Cass. Sez. III n. 33651 del 13 ottobre 2025 (UP 24 set 2025)
Pres. Ramacci Rel. Scarcella Ric. Brancaccio
Acque.Prova del reato di inquinamento idrico
La prova del reato di cui all'art. 137, comma 5, TUA (già art. 21, terzo comma, legge 10 maggio 1976 n.319), non esige che il superamento dei limiti tabellari di accettabilità degli scarichi sia raggiunta esclusivamente attraverso i risultati delle analisi, potendo tale superamento essere dimostrato con ogni mezzo di prova ed anche con l'applicazione di nozioni di comune esperienza. In tale ultimo caso, però, si dovranno riscontrare determinati presupposti, fra i quali quello della natura dello scarico, individuata in base alle sostanze che lo compongono e quello delle modalità di scarico, in quanto non sottoposto a preventiva depurazione ed eseguito in modo incontrollato nell'ambiente. Ne consegue che le prove del reato diverse dalle analisi devono comunque essere tali da garantire un livello di certezza sostanzialmente pari a quello delle analisi stesse, tale cioè da renderne superflua la mancanza, a qualunque causa sia dovuta.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 20 dicembre 2024, il Tribunale di Civitavecchia dichiarava Maurizio Brancaccio colpevole dei reati di cui all’art. 137, commi 1 e 2, D. lgs. n. 152 del 2006 (per avere, quale amministratore unico della SRL “CMD Compagnia Mediterranea Demolizioni”, effettuato uno scarico di acque di dilavamento del piazzale contenenti sostanze pericolose comprese nelle famiglie e gruppi di sostanze indicate nella tab. 5 dell’all. V alla parte terza del TUA, superando i limiti tabellari di cui alla Tab. 3 del medesimo all. V, scarico eseguito in un corso d’acqua superficiale che sfocia direttamente nel Mar Tirreno in assenza della prescritta autorizzazione) nonché all’art. 674, cod. pen. (per aver provocato lo scarico in luogo di pubblico transito delle predette acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose, con esalazioni dall’odore molesto), in relazione a fatti contestati come accertati in data 30 agosto 2017.
2. Avverso la predetta sentenza Maurizio Brancaccio ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo cinque motivi, di seguito enunciati ex art. 173, disp. att., cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Deduce, con il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente attesa l’intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesa, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 137, d. lgs. n. 152 del 2006.
In sintesi, sostiene la difesa che i fatti non configurano l'ipotesi di reato oggetto di contestazione. Nell'ipotesi di immissione di acque reflue in vasche che per qualsiasi motivo si spandano o si riversino o si disperdano nel suolo, si applica infatti l'art. 255 del Testo unico ambientale che punisce l'abbandono di rifiuti liquidi. Trattasi, dunque, di ipotesi di reato per la quale l'imputato avrebbe potuto fruire dello speciale meccanismo dell'oblazione per l'estinzione del reato. Tanto per l’ipotesi per cui intervenuta condanna quanto per l'ipotesi prospettata dalla difesa, poi, elemento costitutivo del reato è la qualificazione della sostanza liquida, accertamento che non può che avvenire mediante l'effettuazione di analisi di laboratorio, e ciò varrebbe in particolare per l'ipotesi di cui al comma 2 dell'articolo 137 citato. Diversamente, non vi è stato alcun valido esame dei liquidi in questione, poiché l'esito del campionamento effettuato nell'immediatezza dei fatti è stato dichiarato inutilizzabile. Il giudice sarebbe pervenuto a giudizio di condanna in relazione all'articolo 137 con una motivazione totalmente illogica, di cui vengono riportati e trascritti integralmente i passaggi motivazionali. Tre sarebbero i profili di censura mossi. Anzitutto, il primo, costituito dal fatto che il giudice avrebbe desunto la presenza di rifiuti di lavorazione nel piazzale della società esclusivamente sulla base del fatto che la società poteva svolgere in astratto attività lavorativa di trattamento di rifiuti metallici. Il secondo aspetto critico sarebbe rappresentato dalla rilevanza attribuita alla presenza olfattiva di idrocarburi, così come dichiarata dall'ufficiale di polizia giudiziaria operante. Il tribunale avrebbe erroneamente valorizzato un fattore di chiara origine valutativa soggettiva proveniente da un soggetto non esperto, e soprattutto in assenza di altri riscontri o rilievi di tipo oggettivo, analogamente non potendo essere valorizzata l'indicata presenza di una “parte surnatante separata associabile a prodotto petrolifero”: in definitiva il giudice avrebbe pronunciato sentenza di condanna per il reato in esame senza alcun tipo di supporto di carattere oggettivo e scientifico. Fortemente critico è, infine, da considerarsi l'apprezzamento del Tribunale rispetto alla quantità di tali ipotizzati elementi: il giudice si sarebbe spinto ad affermare che la quantità di tali sostanze dovesse ritenersi elevata, atteso che l'agente operante avrebbe percepito l'esalazione di odore molesto oggetto del secondo capo di imputazione. Quanto sopra sarebbe dunque assolutamente privo di debiti riscontri probatori.
2.2. Deduce, con il terzo ed il quarto motivo, parimenti da trattarsi congiuntamente attesa l’intima connessione dei profili di doglianza ad essi sottesa, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 674, cod. pen.
In sintesi, si duole la difesa per avere il tribunale erroneamente valutato la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie in esame. Non risulta in alcun modo che vi sia stata l'offesa verso le persone, elemento da considerarsi essenziale ai fini della configurabilità del reato. Il relativo capo di imputazione risulterebbe peraltro totalmente generico e privo degli elementi costitutivi. In alcun modo sarebbe stata evidenziata o rilevata la molestia, da intendersi come elemento costitutivo necessario della fattispecie in esame. La valutazione della molestia è fatta tenendo conto del contesto e della sensibilità della persona molestata, ma deve necessariamente esserci e deve essere orientata verso le persone in maniera concreta e non astratta, come emerge dalla giurisprudenza di legittimità che viene ad essere richiamata in ricorso. La sentenza, comunque, avrebbe omesso totalmente di motivare in ordine al reato in esame, facendo discendere la sussistenza del medesimo come mera conseguenza della ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 137 del Testo unico ambientale. Richiamato integralmente e trascritto il passaggio motivazionale della sentenza impugnata, si osserva come il giudice si sarebbe concentrato esclusivamente sulla possibilità di superare l'inutilizzabilità degli esiti dell'analisi di laboratorio attraverso degli elementi esogeni, privi di alcuna validità soggettiva, quali l'odore percepito dagli operanti.
Nessuna parte della motivazione attiene invece alla configurabilità dell'ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 674 cod. pen. che, rappresentando una condotta autonoma rispetto alle norme a tutela dell'ambiente di cui al D.lgs. n. 152 del 2006, richiede l'accertamento della verifica dell'elemento della molestia alle persone.
2.3. Deduce, con il quinto ed ultimo motivo, il vizio di violazione di legge per la mancata declaratoria della prescrizione.
In sintesi, contesta la difesa l'affermazione del Tribunale che ha considerato i due reati come permanenti e, dunque, per aver considerato ancora non maturato il termine di prescrizione. Diversamente, sostiene la difesa, anzitutto il reato di cui all'art. 674 cod. pen. non potrebbe essere qualificato automaticamente come permanente, necessitando ciò di una verifica in concreto. La sentenza non avrebbe motivato in particolare il protrarsi delle emissioni dannose oltre il 30 agosto 2017, rendendo il reato permanente solo in astratto. Se tale reato fosse stato correttamente qualificato come istantaneo, la prescrizione sarebbe già intervenuta prima della sentenza di primo grado. Si registrerebbe anche una carenza di motivazione quanto alla qualificazione del reato di cui all'art. 137 del Testo unico ambientale come permanente. Segnatamente, la prova della permanenza del reato apparirebbe carente nella motivazione della sentenza, affermandosi solo che l'autorizzazione allo scarico riguardava soltanto le acque piovane e non altre tipologie di versamenti. Non sarebbe stato, in particolare, chiarito se lo scarico sia effettivamente proseguito in maniera continuativa, ovvero se si sia trattato di un episodio isolato oppure di una serie di episodi distinti senza dimostrare il protrarsi della condotta illecita. Nel caso di specie, lo sversamento sarebbe stato occasionale e l'eventuale sversamento ascrivibile alla società sarebbe stato determinato dal malfunzionamento di una valvola che è stata sostituita immediatamente. La condotta, al di là del merito che è privo di riscontri probatori, si sarebbe comunque cristallizzata il 30 agosto del 2017.
3. È pervenuta requisitoria scritta in data 5 settembre 2025 del Procuratore Generale presso questa Corte, cui si è riportato in sede di udienza di discussione orale, con cui ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza.
In sintesi, secondo il PG, il ricorso merita accoglimento. Innanzitutto, occorre partire dalla motivazione della sentenza impugnata. La medesima sottolinea come vi fosse stato un malfunzionamento della valvola di bypass relativa alla vasca di raccolta, valvola che già solo il giorno precedente doveva presumibilmente funzionare. Questa la ricostruzione, incontestata, dei fatti ne discende l’erroneità della contestazione sub a). Infatti, è giurisprudenza assolutamente prevalente, alla quale si ritiene di aderire, quella secondo cui “in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, non configura il reato di scarico di acque reflue industriali di cui all’art. 137 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, uno sversamento, non ragionevolmente prevedibile, provocato da negligenza del soggetto agente, non potendo pretendersi, in tal caso, la presentazione, da parte di quest’ultimo, di una regolare richiesta di autorizzazione”. A ciò si aggiunga che l’altrettanto incontestata soluzione processuale secondo cui gli esiti dei campionamenti effettuati sarebbero inutilizzabili ha determinato un, evidente, cortocircuito motivazionale posto che appare, come ben rappresentato in ricorso, del tutto carente un impianto argomentativo che fondi la responsabilità penale sulla presunzione della presenza, il 30 agosto 2017, dei residui di alcuni rifiuti solo perché oggetto della normale lavorazione ad opera della CMD, olfattivamente da ritenersi quali idrocarburi, peraltro in quantità elevata in ragione delle esalazioni moleste (pagg. 6 e 7 della sentenza). Né la pronuncia ha in alcun modo dato conto della idoneità dello sversamento, sotto il profilo della violazione dell’art. 674 c.p. e sempre in assenza di qualsivoglia campionamento utilizzabile, ad offendere, imbrattare o molestare non le cose bensì le persone. Né, infine, è provata la natura permanente dei reati contestati. Infatti, la giurisprudenza citata in sentenza (Cass. Sez. III n. 26423 del 2016) fa riferimento ad una consumazione “fino al rilascio dell’autorizzazione o alla cessazione dello scarico”. Ma sopra si è detto come ciò reato non si attagli al caso di specie, anche perché condotta che, come risulta dalla stessa motivazione, è risultata del tutto contingente. Per le medesime ragioni appare immotivata la natura permanente della violazione di cui all’art. 674 c.p.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, trattato oralmente a seguito di tempestiva richiesta difensiva di discussione orale, è parzialmente fondato nei limiti di cui si dirà infra.
2. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente attesa l’intima connessione dei profili di doglianza mossi, sono inammissibili.
2.1. Anzitutto, sono inammissibili per genericità in quanto aspecifici, non confrontandosi con la motivazione della sentenza impugnata, che ha chiarito in maniera inequivocabile, e in assenza dei denunciati cedimenti logici, le ragioni per le quali ambedue i reati e, segnatamente per quanto qui rileva, quello di cui all’art.
137, D.lgs. n. 152 del 2006, erano da ritenersi configurabili.
La stessa ricostruzione in fatto, anzitutto, elimina qualsiasi dubbio circa la riferibilità del refluo industriale inquinante in capo alla società amministrata dal ricorrente. Ed infatti, militano, anzitutto, in tal senso, le dichiarazioni rese in dibattimento da Agostino Pace, sentito in veste di operante di P.G. in servizio presso la Capitaneria di Porto di Civitavecchia in ordine agli accertamenti svolti in sede di indagini. Il teste aveva infatti riferito che, in data 30.08.2017, era stato "rilevato un inquinamento nello spartiacque portuale e, precisamente, in prossimità della banchina ove sfocia il Fosso del Buonaugurio". Risalendo il suddetto corso d'acqua superficiale gli operanti di P.G. avevano così individuato l'origine dell'inquinamento in questione nello "scarico proveniente dalla CMD, Compagnia Mediterranea Demolizioni". Grazie a successivi accertamenti era altresì emerso che il predetto scarico non era utilizzato, in quanto semplice collettore dedicato allo scarico di seconda pioggia, laddove il rilevato sversamento in mare era avvenuto "in assenza di precipitazioni atmosferiche". Quindi, stando alla ricostruzione fornita dal teste, l'emissione reflua di cui sopra era stata causata perché "il piazzale", ove venivano realizzate le operazioni di lavoro, "era stato dilavato", facendo confluire le acque nello scarico, unitamente agli “idrocarburi" presenti in loco che, in tal modo, erano stati "scaricati" direttamente nel fosso.
Secondo quanto riferito dal teste, inoltre, proprio perché il centro di trattamento rifiuti aveva il preciso obbligo di dotarsi sia di un impianto di raccolta e trattamento delle acque di prima pioggia, dedicato a raccogliere e trattare i primi 5 mm. di pioggia, era evidente che lo scarico ausiliario per le cc.dd. "acque di seconda pioggia", che potevano a determinate condizioni essere sversate direttamente nel fosso, risultava evidente l'uso improprio dell'impianto di scarico, poiché appunto in quella giornata non si erano verificate precipitazioni atmosferiche. Pertanto, constata la presenza di agenti inquinanti prima nel bacino portuale e poi, a ritroso, nel fosso, gli operanti di P.G. avevano anche effettuato un campionamento di tali sostanze, verificando la presenza di "idrocarburi in un quantitativo estremamente significativo, oltre soglia". Il teste aveva indicato il titolare dello scarico nella persona di Maurizio Brancaccio, l'odierno ricorrente. Il teste, inoltre, aveva illustrato le foto raccolte durante il sopralluogo in apposito fascicolo fotografico, specificando che le stesse rappresentavano l'impianto di scarico ed i punti ove era stata rilevata la maggiore presenza degli agenti inquinanti. Durante le operazioni era stata altresì acquisita la planimetria dello schema d'impianto, da cui poteva evincersi che "il collettamento bypass" consentiva alle acque di arrivare direttamente nel corso d'acqua superficiale del fosso e, poi, nello specchio d'acqua portuale, anziché essere deviate nelle apposite casse di raccolta per essere successivamente trattate. Infine: vi era una fotografia del piazzale di lavoro ove era stata anche notata la presenza di segatura, verosimilmente utilizzata "per eliminare gli ultimi residui di quello che era percolato nel piazzale". All'esito del sopralluogo, il Brancaccio si era attivato per sbloccare la valvola che consentiva il bypass delle casse di raccolta, ripristinando così il normale funzionamento dell'impianto medesimo. Le produzioni documentali del Pubblico Ministero, prosegue la sentenza impugnata, avevano confermato pedissequamente quanto riferito dall'operante di P.G. in dibattimento. Rileva, segnatamente, quanto riportato nella relazione di sopralluogo sotto la foto nr. 5, riproducente la planimetria del circuito di scarico illustrata oralmente dal teste Pace. Nel descrivere le operazioni di sopralluogo gli operanti di P.G. testualmente avevano riferito che, nel procedere al "campionamento delle acque reflue scaricate si avvertiva, olfattivamente, un forte odore di sostanze idrocarburiche, mentre visivamente si osservava la presenza di prodotto surnatante in galleggiamento". Le medesime sostanze oleose risultavano ritratte anche nelle successive fotografie, scattate "in prossimità dello scarico", ove si notava anche la presenza di "panne assorbenti" posizionate per contenere l'inquinamento in atto. Altrettanto significativo è stato poi il constatare che il solo scarico autorizzato alla CMD era quello relativo alle acque di prima pioggia: pertanto, come si legge nella annotazione di P.G.
acquisita, "considerata l'assenza di precipitazioni", lo scarico attivo oggetto di rilevamento risultava “irregolare e privo di titoli abilitativi”.
Le fonti di prova assunte nel corso del procedimento hanno, dunque, per il giudice di merito, indicato inequivocabilmente nel ricorrente il responsabile delle condotte descritte in entrambi i capi d'imputazione, atteso il ruolo di legale rappresentante della società "CMD", titolare dell’autorizzazione allo scarico di acque reflue piovane, tramite il sistema di raccolta e depurazione delle stesse, il cui funzionamento è stato ampiamente descritto tanto dall'operante di P.G. Pace che dal c.t.p. della difesa, in termini largamente sovrapponibili.
2.2. Quanto sopra, anzitutto, destituisce di fondamento la prima obiezione difensiva, secondo cui si sarebbe dovuto ritenere integrato il reato di cui all’art. 255 (rectius, 256) anziché quello di cui all’art. 137, T.U.A.
Si è infatti in presenza di un vero e proprio scarico non autorizzato e non di un abbandono o deposito incontrollato di rifiuti allo stato liquido. La descrizione dianzi operata dal teste non lascia adito a dubbi sul punto: l'emissione reflua era stata causata perché "il piazzale", ove venivano realizzate le operazioni di lavoro, "era stato dilavato", facendo confluire le acque nello scarico, unitamente agli “idrocarburi" presenti in loco che, in tal modo, erano stati "scaricati" direttamente nel fosso.
È dunque configurabile uno “scarico” abusivo tecnicamente inquadrabile nella nozione di cui all’art. 74, lett. ff), D. lgs. n. 152 del 2006, attuato mediante un collettamento bypass che consentiva alle acque di arrivare direttamente nel corso d'acqua superficiale del fosso e, poi, nello specchio d'acqua portuale, anziché essere deviate nelle apposite casse di raccolta per essere successivamente trattate.
Le modalità in concreto seguite per lo sversamento segnano l’imprescindibile criterio per stabilire se vi sia stato scarico di reflui piuttosto che un abbandono o ancor più in generale uno smaltimento non autorizzato di rifiuti.
In tema di inquinamento idrico, ai fini della integrazione del reato di cui agli artt. 124, comma primo, e 137, comma primo, del D.lgs. n. 152 del 2006, infatti, costituisce scarico non autorizzato di acque reflue industriali qualsiasi immissione delle stesse che deve tuttavia avvenire attraverso un sistema stabile di collettamento che colleghi senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali. Occorre precisare – con ciò dovendosi disattendere la prospettazione difensiva che ha sostenuto l’occasionalità dello “scarico” - che la stabilità del collettamento non va in ogni caso confusa con la presenza, continuativa nel tempo, dello stesso sistema di riversamento, in contrasto con la occasionalità del medesimo, bensì va identificata nella presenza di una struttura che assicuri il progressivo riversamento di reflui da un punto all’altro, cosicché, in altri termini, la disciplina delle acque sarà applicabile in tutti quei casi, come quello in esame, nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue, in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile nei termini suddetti. In tutti gli altri casi, nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti (v., in termini: Sez. 3, n. 5738 del 2 febbraio 2023, Lombardo, non mass.). Resta, pertanto, destituita di fondamento la tesi difensiva dell’applicabilità della disciplina sui rifiuti.
2.3. Quanto, poi, alla censura della mancata effettuazione di analisi di laboratorio stante l’inutilizzabilità dei campionamenti, la doglianza difensiva secondo cui il giudice sarebbe pervenuto a giudizio di condanna in relazione all'articolo 137 TUA con una motivazione totalmente illogica, si tratta di doglianza all’evidenza non consentita dalla legge, che tradiscono il tentativo della difesa di trascinare questa Corte sul terreno del fatto.
Ed invero i tre profili di doglianza svolti (il fatto che il giudice avrebbe desunto la presenza di rifiuti di lavorazione nel piazzale della società esclusivamente sulla base del fatto che la società poteva svolgere in astratto attività lavorativa di trattamento di rifiuti metallici; la rilevanza attribuita alla presenza olfattiva di idrocarburi, così come dichiarata dall'ufficiale di polizia giudiziaria operante; il fatto che il giudice si sarebbe spinto ad affermare che la quantità di tali sostanze dovesse ritenersi elevata, atteso che l'agente operante avrebbe percepito l'esalazione di odore molesto oggetto del secondo capo di imputazione), più che attingere la sentenza per un supposto vizio motivazionale, in realtà manifestano il dissenso sulla valutazione logico – giuridica delle emergenze processuali operata dal Tribunale, operazione vietata in sede di legittimità.
Il Tribunale, in particolare, ha sul punto, con motivazione immune dai vizi logici denunciati, osservato come l’inutilizzabilità degli esiti del campionamento eseguito nell'immediatezza dei fatti dalla Capitaneria di Porto, successivamente analizzato nei laboratori dell'ARPA Lazio, non altera la conclusione cui è pervenuto il giudice per una serie di ragioni. Attraverso il ricorso ad un criterio logico – induttivo, infatti, il Tribunale ha sottolineato come risultava dimostrato che la società CMD operasse nel "settore del recupero dei rifiuti metallici", come attestano i numerosi certificati prodotti dal Pubblico Ministero nel corso dell'udienza del 24.11.2023. In particolare, dalla lettura di alcuni di essi, emergeva che la predetta società fosse autorizzata ad attività quali: "erogazione dei servizi di raccolta, trasporlo. stoccaggio, trattamento, recupero di materiali metallici ferrosi e non ferrosi e di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi provenienti da demolizioni di strutture metalliche, autoveicoli, rottamazione macchinari ed apparecchiature obsolete" (cfr. Certificato nr. 3025811-1/S). Ad ulteriore dimostrazione di tale aspetto intervengono i documenti raccolti nel successivo sopralluogo del 22.11.2017, quando la P.G. ha dato atto del corretto stoccaggio dei materiali ferrosi oggetto delle lavorazioni da parte della società "CMD" (cfr. verbale del 22.11.2017 e relativi allegati). In tale sede erano stati, altresì, acquisiti numerosi formulari di identificazione rifiuti, taluni datati giugno 2017, ove vengono riportate le specifiche delle componenti ferrose e metalliche dei materiali trattati all'interno dell'impianto, specificando che taluni macchinari ed autoveicoli potessero contenere anche sostanze liquide.
Ciò ha consentito, del tutto logicamente, al Tribunale di desumere, alla luce di plurimi, precisi e concordanti indici di natura indiziaria, che sul piazzale di lavorazione della CMD, la mattina del 30.08.2017, fossero presenti residui dei suddetti rifiuti, tra cui i liquidi indicati dagli operanti di P.G. come idrocarburi. Tale aspetto ha trovato conforto anche in un distinto passaggio del verbale di operazioni compiute del 30.08.2017 pienamente utilizzabile quale atto irripetibile compiuto dalla Polizia Giudiziaria ai sensi dell'art. 431 comma 1 lett. b) c.p.p., ove infatti si legge che era stata rilevata "olfattivamente la presenza di idrocarburi" e che nei campioni prelevati era "osservabile altresì la presenza di una parte surnatante separata associabile a prodotto petrolifero".
Pertanto, in disparte gli esiti delle analisi sui predetti campioni, l'istruttoria ha fornito numerosi elementi per ritenere che lo sversamento nel “fosso del Buonaugurio”, proveniente dall'impianto della società, contenesse sostanze pericolose riconducibili a quelle indicate nella tabella 5 dell'Allegato 5 alla parte terza del D.Lgs. 152/06 ove, come precisato dal teste Pace in dibattimento, vengono annoverati sia le componenti metalliche che gli idrocarburi. La quantità di tali sostanze è stata ritenuta assai elevata, come ipotizzato nei capi d'imputazione. atteso quanto rilevato olfattivamente dalla P.G. nell'immediatezza, producendo le esalazioni dall'odore molesto oggetto del secondo capo d'imputazione.
2.4. Conclusivamente, dunque, al cospetto dell’apparato argomentativo svolto dalla sentenza di merito, le doglianze del ricorrente si appalesano prive di pregio, in quanto si risolvono nel “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dal giudice di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per vizi motivazionali con cui, in realtà, si propongono doglianze non suscettibili di sindacato da parte di questa Corte.
Deve, sul punto, ribadirsi che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 3416 del 26/10/2022 – dep. 26/01/2023, Lembo, n.m.; Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 - dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745; Sez. 5, n. 11910 del 22/01/2010, Casucci, Rv. 246552).
2.5. A ciò, peraltro, in diritto va aggiunto che la "prova penale olfattiva" è del tutto legittima, consistendo nella possibilità di utilizzare la percezione olfattiva come elemento di prova, specialmente in casi di molestie olfattive (art. 674, cod. pen.), o, in genere, per reati ambientali (come nelle ipotesi di inquinamento idrico, atmosferico o da rifiuti). La giurisprudenza ammette infatti che la testimonianza di persone che hanno percepito odori sgradevoli, se accompagnata da altri elementi di prova, anche di natura indiziaria, possa essere utilizzata per dimostrare l'esistenza del reato. A titolo esemplificativo, questa Corte, (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, Maroni, Rv. 265188 – 01) condannando il titolare di un impianto di compostaggio, ha chiarito che, essendo nel campo delle "molestie olfattive", non essendoci una normativa statale con disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori non rileva che l'impianto fosse autorizzato, né che fossero rispettati i limiti di emissione.
La natura del reato in parola, di pericolo concreto, e le modalità di valutazione della tollerabilità delle emissioni odorigene fa sì che può essere sufficiente l'apprezzamento diretto delle conseguenze moleste delle emissioni anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il Giudice può trarre elementi per la sussistenza del reato, non essendo indispensabile che gli odori molesti siano stati sentiti da tutti, ed essendo irrilevante che alcuni non li abbiano sentiti affatto.
2.6. A ciò, infine, va aggiunto, quanto alla contravvenzione di intervenuto superamento dei limiti tabellari di cui alla tab. 5 all. V, che è pacifico in giurisprudenza che la prova del reato di cui all'art. 137, comma 5, TUA (già art. 21, terzo comma, legge 10 maggio 1976 n.319), non esige che il superamento dei limiti tabellari di accettabilità degli scarichi sia raggiunta esclusivamente attraverso i risultati delle analisi, potendo tale superamento essere dimostrato con ogni mezzo di prova ed anche con l'applicazione di nozioni di comune esperienza.
In tale ultimo caso, però, si dovranno riscontrare determinati presupposti, fra i quali quello della natura dello scarico, individuata in base alle sostanze che lo compongono e quello delle modalità di scarico, in quanto non sottoposto a preventiva depurazione ed eseguito in modo incontrollato nell'ambiente. Ne consegue che le prove del reato diverse dalle analisi devono comunque essere tali da garantire un livello di certezza sostanzialmente pari a quello delle analisi stesse, tale cioè da renderne superflua la mancanza, a qualunque causa sia dovuta (Sez.
3, n. 4343 del 16/12/1999, dep. 2000, Colautti, Rv. 216445 - 01).
E ciò è quanto si è verificato nel caso in esame.
3. Il terzo ed il quarto motivo, anch’essi da trattarsi congiuntamente attesa l’intima connessione dei profili di doglianza mossi, sono parimenti inammissibili per le stesse ragioni già evidenziate in precedenza nell’esaminare i primi due motivi.
3.1. Non coglie nel segno l’obiezione difensiva secondo cui non risulterebbe in alcun modo che vi sia stata l'offesa verso le persone, elemento da considerarsi essenziale ai fini della configurabilità del reato.
Questa Corte ha già chiarito che è configurabile il reato di getto pericoloso di cose in caso di produzione di "molestie olfattive" mediante un impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, con conseguente individuazione, quale parametro di legalità dell'emissione, del criterio della "stretta tollerabilità", e non invece, di quello della "normale tollerabilità" previsto dall'art. 844 cod. civ., attesa l'inidoneità di quest'ultimo ad assicurare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, Maroni, cit.).
Nella specie, la “molestia” era stata oggetto di percezione da parte degli operanti che avevano assistito allo sversamento dei liquidi contaminati da idrocarburi, pervenendo alla conclusione della configurabilità del reato sulla base di tale percezione, ciò che, come già evidenziato nell’illustrare le ragioni per le quali erano da disattendersi i primi due motivi, è sufficiente e del tutto legittimo per ritenere provata la materialità del fatto.
3.2. Non rileva, peraltro, l'art. 1, comma 1, del D.lgs. 15 novembre 2017, n. 183 del 2017 che ha aggiunto al TUA (D. Lgs. 152/06) un art. 272-bis per prevenire e limitare le “emissioni odorigene”.
Con questa norma non si stabilisce direttamente una disciplina “statale” con limiti certi, uniformi e predeterminati per le emissioni odorigene ma si attribuisce alla normativa regionale o alle singole autorizzazioni la facoltà di prevedere misure per la prevenzione e la limitazione delle emissioni odorigene degli stabilimenti con uno o più impianti o una o più attività che producono emissioni nell’atmosfera. Tale disciplina riguarda solo attività con emissioni disciplinate ai sensi dell’art. 272-bis (con autorizzazione o con normativa regionale) e, in tal caso, il D. Lgs 152/06 prevede già autonome sanzioni in caso di inottemperanza (art. 279). Ciò non esclude, ovviamente, che sia configurabile, ricorrendone i presupposti, come nel caso in esame, anche il reato di cui all’art.
674, cod. pen., come costantemente affermato dalla giurisprudenza a proposito del possibile concorso di reati tra norme speciali ambientali (oggi D. Lgs 152/06) e art. 674 cod. pen. (per tutti Sez. 3, n. 6419 del 7 novembre 2007, dep. 2008, Costanza).
Per quanto riguarda, in particolare, le emissioni olfattive, va richiamata la giurisprudenza più recente (tra le tante: Sez. 3, n. 54209 del 23/10/2018, Tirapelle, Rv. 275298 – 01), la quale perviene alla conclusione che occorre distinguere tra l'attività produttiva esercitata secondo l'autorizzazione e senza superamento dei limiti consentiti, per la quale si deve fare riferimento alla "normale tollerabilità" prevista dall'art. 844 cod. civ. (inapplicabile, nel caso di specie, essendovi la contestazione di superamento dei limiti tabellari ex art. 137, comma 5, D.lgs. n. 152 del 2006), sempre che l'azienda abbia adottato gli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per abbattere l'impatto delle emissioni sulla realtà esterna; e quella svolta senza l'autorizzazione dell'autorità preposta, per la quale il contrasto con gli interessi tutelati va valutato secondo criteri di "stretta tollerabilità attesa la inidoneità del primo criterio ad assicurare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana.
3.3. L’attitudine ad offendere o molestare le persone non deve, peraltro, essere necessariamente accertata mediante perizia, potendo il giudice, secondo le regole generali, fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali, in particolare, le dichiarazioni testimoniali quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito dai dichiaranti medesimi (si v., tra le tante: Sez. 3, n. 31114 del 05/06/2024, Pasquini, Rv. 286683 – 01).
E ciò, come ricordato, è quanto avvenuto nel caso di specie, in cui il carattere molesto dell’emissione odorigena è stato oggettivamente percepito dall’agente operante.
4. Il quinto motivo è, invece, parzialmente fondato.
4.1. Il Tribunale ha infatti ritenuto che ambedue i reati devono essere considerati, in relazione al caso di specie, permanenti.
Da un lato, ha richiamato, quanto all’art. 137 T.U.A., la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di inquinamento idrico, il reato di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione ha natura permanente, in quanto si consuma fino al rilascio dell'autorizzazione o alla cessazione dello scarico (Sez. 3, n. 26423 del 11/02/2016, Nappi, Rv. 267099 - 01). Fattispecie che – motiva puntualmente la sentenza impugnata – non ricorre nel caso di specie, atteso che l'autorizzazione rilasciata alla società riguardava esclusivamente le acque di prima pioggia e non altre tipologie di sversamento.
Ad analogo approdo è pervenuta, poi, quanto al residuo reato di cui all’art.
674 cod. pen., in relazione al quale ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il reato di getto pericoloso di cose ha di regola carattere istantaneo e, solo eventualmente, natura permanente, essendo ravvisabile la permanenza solo quando le illegittime emissioni siano connesse all'esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo (Sez. 3, n. 1301 del 09/11/2016, dep. 2017, La Manna e altro, Rv. 269413 - 01).
4.2. Orbene, tale ultima giurisprudenza merita di essere confermata, con l’opportuna precisazione che la contravvenzione prevista e punita dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto l'illegittima emissione di gas, di vapori, di fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo, assume il carattere della permanenza, non potendosi ravvisare la consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione di durata temporale non sempre individuabile.
Ne segue che, se la sentenza di primo grado abbia accertato la permanente attualità dell'attività produttiva in termini non diversi da quelli del momento della contestazione, quanto a strumenti della produzione, la permanenza nel reato deve ritenersi cessata solo con la pronuncia di detta sentenza, ed il termine prescrizionale, di cui all'art. 158 cod. pen., comincia a decorrere dalla data di siffatta decisione (Sez. 1, n. 9293 del 10/08/1995, Zanforlini, Rv. 202403 - 01).
4.3. Quanto sopra, tuttavia, non risulta essersi verificato nel caso in esame, posto che la sentenza di primo grado non ha accertato la permanente attualità dell'attività produttiva in termini non diversi da quelli del momento della contestazione (30 agosto 2017), quanto a strumenti della produzione, non risultando in particolare dagli atti valutabili da questa Corte che, in occasione del successivo sopralluogo effettuato in data 22 novembre 2017, fosse stata accertata la permanente attualità dell'attività produttiva in termini non diversi da quelli del momento della contestazione, quanto a strumenti della produzione, dovendosi ritenere, diversamente, che le emissioni odorigene riferite fossero state ascrivibili all’occasionale episodio di scarico abusivo extra tabellare accertato in data 30 agosto 2017.
5. L’impugnata sentenza dev’essere conclusivamente, annullata senza rinvio, limitatamente alla contravvenzione di cui all’art. 674, cod. pen., il cui termine di prescrizione quinquennale, in assenza di sospensioni del termine in fase dibattimentale, è maturato in data 30 agosto 2022, antecedente alla sentenza di primo grado, non rilevando, peraltro, la circostanza che il reato sia stato commesso tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019 (Sez. U., n. 20989 del 12 dicembre 2024, dep. 2025, Polichetti, non mass.), posto che il corso delle prescrizione rimaneva sospeso ex art. 159, cod. pen., come novellato dalla l. n. 103 del 2017, per quanto qui rileva “1) dal termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; (omissis)”. Essendo, dunque, la prescrizione maturata prima del dies a quo di decorrenza del termine di cui all’art. 544, cod. proc. pen., non può tenersi conto di tale periodo di sospensione ex lege.
6. Tenuto conto dei criteri di determinazione della pena seguiti dal primo giudice, dunque, deve essere eliminato l’aumento a titolo di continuazione stabilito nella sentenza impugnata (pari ad euro 600 di ammenda), determinandosi quindi in misura finale ex art. 620, lett. l), cod. proc. pen. (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831 – 01) la pena pecuniaria in euro 1.400,00 di ammenda.
7. Non incide, infine, l’intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 674, cod. proc. pen. sulla persistente punibilità della contravvenzione di cui all’art. 137, T.U.A., avendo infatti le Sezioni Unite di questa Corte affermato che, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966 - 01).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen., perché il reato è estinto per prescrizione.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso e ridetermina la pena per il residuo reato in euro millequattrocento di ammenda.
Così deciso, il 24/09/2025