche dopo le modifiche apportate all’art. 19 della L. n. 241/1990 (in specie al comma 3 di tale articolo) con l’art. 3 del D.L. n. 35/2005, convertito con L. n. 80/2005, e, per la D.I.A. in materia edilizia, all’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001 (con l’aggiunta, all’art. 38, del comma 2-bis, operata dal D. Lgs. n. 301/2002).

Non convincono, infatti, le argomentazioni sopra esposte, sulla scorta degli orientamenti di una parte della giurisprudenza e della dottrina, e tese a far considerare la D.I.A. in generale, nonché quella in materia edilizia, alla stregua di un’autorizzazione implicita, avente, dunque, natura di provvedimento tacito.

Invero, siffatte argomentazioni risultano inidonee a superare le obiezioni mosse da altra parte della giurisprudenza e della dottrina e vertenti principalmente sul dato normativo, per cui, a fronte della dichiarazione di inizio attività presentata dal privato, l’Amministrazione non ha alcun potere di autorizzazione esplicita e dunque nemmeno risulta gravata dal corrispondente dovere, con il corollario che sul punto non si forma alcun provvedimento tacito.

Si deve, infatti, condividere il rilievo secondo cui, entro il termine decadenziale (previsto, in materia edilizia, dall’art. 23, commi 1 e 6, del D.P.R. n. 380/2001), l’Amministrazione che ha ricevuto la D.I.A. non è chiamata ad esercitare un potere di abilitazione o di autorizzazione all’esercizio dell’attività, ma il – distinto – potere di inibizione dell’esercizio di un’attività che dovesse risultare illegittima od irregolare.

Non si può, quindi, configurare alcuna ipotesi di silenzio assenso, giacché questo, nel caso di specie, dovrebbe ipotizzarsi quale rimedio al mancato esercizio, da parte della P.A., di un potere autorizzativo: potere autorizzativo che, invece, per quanto appena visto, la P.A. non possiede affatto , non essendo ipotizzabile, nello schema procedimentale della D.I.A. tuttora vigente – sia in linea generale, nella L. n. 241/1990 riformata, sia nella materia edilizia, ex artt. 22 e segg. del D.P.R. n. 380/2001 – un provvedimento di autorizzazione esplicita dell’intervento.

Inoltre, non sembra superata neanche l’altra obiezione in passato mossa alla ricostruzione della D.I.A. in termini di autorizzazione implicita, secondo la quale tale ricostruzione finisce per accostare eccessivamente la D.I.A. al cd. silenzio assenso, facendo dell’una il doppione dell’altro, in violazione anche del canone logico per cui “entia non sunt multiplicanda sine necessitate”.

Non valgono a superare le riflessioni ora esposte, neppure gli argomenti ricavabili dall’orientamento favorevole a considerare la D.I.A., anche in materia edilizia, come un provvedimento tacito. In particolare, quanto alla disciplina introdotta nel 2005 a modifica dell’art. 19 della L. n. 241 cit., si osserva che è ben possibile ipotizzare una diversa ricostruzione, rispetto a quella che vorrebbe far discendere da tale modifica la configurazione della D.I.A. quale autorizzazione tacita. Ed invero, appare anzitutto da escludere che una conferma alla natura della D.I.A. come provvedimento implicito, direttamente e pienamente sindacabile da parte del giudice, possa dedursi dalla previsione in materia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 19, comma 5, della L. n. 241/1990. Ciò, perché, in disparte i dubbi sulla conformità dell’introduzione di una tale fattispecie di giurisdizione esclusiva ai canoni per questa dettati dalla Corte costituzionale con la “storica” sentenza n. 204/2004, se la D.I.A. potesse configurarsi quale autorizzazione implicita, essa potrebbe ben essere sindacata dal giudice amministrativo nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità. Per questo verso, dunque, la previsione della giurisdizione esclusiva risulterebbe sovrabbondante e non necessaria.

In secondo luogo, non può condividersi l’accostamento della D.I.A. al permesso di costruire, in una prospettiva che li veda entrambi quali titoli abilitativi di natura analoga. Ciò, anzitutto perché nell’ipotesi del permesso di costruire il controinteressato ha un provvedimento della P.A. contro cui può rivolgere le sue censure; nel caso della D.I.A., invece, egli non si trova di fronte ad alcun atto della P.A., come si è già visto, ma ha dinanzi solo l’istanza del privato, seguita dal mancato esercizio del potere inibitorio nel termine decadenziale. Ne deriva che la D.I.A., ove ricostruita come provvedimento tacito, sarebbe sempre affetta da illegittimità per difetto di motivazione sulla conformità dell’intervento alle norme urbanistico-edilizie.

Nemmeno pare ammissibile la parificazione della D.I.A. al permesso di costruire, muovendo della necessità di scongiurare che le differenze procedimentali si traducano in asserite lesioni dell’effettività della tutela giurisdizionale: lesioni che si determinerebbero, secondo la tesi ora criticata, qualora si insista nel qualificare la D.I.A. come mero atto del privato, che non può essere direttamente impugnato in sede giurisdizionale.

In contrario, va rilevato che la tutela del terzo che si oppone all’intervento attuato tramite la D.I.A. è pienamente garantita. Essa, infatti, si realizza rivolgendo all’Amministrazione formale istanza per l’esercizio della potestà repressiva attribuitale dalla legge (artt. 27 e segg. del d.P.R. n. 380/2001) ed agendo poi, ai sensi dell’art. 21-bis della L. n. 1034/1971, avverso il cd. silenzio rifiuto formatosi sull’istanza (ovvero, impugnando con il ricorso ordinario il diniego esplicito di intervento da parte della P.A.).

In siffatta prospettiva:

a) mentre nei rapporti tra denunciante ed Amministrazione la D.I.A. in materia edilizia si pone come atto di parte, rispetto al quale la P.A. può esercitare, nel termine decadenziale di trenta giorni ex art. 23, commi 1 e 6, del D.P.R. n. 380/2001, il potere d’inibizione della attività, a tale potere il terzo che si oppone all’intervento resta, sul piano della qualificazione degli interessi, del tutto estraneo, poiché in questa fase la normativa ancora non prende in considerazione la sua posizione ed egli non ha, pertanto, nessuna situazione legittimante per opporsi, in sede giurisdizionale, all’attività del privato denunciante;

b) decorso il termine decadenziale ora visto senza l’esercizio del potere inibitorio, il terzo che si oppone all’intervento potrà, invece, richiedere all’Amministrazione di esercitare un distinto potere e cioè non più quello inibitorio, ma quello sanzionatorio-repressivo degli abusi edilizi di cui agli artt. 27 e segg. del D.P.R. n. 380/2001 (rispetto al quale, quindi, potrà trovarsi in una situazione, ad es. per la vicinitas, che lo legittimi a sollecitarne l’esercizio) e, nel caso di inerzia della P.A., potrà far ricorso alla procedura del silenzio ex art. 21-bis della l. n. 1034/1971;

c) l’accertamento dell’illegittimità del silenzio, da effettuare alla stregua delle modifiche apportate dalla L. n. 80/2005 e perciò tenendo ferma la necessità della formale istanza alla P.A. affinché si attivi, ma senza che sia più necessaria, dopo siffatta istanza, la successiva diffida ad adempiere, avrà pertanto ad oggetto non già il potere inibitorio della D.I.A., dal quale l’Amministrazione è ormai decaduta, ma il generale potere sanzionatorio .

Affermare, quindi, che la configurazione della D.I.A. quale provvedimento tacito si impone per l’esigenza di garantire la tutela giurisdizionale sul piano della sua effettività, potrebbe portare ad uno svilimento della portata che, proprio sul piano dell’effettività della tutela, ha il rito del silenzio ex art. 21-bis cit., quasi che il sistema di tutela che si attua tramite tale rito non sia satisfattivo dei canoni di cui all’art. 24 Cost.: conclusione, questa, che non può in alcun modo essere condivisa.

Per di più, a ben vedere è proprio la ricostruzione della D.I.A. in materia edilizia alla stregua di un’autorizzazione implicita a poter risultare, in concreto, foriera di un livello minore di tutela giurisdizionale, poiché espone il terzo che si oppone all’intervento, il quale non abbia, come normalmente accade, una precisa ed esaustiva cognizione del titolo sul quale si fonda l’intervento, ai rischi discendenti dal decorso del termine decadenziale di impugnazione del titolo stesso: con l’estensione alla D.I.A. di tutte le problematiche in tema di accertamento del momento in cui si ha la cd. piena conoscenza dell’atto lesivo e quindi inizia a decorrere l’ora visto termine decadenziale.

All’atto pratico, pertanto, la tesi che configura la D.I.A. quale provvedimento implicito non risulta di per sé idonea ad assicurare un più elevato livello di tutela giurisdizionale al terzo, il quale si voglia opporre all’intervento; all’opposto, lo espone alle incertezze interpretative legate all’individuazione dell’esatto momento in cui egli consegue la cd. piena conoscenza dell’atto lesivo: momento a partire dal quale decorre, per lui, il termine di impugnativa.

Un siffatto rischio è, invece, del tutto scongiurato dall’esercizio della tutela giurisdizionale a mezzo dell’attivazione del procedimento ex art. 21-bis della l. n. 1034/1971: procedimento, perciò, al quale in nessun modo può essere attribuita la natura di un inutile aggravio a carico del terzo.

Il punto di maggior contrasto è, però, un altro e riguarda la previsione, nel testo dell’art. 19, comma 3, della L. n. 241/1990 introdotto dal D.L. n. 35/2005, del potere dell’Amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della stessa L. n. 241, introdotti dalla L. n. 15/2005 e disciplinanti, rispettivamente, il potere di revoca e quello di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi.

Da più parti si è infatti sostenuto che, con tale previsione, il Legislatore abbia inteso sancire la natura di provvedimento implicito della D.I.A., giacché il potere di annullamento d’ufficio e di revoca, che sarebbero stati estesi dall’art. 19 cit. alla D.I.A., risultano concepibili solo in ordine ad una fattispecie avente natura provvedimentale. E ad identica conclusione si era già pervenuti per la D.I.A. in materia edilizia, attesa l’aggiunta all’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001 del comma 2-bis, il quale estende alla D.I.A. la disciplina degli interventi eseguiti in base a permesso di costruire annullato .

Sulla stessa falsariga, si è sostenuto - senza pregio - che, se è ammesso l’annullamento d’ufficio della D.I.A., deve parimenti ammettersene l’annullamento da parte del giudice amministrativo, adito con il normale giudizio impugnatorio.

Per quanto riguarda, anzitutto, l’art. 38, comma 2-bis, del D.P.R. n. 380/2001, si è obiettato che la disposizione si riferisce (al pari dell’annullamento straordinario regionale previsto dal successivo art. 39, comma 5-bis), alle sole ipotesi di cui all’art. 22, comma 3, del D.P.R. n. 380 cit., ossia alle sole fattispecie in cui la D.I.A. è alternativa al permesso di costruire, e che, pertanto, da essa non discende nessun principio generale, estensibile a tutte le ipotesi sottoposte a D.I.A.: quindi, la disposizione de qua non può essere usata per sostenere che la dichiarazione costituisca un provvedimento impugnabile ed annullabile .

Quanto, poi, al nuovo testo dell’art. 19 della L. n. 241/1990, in disparte ogni riflessione sulla portata della clausola di specialità prevista dal comma 4 dell’articolo, si è condivisibilmente sottolineato da parte di autorevole dottrina che il richiamo effettuato dal comma 3 agli artt. 21-quinquies e 21-nonies della L. n. 241/1990, sta a significare che il Legislatore ha inteso non già qualificare la D.I.A. come un atto abilitativo tacito, bensì estendere al potere di controllo e di repressione degli abusi edilizi le regole dettate per l’esercizio del potere di autotutela dai succitati artt. 21-quinquies e 21-nonies. Ne deriva, quindi, che, qualora si ravvisi un affidamento del privato dichiarante, la P.A. sarà tenuta, in sede di esercizio del potere sanzionatorio-repressivo degli abusi edilizi, a rendere esplicita la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’eliminazione dell’opera oggetto della D.I.A., distinto da quello al mero ripristino della legalità violata e prevalente sull’interesse del privato alla conservazione dell’opera stessa.

In altri termini, la reale portata innovativa delle modifiche apportate all’art. 19, comma 3, della L. n. 241/1990 consiste nel fatto che, nelle ipotesi in cui sia dato ravvisare un legittimo affidamento del privato dichiarante ed a fronte del mancato esercizio del potere inibitorio da parte della P.A. nel termine perentorio di legge, l’esercizio del potere sanzionatorio degli abusi edilizi – almeno nel caso di intervento attuato con la D.I.A. – non può più reputarsi del tutto vincolato . In proposito, peraltro, è necessario precisare in quali ipotesi si possa parlare di un legittimo affidamento meritevole di tutela in capo al dichiarante. Ciò, perché, secondo un contrastato, ma condivisibile orientamento giurisprudenziale , il fatto del mero decorso del tempo non è sufficiente a far sorgere un affidamento sulla legittimità dell’opera edilizia, o comunque sul consolidamento dell’interesse del privato alla sua conservazione.

Nel caso della D.I.A. in materia edilizia, d’altra parte, il decorso del termine di trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione, ex art. 23, commi 1 e 6, del D.P.R. n. 380/2001, senza che la P.A. eserciti il proprio potere inibitorio dell’intervento, considerato il carattere perentorio comunemente riconosciuto a detto termine, comporta, quantomeno, il consolidamento in capo al dichiarante di un affidamento circa l’avvenuta formazione del titolo

La questione è stata approfondita dalla giurisprudenza , che è arrivata ad individuare, quale sola ipotesi in cui può insorgere un affidamento del dichiarante meritevole di tutela, quella in cui le opere realizzate siano totalmente corrispondenti a quanto indicato nella D.I.A., ma rientrino tra le tipologie di interventi edilizi assoggettate al regime del permesso di costruire.

A ben vedere, il quadro normativo conserverebbe, così, una sua coerenza. Infatti, se in linea generale il decorso del tempo, come già accennato, non basta a far insorgere un affidamento del privato sulla legittimità dell’opera edilizia o, almeno, sul consolidamento dell’interesse alla sua conservazione, con il corollario che non vi è necessità di una specifica motivazione circa l’esistenza di un interesse pubblico prevalente diverso dal mero ripristino della legalità violata, qualora il potere sanzionatorio-repressivo dell’abuso venga esercitato a distanza di molto tempo dalla realizzazione dell’opera (abusiva), discorso esattamente opposto sarebbe, invece, da fare per le opere eseguite in base a D.I.A.. In questo caso, infatti, da una parte, il mero fatto della scadenza del termine ex art. 23, commi 1 e 6, del D.P.R. n. 380 basterebbe, si ripete, a fondare un affidamento del privato sulla formazione del titolo. La P.A. conserva, nondimeno, il potere di repressione dell’eventuale abuso commesso, ma, nell’esercitare tale potere, dovrebbe, a differenza dell’ipotesi precedente, motivare circa le ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’opera.

Il discorso sul significato da attribuire all’estensione alla D.I.A. delle regole in materia di autotutela, potrebbe essere ulteriormente sviluppato, nel senso di estendere alla disciplina in tema di D.I.A. il principio, sancito per il potere di annullamento d’ufficio dall’art. 21-nonies cit., secondo il quale tale potere va esercitato entro un termine ragionevole.

Dall’applicazione di detto principio alla D.I.A. deriverebbe, allora, che il terzo, che intenda opporsi alle opere eseguite in base a D.I.A., può chiedere l’intervento dell’Amministrazione, ma solo entro un termine ragionevole, oltre il quale non gli si potrebbe più riconoscere la titolarità di una situazione differenziata e qualificata, che obblighi la P.A. a rispondere alla sua richiesta, a pena, nel caso di inerzia, di attivazione del rito di cui all’art. 21-bis della l. n. 1034/1971. Né ad una tale conclusione osterebbe il dato normativo, in base al quale il potere repressivo-sanzionatorio degli abusi edilizi è esercitabile dall’Amministrazione ex officio senza limiti di tempo, atteso che per esso non risulta previsto alcun termine di decadenza o di prescrizione .

In altri termini, mentre il potere officioso dell’Amministrazione, volto a sanzionare gli abusi edilizi per porre rimedio ai fenomeni di compromissione del territorio, è esercitabile senza limiti di tempo, anche avverso un intervento attuato a mezzo di D.I.A., nella ricostruzione proposta il privato che si voglia opporre a tale intervento (in nome di esigenze privatistiche) potrebbe richiedere alla P.A. di intervenire, ma dovrebbe farlo entro un termine ragionevole. Decorso inutilmente detto termine, verrebbe meno, per la P.A., l’obbligo di rispondere alla sua istanza tardivamente proposta, sicché non sarebbe a tal punto ipotizzabile la formazione di alcun silenzio rifiuto, giustiziabile con il rito ex art. 21-bis della Legge T.A.R..

In questa prospettiva potrebbe, allora, spiegarsi il riferimento, anche nella disciplina dettata per la D.I.A., alle regole in materia di autotutela, senza per ciò solo arrivare a dedurne che la D.I.A. abbia ormai assunto la veste di provvedimento autorizzatorio implicito.

In definitiva, perciò, la configurazione tuttora della D.I.A. quale mero atto del privato, e non quale atto autoritativo tacito, porta a concludere che la tutela del terzo controinteressato, in caso di intervento attuato in base a D.I.A., pur avendo egli l’onere di attivarsi entro un lasso di tempo ragionevole, sarebbe in ogni caso sottratta alla regola della necessità di impugnare l’atto lesivo entro il breve termine decadenziale. Dunque, detta tutela, contrariamente a ciò che sostiene l’opposta tesi, avrebbe maggiore ampiezza, almeno sotto l’aspetto temporale: il che, comunque, non comprimerebbe ingiustificatamente i diritti del soggetto dichiarante, in quanto quest’ultimo avrebbe consapevolmente scelto uno strumento di liberalizzazione, che postula, per esigenze di tutela dei diritti dei terzi, taluni contrappesi.

Ed una tale spiegazione si attaglierebbe altresì alla D.I.A. in materia edilizia, anche laddove la legislazione regionale abbia reso in toto alternativa, quale titolo per l’esecuzione degli interventi edilizi, la dichiarazione rispetto al permesso di costruire, secondo quanto precisato più sopra.

Avv. Ennio Moro
18/06/2009