L’urbanistica in Italia è morta o forse non è mai nata
di Giuseppe COCCHI

Riflessione sull’evoluzione interpretativa dell’art. 31 comma 5 del d.lgs. 380/2001 e ss.mm.ii. come suggerita dalle “linee guida relative ai problemi dell’abusivismo edilizio” di cui alla Delibera della Giunta Regionale della Campania n.57/2018

abstract
L’urbanistica in Italia è morta (o forse non è mai nata!)
 …. a ricordarne la prematura scomparsa contribuisce la Delibera della Giunta Regionale della Campania n.57 del 06/02/2018 avente ad oggetto: “linee guida relative ai problemi dell’abusivismo edilizio”, adottata in applicazione della legge regionale n.19 del 22.06.2017.
Riflessione sull’introduzione di una diversa forma di “condono edilizio permanente” a mezzo dell’interpretazione forzata e distorta dell’art. 31 comma 5 del d. lgs. 380/2001.



L’urbanistica, in Italia, è morta … o forse non è mai nata.
Credo che buona parte di coloro che, per una qualche ragione, si occupino o si siano occupati della disciplina urbanistica, da tempo ridefinita del “governo del Territorio”, non provino alcuno stupore di fronte ad un’affermazione come quella enunciata.
Eppure all’esame universitario di “tecnica urbanistica” in qualunque Ateneo d’Italia, gli accademici hanno costantemente spiegato ai loro allievi che:
« L'urbanistica è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l'interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l'adattamento di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l'eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia, infine, attraverso la riforma e l'organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati con l'ambiente naturale » (Giovanni Astengo, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XIV, Venezia, Sansoni, 1966).
Ancora: «L'urbanistica può essere definita come l'arte di pianificare lo sviluppo fisico delle comunità urbane, con l'obiettivo generale di assicurare condizioni di vita e di lavoro salubri e sicure, fornendo adeguate ed efficienti forme di trasporto e promuovendo il benessere pubblico. Come scienza l'urbanistica pretende di scoprire la verità nella città sulle condizioni economiche, sociali e fisiche. Come arte cerca di ottenere un compromesso, sia economico sia sociale, nelle vie di comunicazione, nell'uso del suolo, nelle costruzioni e nelle altre strutture » (Thomas Adams, Encyclopedia of Social Science)
E’ evidente, quindi, che l’urbanistica, come tutte le scienze, presuppone una fase di analisi, delle ipotesi e delle tesi (per cui una fase di diagnosi) e una soluzione (la cura) che fondi su presupposti scientifici (come nella definizione di Astengo); ma l’urbanistica è anche l‘arte del compromesso tra ipotesi scientifiche e visioni politiche di sviluppo socio-economico della Città e della comunità (come nella definizione di Thomas Adams).
Insomma le definizioni che provino a descrivere cosa si intenda per “urbanistica” si sprecano; tra le tante, quella che più mi piace, forse perché ne focalizza lo scopo, è la definizione di “urbanistica”  di Bernardo Secchi, (Prima lezione di urbanistica, 2007) dove l’urbanistica è «rappresentata come ciò che pone fine a un inesorabile processo di peggioramento delle condizioni della città e del territorio presi in esame e come inizio di un virtuoso processo del loro miglioramento».
Al di là delle definizioni teoriche, però, è sotto gli occhi di tutti che l’urbanistica in Italia (o almeno in buona parte del Paese) abbia fallito la sua “mission”; è sufficiente visitare le periferie delle città italiane, le campagne disseminate, più o meno, di finte abitazioni rurali, le coste inquinate dalla cementificazione selvaggia; è sufficiente prestare attenzione ai tanti episodi di cronaca che descrivono di frane, di alluvioni, del traffico, dell’inquinamento delle falde, dei corsi d’acqua e dell’aria causate da interventi maldestri dell’uomo.
Ma perché tutto questo è accaduto? Quando tutto è cominciato? Quando si è determinata la “morte” della disciplina urbanistica?
E soprattutto, è possibile che una disciplina morta risorga?
Le risposte a questi interrogativi, a norme invariate, sono note a quanti si occupano della materia in termini accademici o professionali, ma credo siano sconosciute alla maggioranza dei cittadini, i quali sono vittime inconsapevoli del fallimento dell’urbanistica italiana.
Procediamo per ordine.
La storia della legislazione urbanistica italiana, al di là di alcune sporadiche leggi dell’Italia post-unitaria, ha origine con il regime fascista.
E’ con il fascismo che vengono promulgate importanti leggi a tutela dei beni culturali (L. 1039/1939) e a tutela delle bellezze paesaggistiche (L.1497/1939). Tali leggi sono state solo di recente “rivisitate” (T.U. n°490/1999 poi modificato dal D.lgs. 42/2004).
Il regime fascista tuttavia non ha avuto la “forza” di promulgare una compiuta legge urbanistica. In piena seconda guerra mondiale è approvata la legge n° 1150, nota ai più come “legge quadro sull’Urbanistica”, meglio definita: Legge 1150/42 “Fondamentale” del  17 agosto 1942, pubblicata sulla G.U. 244 del 16 ottobre 1942.
Tale norma, in parte modificata nel 1971, è la legge Quadro o, se volete, legge Cornice, cui sostanzialmente rimanda il testo unico dell’edilizia approvato nel 2001, con DPR 380.
La “legge quadro” è una norma di indirizzo generale che per essere pienamente attuata necessita di decreti attuativi. Quindi per dare compiuta attuazione della disciplina è necessario adottare atti e provvedimenti successivi.
In Italia accade che il ministro irpino dei lavori pubblici, Fiorentino Sullo, nel 1962 proponga un disegno di legge che porti a compimento la riforma urbanistica. Una riforma radicale che pone al centro il tema del “regime dei suoli edificatori”, con lo scopo di assicurare alla collettività la quasi totalità dei benefici derivanti dall’incremento di valore dei fondi per effetto delle localizzazioni edificatorie generate dagli strumenti di pianificazione urbanistica.
In altre parole il disegno di legge Sullo prevedeva che il Comune procedesse all’esproprio dei fondi oggetto di programmi di trasformazione urbana al valore agricolo degli stessi, alla successiva urbanizzazione (realizzazione di fogne, pubblica illuminazione, strade, piazze, alberature, scuole parcheggi, edifici pubblici e parchi) e alla conseguente vendita dei lotti edificabili ad un prezzo di mercato ragionevole per l’imprenditore edile, commisurato alle urbanizzazioni realizzate o in corso di realizzazione.
La procedura di acquisizione delle aree di espansione residenziale alla proprietà pubblica proposta del Ministro Sullo si ispirava alle legislazioni delle democrazie europee più progredite (la legge urbanistica olandese del 1902 e la legge urbanistica della Gran Bretagna del 1947).
Il disegno di legge Sullo non venne approvato e le vicende dell’urbanistica italiana procedettero tra alterne vicende, senza che si sia mai riusciti a regolare la materia del surplus finanziario (la rendita fondiaria) che discende dall’applicazione di una scelta urbanistica piuttosto che da un’altra.
In effetti per molti anni la politica locale (con ovvii riflessi sulla politica nazionale) ha avuto al centro delle proprie discussioni le scelte urbanistiche; tali scelte avrebbero dovuto essere scevre da qualsiasi condizionamento di interessi privati e dettate esclusivivamente dall’interesse pubblico. Tuttavia il non aver saputo regolare la rendita fondiaria ha aumentato gli appetiti più svariati.
I risultati di una tale politica urbanistica o del governo del territorio sono ben visibili nelle città italiane.
Molte città italiane sono cresciute senza un ordine urbanistico, al punto che quanto edificato dagli anni ’60 in poi ha spesso peggiorato le condizioni di vita degli abitanti ivi residenti.
Il contenzioso tra PA e privati si è rivelato altissimo. In tre occasioni la corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulle “leggi tampone” adottate dal legislatore per regolare le procedure espropriative.
La conseguenza è stata il disorientamento tra gli operatori, l’incertezza del diritto e la crescita del fenomeno dell’abusivismo edilizio, che, in alcuni casi, è stato accertato dopo estrenuanti processi giudiziari che hanno condotto alla disapplicazione di atti concessori illegittimi, anche dopo che le opere erano già realizzate, utilizzate e passate di proprietà.
Questi accadimenti hanno tolto credibilità alla scienza urbanistica; gli urbanisti hanno perso autorevolezza (laddove l’avessero mai avuta) e molti cittadini, in tale clima, si sono sentiti autorizzati a “fare da soli” (magari mal consigliati da tecnici senza troppi scrupoli) per non veder “mortificate” le proprie aspirazioni.
In effetti la stagione dell’urbanistica disordinata, dell’urbanistica sregolata, si sarebbe dovuta chiudere con il “condono tombale” del 1985. Nelle intenzioni del legislatore si sarebbe dovuta inaugurare una nuova stagione, dove la pianificazione urbanistica diveniva “la regola” che i cittadini si impegnavano a rispettare.
Viene introdotta una legge organica a tutela del paesaggio la 431/85 (cd. legge Galasso) poi la legge 183/89, istitutiva delle Autorità di bacino preposte alla tutela del dissesto idrogeologico e del rischio alluvioni, ed infine viene approvata la legge istitutiva di numerosi parchi nazionali la L.394/91. Tale produzione legislativa mirava a incrementare il valore delle aree di maggior pregio paesaggistico e naturalistico-ambientale, oltre che a prevenire il dissesto idrogeologico.
Questa nuova stagione dell’urbanistica, non avendo risolto la questione della “rendita fondiaria”, produce di fatto il rilancio dell’abusivismo edilizio.
L’opinione pubblica non costituisce più un argine sulle questioni legate al corretto sviluppo del territorio e, con la motivazione di dover fare cassa per rimpinguare le finanze della pubblica amministrazione, vengono promulgate due nuove leggi sul condono edilizio, negli anni 1996 e 2003.
Così costruire manufatti senza rispettare le regole per poi sanare l’abuso diventa, in alcune zone del paese, una prassi operativa.
In tale clima, soprattutto in alcune zone del territorio nazionale dove la legislazione regionale è stata adottata con ritardo o si è rivelata carente, i cittadini si sono sentiti e si sentono ancora autorizzati a realizzare “piccoli” abusi sui terreni o sugli immobili di proprietà.
Da un lato le scelte contenute nei piani urbanistici venivano percepite come un vantaggio pochi gruppi di potere a tutela di interessi “particolari”, dall’altro, l’urbanistica non veniva più avvertita come scienza dello “sviluppo ordinato del territorio”, dal momento che si era consentito di sanare quanto di “spontaneo e disordinato” si era fatto fino ad allora.
La sensazione è che, complessivamente, l’urbanistica abbia perso la dignità di scienza a fondamento dell’ordinato sviluppo del territorio, per limitarsi a regolare con scarso “ritorno pubblico”  gli interessi degli investitori privati.
Non a caso, in diversi Enti territoriali giacciono numerose istanze di condono edilizio, che talvolta non vengono esaminate perché l’istruttoria sarebbe negativa. Non mancano poi esempi dove la pratica di condono si è risolta con l’emanazione di atti illegittimi che nessuno ha impugnato perché nessuno aveva un interesse contrapposto.
In diversi casi la magistrutura penale ha emesso sentenze di demolizione, che poi sono divenute inappellabili soprattutto per gli immobili per i quali l’attivazione della procedura di condono non è stata possibile.
La conseguenza di una simile applicazione della legge “a macchia di leopardo” è davvero paradossale.
Le sentenze dalla magistratura, in alcune aree del territorio nazionale, ordinano la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi in un contesto dove magari tutto è sorto “spontaneamente”. Non pochi, infatti, si chiedono l’utilità di far rispettare una sentenza che dispone un ripristino “puntuale” della legalità violata, in un contesto di “disseminato degrado urbanistico”.
Alcune Procure delle Repubblica, però, fanno sul serio.
In qualche caso i pubblici ministeri si sostituiscono alle amministrazioni comunali inadempienti e avviano le procedure di gara per affidare i lavori di demolizione; in altri casi sottopongono i responsabili degli uffici tecnici comunali a procedimenti penali per reati come l’abuso o l’omissione di atti d’ufficio.
Nasce così la necessità impellente, per numerosi proprietari di immobili abusivi, di ricercare una soluzione che salvaguardi il patrimonio edilizio esistente, edificato in spregio alla legge ma ormai parte integrante del “paesaggio urbano”.
I bisogni e le esigenze della collettività, come è naturale che sia, vengono inesorabilmente intercettati dai politici eletti, che provano a dare una risposta normativa.
Un tentativo chiaro in tal senso può essere individuato nella possibile interpertazione dell’art. 31 comma 5 del d.lgs. 380/2001, che testualemte recita: “L'opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico” (per la repressione nelle zone protette si veda l'art. 2 legge n. 426 del 1998).
Ergo, i consigli comunali possono esercitare la facoltà di individuare i “prevalenti interessi pubblici” nel rispetto dei “rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico” affinchè alla misura del ripristino dello stato dei luoghi si sostituisca la misura della conservazione del manufatto.
I “rilevanti” interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto irdogeologico restano evidentemente nelle valutazioni di competenza delle autorità preposte alla tutela di speciali vincoli (comuni, sopritendenze, enti parco, autorità di bacino), che si esprimeranno, su sollecitazione del consiglio comunale, con valutazioni “discrezionali” sull’importanza dell’interesse specifico tutelato (sia esso paesaggistico che naturalistico-ambientale che idraulico o idrogeologico); tali valutazioni non saranno sindacabili da terzi  (con interventi dalla magistratura amministrativa o anche penale) se non per evidenti casi di eccesso di potere o illogicità manifesta.
Anche i “prevalenti” interessi pubblici rappresentano una valutazione “discrezionale” di competenza esclusiva del consiglio comunale.
E’ evidente che le valutazioni “discrezionali”, in assenza di precisi atti regolativi, dipendano dalla sensibilità degli interpreti delle singole fattispecie che, per casi simili, potrebbero addivenire a conclusioni diverse, con evidenze di disparità di trattamento nello spazio e nel tempo.
Ne consegue che, gioco forza, gli interessi particolari potrebbero esercitare una prevalenza sull’interesse generale a fondamento dell’urbanistica, ossia sull’ordinato ed equilibrato sviluppo del territorio.
In tale contesto storico, normativo, etico e sociale, il Consiglio regionale della Campania promulga la legge n.19 del 22 giugno 2017, avente ad oggetto “misure di semplificazione e linee guida di supporto ai comuni in materia di governo del territorio”, che all’art. 1 comma 1 lett. a) recita: “ la presente legge disciplina: a) l’adozione di linee guida regionali per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi ai sensi dell’art.31, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380 ( testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.”
L’art. 2 c.1 della stessa legge demanda alla Giunta regionale il compito di adottare “linee guida non vincolanti” per supportare le amministrazioni comunali nell’attuazione e la regolamentezione, se ne individuassero i presupposti, di misure alternative alla demolizione. Al comma 2 del medesimo articolo 2 la norma precisa che i Consigli comunali “possono” adottare le linee guida regionali per approvare propri “atti regolamentari e di indirizzo”, in cui saranno disciplinati nel rispetto della normativa nazionale vigente:
 “ a) i parametri e i criteri generali di valutazione del prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione;
   b) i criteri per la valutazione del non contrasto dell'opera con  rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico;
  c) regolamentazione della locazione e alienazione degli immobili  acquisiti al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione, anche con preferenza per gli occupanti per necessità al fine di garantire un alloggio adeguato alla composizione del relativo nucleo familiare;
   d) i criteri di determinazione del canone di locazione e  del prezzo di alienazione ad onerosita' differenziata  fra  le  superfici adeguate alla composizione del nucleo familiare e quelle in eventuale eccedenza;
   e) i criteri di determinazione del possesso del requisito soggettivo di occupante per necessita', anche  per quanto riferito alla data di occupazione dell'alloggio;
  f) i criteri di determinazione del limite di adeguatezza dell'alloggio alla composizione del nucleo familiare;
        g) le modalita' di accertamento degli elementi di cui alle lettere e), f) e del possesso dei requisiti morali di cui all'art. 71, comma 1, lettere a), b), e), f) del decreto legislativo 26 marzo 2010;
        h) le modalita' di comunicazione delle delibere consiliari approvate ai sensi dell'art. 31, comma 5 del decreto del Presidente della Repubblica n.  380/2001  all'autorità giudiziaria  che  abbia ordinato, per gli stessi immobili la demolizione ai  sensi  dell'art. 31, comma 9 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001.”
La legge regionale n. 19/2017 (in particolare l’articolo sopra richiamato) è stata impugnata dal Governo Italiano con ricorso depositato alla Corte Costituzionale in data 22 agosto 2017 _ G.U. 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n.37 del 13-9-2017 (indirizzo internet dove ricercare il ricorso  http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/09/13/17C00203/s1).
Ciò nonostante, nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, la Giunta regionale della Campania ha adottato le linee guida con delibera n°57 del 06/02/2018, pubblicata sul BURC n°12 del 12 febbraio 2018.
La prima udienza del giudizio di legittimità costituzionale si è tenuta in data 5 giugno 2018.
La registrazione della discussione è in libera visione all’indirizzo: https://www.cortecostituzionale.it/jsp/consulta/giurisprudenza/home_udienze.do
Tralasciando in questa sede, per economia di scrittura, ogni giudizio sui contenuti del ricorso del Governo e sulla discussione in udienza del 5 giugno u.s., si intende porre l’attenzione su quanto riportato al punto I.2. delle linee guida “i parametri e i criteri generali di valutazione del prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione” ai sensi dell’art.2 c.2 lett. a) della L.R. 19/2017.
Il provvedimento di ”indirizzo” della Regione Campania precisa infatti che “la demolizione di ufficio dell’opera acquisita al patrimonio comunale costituisce la misura ordinaria da adottarsi in ipotesi di abuso”; tuttavia ove il Consiglio comunale ravvisi la sussistenza di “un prevalente interesse pubblico” alla permanenza dell’opera abusiva potrà decidere di non procedere alla demolizione.
Ma come si individua “un prevalente interesse pubblico” ?
Le linee guida della Regione Campania, nel merito, testualmente “suggeriscono”:
A titolo esemplificativo, l’interesse pubblico a non demolire potrebbe essere ravvisato (tra l’altro) in:
b) interesse all’incremento del patrimonio comunale (la locazione o l’alienazione degli immobili acquisiti possono aumentare le entrate dell’ente);
d) interesse pubblico ad evitare l’aggravarsi delle condizioni di disagio abitativo e precarietà sociale in zone ove il fenomeno della realizzazione di edifici ad uso residenziale privo di titolo abilitante riveste proporzioni di particolare rilevanza …..
Ergo, è facile dedurre che, per il legislatore regionale della Campania, l’interesse a fare cassa o a garantire un’abitazione in particolari contesti di disagio abitativo e precarietà sociale “potrebbe prevalere” sull’interesse al ripristino della legalità violata e/o all’ordinato sviluppo del territorio.
Sanare situazioni di precarietà urbanistica (che ad onor del vero, talvolta, sono generate da raggiri operati da imprenditori, politici, tecnici, funzionari pubblici e faccendieri disonesti) diventa la regola che mortifica chi si sforza e si è sempre sforzato di rispettare o far rispettare la legge.
Si tratterebbe, senza dubbio, di avallare un “possibile condono straordinario e permanente” che, in capo ai singoli Consigli comunali, potrebbe innestare fenomeni corruttivi, clientelari e di voto di scambio, difficilmente verificabili in contesti di degrado culturale e sociale.
Ne discende la seguente considerazione: oggi, in particolari contesti, la pianificazione urbanistica non ha alcun senso di esistere; le maggioranza dei cittadini non ha interesse a disciplinare lo “sviluppo” della città nella quale vive, perché non avverte più come valore l’interesse collettivo ad un ordinato assetto del territorio.
Al contrario gli stessi cittadini accettano passivamente che il principio di legalità e dunque l’ordinato sviluppo del territorio, diventi cedevole rispetto ad altri principi, quali il pareggio di bilancio per le casse comunali o il diritto all’abitazione di presunti disagiati.
Pertanto la volontà di dare una risposta ad un’istanza di una parte della popolazione, nell’indifferenza della restante parte, rischia di non essere la cura della malattia ma la causa della morte del malato.
Ai corsi di urbanistica insegnano che un cattivo medico può uccidere un uomo, un cattivo urbanista può uccidere una comunità di uomini; nel nostro caso l’assassino non è l’urbanista!
La “morte” della città è causata dall’assenza del senso stesso di comunità e con essa dall’assenza dell’Autorità (comunale, regionale, statale che sia) capace di decidere differentemente dal sentire comune della maggioranza dei cittadini nell’interesse della collettività.
Si può affermare, anche estremizzando un pò, che alcuni territori muoiono per troppa democrazia!
La speranza (ultima dea!) è nel Giudizio della Corte Costituzionale ed intanto ….  in attesa dalla promulgazione di un nuovo provvedimento che garantisca la “pace edilizia per le macroregioni del sud Italia”, assistiamo inermi alla pace eterna dell’urbanistica dell’Italia intera.