Distanze tra fabbricati e nuovo edificio (Nota critica a Cons. Stato, sez. IV, n. 4337/2017)

di Massimo GRISANTI

Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato (Pres. Vito Poli – Est. Oberdan Forlenza) ha scritto una pagina assai non condivisibile in tema di distanze tra fabbricati.
Il passo qui in esame è il seguente:
“ … 3.1. Come è noto, l’art. 9 D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2). Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo prevede che:
“sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
È stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 23 giugno 2017 n. 3093 e 8 maggio 2017 n. 2086; 29 febbraio 2016 n. 856; Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2016 n. 23136) che la disposizione contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art.41-quinquies l. 17 agosto 1942 n. 1150, “i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”. Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi – così come condivisibilmente sostenuto dall’appellante - per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione(in tal senso, Cons. giust. amm. Sicilia, 3 marzo 2017 n. 74) …”.
Non è assolutamente condivisibile che nell’accezione di “nuovo edificio” possa ricomprendersi solamente l’edificio che viene costruito per la prima volta e non anche quello risultante da un intervento di demolizione e ricostruzione, specie se infedele.
Dopo aver ripercorso la ratio della disciplina ex art. 9 D.M. 1444/1968, il percorso logico argomentativo del Collegio giudicante si scontra frontalmente:
1) sul diritto costituzionalmente garantito degli abitanti a vedersi assicurata una pari tutela della salute e dell’incolumità contro i fattori di rischio connessi all’uso del territorio e degli edifici. Non si vede perché gli abitanti in un edificio ricostruito a 5 metri di distanza da un altro esistente antistante debbano ricevere una tutela deteriore rispetto a quelli che occupano un identico edificio che, realizzato per la prima volta, deve porsi a distanza di almeno 10 metri.
2) con le disposizioni dell’art.7 della legge 1150/1942, le quali impongono che il piano regolatore generale debba disciplinare anche gli interventi sul tessuto urbanistico-edilizio esistente, dovendo considerare l’intero territorio comunale.
3) con le disposizioni della legge 457/1978 relative ai piani di recupero, che per l’effetto della pronuncia verrebbero inammissibilmente esentati dal rispetto del D.M. 1444/1968.
4) con la macroscopica diversità di interpretazione rispetto all’art. 41 sexies della legge 1150/1942 fattane fino ad oggi dai supremi consessi amministrativi e di legittimità civile e penale, atteso che ai fini del reperimento degli spazi per parcheggio sono considerati “nuove costruzioni” anche i prodotti della ristrutturazione degli edifici esistenti con mutamento di destinazione urbanisticamente rilevante.
Ma l’aspetto che lascia ancor più perplessi è che il Collegio giudicante ha completamente obliterato, di fatto abrogandolo, l’articolo 11 della Legge Urbanistica, intitolato “Durata ed effetti del piano generale”, nel quale così dispone il legislatore: “I proprietari degli immobili hanno l’obbligo di osservare nelle costruzioni e nelle ricostruzioni le linee e le prescrizioni di zona che sono indicate nel piano”.
Non vi è chi non veda che un tipico effetto del piano regolatore è quello di imporre le prescrizioni di zona, quindi anche i limiti edilizi ex articoli 7, 8 e 9 del DM 1444/1968, anche in caso di ricostruzione (ovviamente al di fuori dei casi di demolizione e fedele ricostruzione senza mutamento di destinazione d’uso) perché viene sempre ad esistenza, in tal caso, un edificio nuovo per sagoma o per destinazione d’uso.
Non convince nemmeno l’asserzione che diversamente opinando saremmo in presenza di una sorta di espropriazione, atteso che l’ordinamento assicura al proprietario dello stabile poter ricostruire lo stesso edificio.
È del tutto evidente che le innovazioni ai fabbricati esistenti, ai sensi dell’art. 42 della Costituzione, possono essere assoggettate a più stringenti, e limitanti, disposizioni a tutela di preminenti interessi pubblici (standard minimi essenziali di igiene urbana e salute degli abitanti, pubblica incolumità ecc.).
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Scritto il 30 settembre 2017