IL CONDONO EDILIZIO GIURISPRUDENZIALE
Abusi d’ufficio dei magistrati amministrativi? (sulla generale inapplicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. alla materia del governo del territorio)

di Massimo GRISANTI

 

C’era una volta la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale ovverosia il rilascio del provvedimento permissivo ex post di un’opera realizzata sine titulo che era conforme agli strumenti urbanistici al momento dell’atto amministrativo, ma non quando era stata realizzata.

 

Poi, con la legge n. 47/1985 il legislatore statale ha istituito l’accertamento di conformità (art. 13), a seguito del quale non è più possibile, per i Comuni, rilasciare la c.d. sanatoria giurisprudenziale.

La novella normativa è stata avversata anche con talune pronunce del supremo consesso amministrativo, ma poi ha finito per prevalere l’orientamento giurisprudenziale invocante la c.d. doppia conformità.

 

In particolare, come ha acutamente e giustamente osservato il TAR Sicilia, Catania, nella sentenza n. 5/2009 (Pres. Zingales, Est. Messina), “… quella sorta di antinomia che si vorrebbe creare con l'affermazione della cd. sanatoria giurisprudenziale - e quindi con il sostanziale ripudio dell'esigenza della doppia conformità, ad onta della sua esplicita previsione negli artt. 13 e 36 citati - tra i principi di legalità e di buon andamento della P.A., con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica "efficientista", risulta artificiosa (cfr.: T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 09 giugno 2006 , n. 1352). Va innanzitutto osservato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa (cfr. l’appena citata decisione del Tar Milano, ed ivi ulteriore ragguaglio giurisprudenziale) e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall’esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della p.a., ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità. Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella specifica materia in questione, individuato dal legislatore nel consentire – come già detto – la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento da osservare nell’attività edificatoria (e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso del territorio). La vera insanabile contraddizione starebbe, da un lato nell’imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono - sul piano urbanistico - quelle conseguenti ad opere per cui non esista la cd. doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. la già richiamata sentenza del Tar Milano n. 1352/2006). Ciò in quanto sarebbe davvero contrario al buon andamento ammettere che l'amministrazione, una volta posta la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa sia indotta - anziché a provvedere a sanzionarli - a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe così per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, contando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore.”.

 

Orbene, mentre la c.d. sanatoria giurisprudenziale NON aveva come soggetto compartecipe dell’illecito edilizio la Pubblica Amministrazione [poiché l’abuso era stato commesso totalmente ad opera del soggetto privato, tutt’al più con la complice tolleranza della polizia municipale e dei tecnici comunali che omettevano di esercitare la doverosa attività di vigilanza], il CONDONO GIURISPRUDENZIALE sembra essere stato coniato dalla Magistratura Amministrativa all’esclusivo o preponderante fine di esimere la Pubblica Amministrazione dalla responsabilità aquiliana (ex art. 2043 c.c.) conseguente al rilascio di un provvedimento permissivo sostanzialmente illegittimo.

 

Quando parlo di CONDONO GIURISPRUDENZIALE mi riferisco all’ormai dilagante distorto uso dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. sull’annullamento d’ufficio, al quale viene fatto sistematico ricorso da parte dei Comuni (prassi avallata dai dei Giudici dei TT.AA.RR. e del Consiglio di Stato) al fine di evitare l’annullamento dei permessi di costruire illegittimi, ripetendo nei provvedimenti l’ormai stereotipata formuletta “… tenuto conto degli interessi in gioco non si rinviene un preminente interesse pubblico, diverso da quello del ripristino della legalità violata, tale da dover sacrificare il legittimo affidamento del privato formatosi sul provvedimento illegittimo …”.

In definitiva, l’opera sostanzialmente abusiva rimane in piedi, con conseguente concorso, da parte dei Comuni, non solo nell’abusiva edificazione (e talvolta anche lottizzazione), ma anche nel godimento dei proventi e del frutto del consumato illecito.

 

Niente di più aberrante e fuorviante!

 

Invero:

  1. l’Amministrazione, ma anche l’amministrato è tenuto a orientare il proprio comportamento a ordinari criteri di diligenza quanto interloquisce con la prima, non potendo invocare il proprio legittimo affidamento in relazione a patenti violazioni della legge che egli stesso avrebbe dovuto rilevare ictu oculi oppure affidandosi, come prevede la legge, ai liberi professionisti che progettano l’opera e che, per formazione e riconoscimento mediante l’abilitazione all’esercizio della professione, devono conoscere e saper applicare la normativa disciplinante l’attività edificatoria;

  2. poiché con la legge n. 15/2005, introducente l’art. 21-nonies ed altri correttivi alla legge n. 241/1990, il legislatore statale ha inteso introdurre nell’azione amministrativa profili di giustizia amministrativa, non si vede come in applicazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione (che ricomprende il canone di legalità) vi possa essere diversità di presupposti tra l’azione di annullamento giudiziale e quella amministrativa in via di autotutela, specie dopo aver accertato l’esistenza della violazione della disciplina urbanistico-edilizia;

  3. tutti dimenticano che la pianificazione urbanistica costituisce un insieme di regole (tutelanti l’intero fascio di interessi pubblici sottesi al governo del territorio: potenzialità edificatorie dei suoli; tutela dei valori ambientali e paesaggistici; tutela della salute e, quindi, della vita salubre degli abitanti; esigenze economico-sociali della collettività radicata sul territorio), un insieme di regole che i Cittadini si danno per il governo del proprio territorio facendo applicazione degli articoli 1 e 3 della Costituzione ovverosia esercitando la sovranità popolare e partecipando alla formazione degli strumenti urbanistici; di talché, in assenza della variazione degli strumenti urbanistici l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio del titolo illegittimo è in RE IPSA (anche perché la res abusiva, proprio perché non consentita dallo strumento urbanistico od eccedente quanto ammesso, è ipso iure idonea ad alterare il complesso contemperamento di interessi pubblici sotteso nella pianificazione). Gli Organi comunali che sic et simpliter deliberano l’insussistenza di interessi pubblici al fine di mantenere in essere l’opera contrastante con il PRG compiono una EVIDENTE violazione degli articoli 1, 3, 9, 32, 42, 44 e 47 della Costituzione, finendo anche per mutare i Cittadini in sudditi;

  4. considerando che il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici, disciplinato dall’art. 14 del D.P.R. n. 380/2001, può essere rilasciato unicamente per edifici pubblici o di interesse pubblico e comunque nel rispetto dei limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza degli edifici e distanza tra fabbricati ex artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444/68, attraverso il rifiuto all’annullamento d’ufficio di un illegittimo permesso di costruire si arriva al PARADOSSO che i Comuni vanno oltre il permesso in deroga finendo per istituire ex abrupto, in difetto assoluto di attribuzione, un nuovo titolo sanante (CONDONO EDILIZIO/URBANISTICO de facto) non previsto dalla legge dello Stato;

  5. considerando che un fabbricato abusivo, in tutto o in parte, non può formare oggetto di alienazione senza il permesso a sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, ed il relativo contratto di compravendita è nullo, attraverso il rifiuto all’annullamento d’ufficio dell’illegittimo permesso di costruire i Comuni finiscono per consentire quella circolazione dei beni illeciti che lo Stato ha inteso vietare comminando la sanzione della nullità, innovando così de facto la materia dell’ordinamento civile;

  6. attraverso il rifiuto all’annullamento d’ufficio i Comuni ed i Giudici amministrativi:

    1. disapplicano di fatto la legge urbanistica fondamentale n. 1150/1942 che sancisce la primazia della pianificazione e stabilisce il principio della sua attuazione mediante la licenza edilizia (oggi permesso di costruire);

    2. generano un transgenico ircocervo tra permesso di costruire in deroga alla pianificazione e contestuale variante allo strumento urbanistico, al di fuori dei procedimenti di formazione e di partecipazione popolare prescritti dalla legislazione statale e regionale.

  7. atteso che con orientamento univoco la giurisprudenza amministrativa ha sempre stabilito che l’interesse pubblico alla demolizione di un’opera eseguita sine titulo è in re ipsa (cfr. ex multis Cons. Stato, n. 498/2013), non si vede proprio quale sia il valido motivo che giustifichi un diverso trattamento per l’opera realizzata in forza di un titolo illegittimo, dal momento che, come insegna la Suprema Corte di Cassazione penale (cfr. ex multis Cass. penale, n. 15174/2011; n. 40111/2012; n. 41318/2012) l’opera realizzata in forza di un titolo illegittimo è da considerarsi anch’essa sine titulo. Anzi in quest’ultima evenienza l’opera illecita potrebbe addirittura essere il frutto di corruzione e di un abuso d’ufficio e pertanto la P.A., senza attendere l’intervento o il giudizio della Magistratura penale, è tenuta in ogni caso – per fugare ogni dubbio e per operare un effettivo contrasto alla corruzione, anche ipotetica – ad annullare il provvedimento facendo esercizio del potere di autotutela;

  8. rifiutare l’annullamento d’ufficio di un titolo illegittimo costituisce, inoltre, abuso d’ufficio a favore della stessa pubblica amministrazione (che così non è chiamata alla refusione dei danni provocati, dispensando di rivalersi nei confronti del dipendente “fedele” ai desiderata dei politici di turno) e costituisce una manifesta violazione del principio di eguaglianza dei Cittadini di fronte alla legge (invero, mentre i privati sono sempre responsabili delle loro azioni, ecco che non lo sono i dipendenti pubblici). E ciò nonostante siano passati diversi decenni da quando Orwell scrisse “La fattoria degli animali”;

  9. rifiutare l’annullamento d’ufficio di un titolo che viola lo strumento urbanistico significa UCCIDERE IN CULLA la legalità dell’azione amministrativa e DISPREZZARE coloro i quali hanno avuto rispetto dell’Autorità costituita limitandosi ad esercitare l’attività edilizia nel pieno rispetto delle regole.

 

In ragione di ciò, ritengo che il Consiglio di Stato debba affrontare con la dovuta risolutezza la questione – occorrendo anche in sede di adunanza plenaria – al fine di stroncare l’istituito CONDONO GIURISPRUDENZIALE e così orientare, univocamente, l’azione dei giudici amministrativi e dei comuni verso il doveroso annullamento in via di autotutela dei titoli sostanzialmente illegittimi.

 

Ciò porterà ad una responsabilizzazione dei dipendenti della Pubblica Amministrazione e alla loro selezione secondo le migliori conoscenze, non esclusi i segretari comunali che, ricorda il Consiglio di Stato (cfr. sentenza n. 8750/2009), sono i “garanti della legalità dell’azione amministrativa”.

 

Se diveramente ciò non avvenisse avremmo la prova provata che non stiamo vivendo in un Paese di diritto, bensì nel Paese dei FURBI, degli AMICI degli AMICI, dei PREPOTENTI e dei CORROTTI.

Se diversamente ciò non avvenisse ritengo che diverrà dovere civile – fin dalla prima occasione – presentare alla Magistratura penale degli esposti ipotizzando il reato di abuso d’ufficio a carico dei componenti dei collegi di giustizia amministrativa che continueranno nell’applicazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. in maniera del tutto avulsa dal complesso delle leggi che regolano la pianificazione e la disciplina edilizia. Con la speranza, l’ultima a morire, di trovare Pubblici Ministeri e Giudici penali coraggiosi nel far rispettare la Costituzione.

 

 

Scritto il 15 giugno 2013