Cons. di Stato Sez. VI sent. 7618 del 4 dicembre 2009
Acque. Acque meteoriche di dilavamento

Nel caso di una cava a cielo aperto, il piazzale dove avviene la frantumazione, lo stoccaggio, il caricamento ed il trasporto del materiale estrattivo costituisce una componente coessenziale dell’impianto utilizzato per l’esercizio dell’attività produttiva; l’attività complessiva in questione trova, infatti, in tali operazioni dei momenti di ineliminabile svolgimento del ciclo produttivo e quindi il piazzale finalizzato a tali essenziali lavorazioni rientra a titolo primario nel concetto di “impianto..in cui si svolge attività…di produzione di beni” utilizzato nella definizione di acque reflue industriali ribadita dall’attuale art.74, lettera h) del D.lgs. 3 aprile 2006, n.152. Tale connotazione, tuttavia, non risulta sufficiente a trasformare le acque meteoriche di dilavamento in “acque reflue industriali”, giacchè il principale ostacolo a tale qualificazione è frapposto dalla stessa definizione di queste ultime, quale ricavabile dall’art.2 del D.lgs. n.152\99, conforme, d’altra parte, nella sua integralità, al testo attualmente vigente dell’art.74, comma 1, lett.h), del D.lgs. 3 aprile 2006, n.152, quale interpolato dall’art.2, comma 1, del D.lgs. 16 gennaio 2008, n.4. Quest’ultimo ha infatti soppresso l’inciso finale precedentemente inserito nel testo dell’art.74, comma 1, lett.h) medesimo, secondo il quale si intendevano come acque meteoriche di dilavamento “anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento”. In sostanza, per il legislatore assume importanza dirimente, ai fini della qualificazione in parola, la circostanza che le acque reflue siano immesse nel ciclo produttivo in conseguenza dell’iniziativa umana ascrivibile all’attività economica esercitata, risultando cioè l’immissione un momento costitutivo del processo produttivo, come conferma altresì la pari eccettuazione dal regime prevista per le “acque reflue domestiche” (oltre che, appunto, per quelle “meteoriche di dilavamento”).
N. 07618/2009 REG.DEC.
N. 07143/2007 REG.RIC.





REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)


ha pronunciato la presente



DECISIONE


Sul ricorso numero di registro generale 7143 del 2007, proposto da:
Berti Sisto & C. Lavori Stradali S.p.A., rappresentato e difeso dall'avv. Calogero Narese, con domicilio eletto presso Studio Grez in Roma, Lgt. Flaminio,46-Pal. Iv-Sc. B;


contro


Regione Toscana, Comunita' Montana del Mugello, Azienda Sanitaria di Firenze; Provincia di Firenze, rappresentato e difeso dall'avv. Alberto Bianchi, con domicilio eletto presso Fabio Lorenzoni in Roma, via del Viminale N.43; Comune di Barberino di Mugello, rappresentato e difeso dall'avv. Giulio Padoa, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez in Roma, corso V.Emanuele II, N.18; Autorita' di Bacino del Fiume Arno, Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Gen.Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12; Arpat, rappresentato e difeso dagli avv. Lucia Bora, Fabio Ciari, Fabio Lorenzoni, con domicilio eletto presso Fabio Lorenzoni in Roma, via del Viminale N.43;

per la riforma
della sentenza del Tar Toscana - Firenze :sezione I n. 1044/2007, resa tra le parti, concernente AUTORIZZAZIONE CAVE.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 giugno 2009 il consigliere di Stato Luciano Barra Caracciolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO


Con la sentenza in epigrafe il Tar della Toscana ha respinto il ricorso proposto dalla s.p.a. Berti Sisto & C. Lavori Stradali avverso l’autorizzazione cave n.6 del 17 ottobre 2005, rilasciata dal Comune di Barberino del Mugello, limitatamente alla condizione n.3, implicante l’obbligo di chiedere l’autorizzazione per lo scarico di acque meteoriche provenienti dai piazzali di cava. Con motivi aggiunti la società ha impugnato la nota del 9 ottobre 2006 con cui il Comune stesso invitava la ricorrente a provvedere all’adempimento dell’obbligo.

L’adito Tribunale riteneva che la particolare tipologia delle lavorazioni che si effettuavano sui piazzali di cava e la conseguente formazione di fanghi, che sono considerati rifiuti e come tali trattati, comportava che le acque meteoriche perdessero la loro natura e si trasformassero in acque reflue industriali. Nel caso di specie era ragionevole ritenere che le acque di dilavamento, venute in contatto con sostanze o materiali connessi con lavorazioni industriali, ivi compresi non solo gli oli e quanto proveniente dai mezzi meccanici utilizzati, ma anche le terre ed i fanghi prodotti dalle lavorazioni, perdessero la loro natura di “acque scese dal cielo”. Rimanevano sottratte a vincoli o prescrizioni solo le acque meteoriche di dilavamento che tali rimanevano prima della loro immissione dell’ambiente e cioè quelle non venute a contatto con sostanze o materiali connessi con le lavorazioni industriali.

Peraltro, le eventuali deroghe al principio, nelle quali potrebbero rientrare i casi di acque meteoriche contaminate per la presenza di materiali derivanti dal ciclo industriale, sono disciplinate dalle regioni, con conseguente censura di violazione dell’art.39 del D.lgs.n.152\99. Con la deliberazione della G.R. n.138 dell’11.2.2002, la Regione Toscana aveva stabilito che fossero soggette a regime autorizzatorio le eventuali immissioni nell’ambiente di acque derivanti da coltivazioni di cave e\o da connesse attività di trattamento e lavorazione dei materiali estratti che rientrassero nella definizione di scarico individuata dal D.lgs.152\99. Osservava il Tar, circa la dedotta estraneità della deliberazione regionale alla disciplina di ipotesi di deroga al principio generale di non soggezione delle acque meteoriche di dilavamento, che le acque meteoriche che ricadevano all’interno dell’area interessata, a contatto con i prodotti di lavorazione e con il terreno denudato e movimentato, si arricchiscono di “solidi sospesi”, prodotti dalla pioggia che erode e trasporta i materiali interi più fini, e di idrocarburi, dovuti alla presenza di macchine operatrici. Ricompresi pertanto i piazzali di cava nella nozione di “stabilimento industriale”, le acque che li dilavavano perdevano la natura di acque meteoriche assumendo quella di “acque reflue industriali” o, quanto meno, quella di “acque dilavanti contaminate”. La delibera regionale non poteva quindi non ritenersi riferita anche alle acque meteoriche dilavanti i piazzali di cava, come confermava l’art.2, comma 1, della l.r. n.20\2006, individuante la categoria della acque dilavanti contaminate (lett e)). La distinzione trovava conferma nell’art.74 comma 1, lett.h) del D.lgs.n.152\2006, che modificando la definizione di “acque reflue industriali” ex D.lgs.152\99, precisava che esse erano diverse dalle acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali “anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento”. Ne conseguiva che la acque meteoriche venute a contatto con materiale inquinante connesso con il processo di lavorazione andavano qualificate acque reflue industriali, senza che occorresse la previa individuazione da parte della Regione delle “attività che comportassero oggettivo rischio di trascinamento, nelle acque meteoriche di dilavamento, di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali”, al fine di qualificare come contaminate le acque in questione. Erano perciò respinti anche il terzo e quarto motivo di ricorso, poiché la necessità di sottoporre ad autorizzazione lo scarico delle acque in questione non derivava dalla loro potenzialità inquinante da accertare appositamente, bensì dalla loro natura di acque contaminate per l’accertata mescolanza con i materiali e le sostanze derivanti dal ciclo industriale, come tali soggette ad autorizzazione indipendentemente dal loro effettivo carico inquinante. In ogni caso l’autorizzazione allo scarico avrebbe imposto solo di controllare le emissioni nei corpi recettori dei solidi sospesi totali e comunque l’adozione di cautele per salvaguardare l’integrità dei corpi idrici. Era pure respinta la censura relativa alla violazione dell’art.14 quater della legge n.241\90, avendo eccepito la Provincia di non essere stata convocata o di essere stata convocata tardivamente ed avendo in ogni caso l’ARPAT fatto proprio il parere della Provincia espresso al di fuori del procedimento in questione nella conferenza del 30 agosto 2005.

Appella l’originaria ricorrente deducendo i seguenti motivi:

1. Erroneità e contraddittorietà della motivazione. Violazione del D.lgs.15.11.1999, n.152. Travisamento dei fatti.

Premesso che le acque e i fanghi di lavorazione seguono un percorso a circuito chiuso che non si interseca mai col percorso delle acque meteoriche, e ribadito che i fanghi di lavorazione decantano in vasche di sedimentazione diverse da quelle in cui sono convogliate le acque meteoriche, la nota del responsabile del servizio dell’ARPAT contraddice le conclusioni del Tar, in quanto l’acqua meteorica cade sui piazzali e, in parte erodendo il terreno, in parte dilavando i “frammenti di roccia” depositati sul terreno, trasporta questi materiali, materiali sedimentabili, solidi che non si sciolgono nell’acqua, rimanendo separati da essa e che non ne alterano la composizione chimica, senza che si produca quel miscuglio inscindibile di cui parla il Tar; quindi, nella vasca in cui le acque sono convogliate, il materiale sedimentabile si sedimenta e un disoleatore elimina completamente problemi eventuali di idrocarburi. Solo dopo questo processo l’acqua meteorica viene immessa nel corpo ricettore, senza rischio che le particelle solide possano “banalizzare” l’alveo. Le acque piovane arrivano alle vasche di sedimentazione cariche di solidi sospesi raccolti lungo il tragitto e qui vengono chiarificate ed escono pulite, senza che vi sia il rilascio nell’ambiente esterno né di acqua né di fanghi, né di reflui derivanti dal ciclo produttivo, essendo perciò il Tar incorso sul punto in travisamento dei fatti.

1.b. Ciò ha comportato l’assurda abrogazione della categoria giuridica delle “acque meteoriche di dilavamento”, non essendo inoltre state assoggettate a prescrizioni, e meno che mai ad autorizzazione, le immissioni di acque meteoriche di dilavamento, dato che la Regione, competente a provvedere, non ha previsto nulla ai sensi dell’art.39 del D.lgs.n.152\99, previsione confermata dall’art.113 del D.lgs.n.1526. Alla luce della disciplina intervenuta nel 2006, sia statale che regionale, emerge che le acque meteoriche sono sempre dilavanti ma non per questo si trasformano in reflui, e, a seconda di ciò che dilavano, possono essere contaminate o no. Però l’individuazione delle sostanze che rendono contaminate le acque meteoriche è demandata ad un regolamento che la regione Toscana non ha ancora emanato. In assenza di tale regolamento continua ad applicarsi la vecchia previsione del D.lgs. 152 per cui, mancando la normativa regionale, le acque meteoriche non sono soggette a vincoli o prescrizioni. E’ dunque “contra legem” l’assimilazione contenuta in sentenza tra le acque meteoriche provenienti dai piazzali di cava e le acque reflue industriali, contraddicendo una categoria prevista e voluta dal legislatore, come già dedotto nei motivi I e III del ricorso di primo grado.

II. Violazione del D.lgs.11.5.1999, n.152. Erroneità e contraddittorietà della motivazione. Difetto dei presupposti e travisamento dei fatti.

La delibera regionale 11.2.2002, n.138, non si riferisce affatto alle acque meteoriche e non rappresenta quell’intervento regionale previsto dall’art.39 del D.lgs.152\99; essa solo stabilisce che qualora le acque derivanti dall’attività produttiva svolta sui piazzali di cava siano da considerarsi come “scarico di acque reflue industriali”, allora sarebbero soggette all’obbligo generale di preventiva autorizzazione. L’equivoco in cui è incorso il Tar di ritenere che la delibera si riferisse alle acque meteoriche deriva dalla sua convinzione che la ricorrente nel processo estrattivo e di lavorazione non immetta e non utilizzi acqua di processo, mentre invece l’attività consiste anche nel lavaggio degli inerti, dove sono utilizzate acque di lavorazione anche se non sono scaricate ma ripompate a ciclo continuo. Ed è alle acque di lavorazione che si riferisce la delibera regionale in questione.

III. Violazione art.39 del D.lgs. 152\99 sotto altro profilo. Violazione artt. 2 e 13 l.r. Toscana 31 maggio 2006, n.20. Contraddittorietà della motivazione e difetto dei presupposti. Straripamento di potere.

Il Tar afferma poi che anche se fosse errata la parificazione delle acque piovane dilavanti ai reflui industriali, le acque meteoriche sarebbero comunque da considerarsi “contaminate”. Tuttavia le acque meteoriche di dilavamento contaminate secondo la lettera e) della l.r. n.20\2006, sono quelle “derivanti dalle attività che comportino oggettivo rischio di trascinamento, nella acque meteoriche, di sostanze pericolose e di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali” individuate dal regolamento di cui all’art.13, che non è stato mai emanato. In mancanza di esso, la stessa l.r. non può operare e trova applicazione il secondo comma dell’art.39 del D.lgs. N.152\99, per cui la acque meteoriche non sono soggette a vincoli o prescrizioni.

III.b. Per il Tar le acque meteoriche diventano, se non acque reflue industriali, acque dilavanti contaminate perché cadendo sul piazzale di cava, si arricchiscono di solidi sospesi totali e di idrocarburi. Ebbene, siccome la nozione di “acqua meteorica di dilavamento” contiene in sé l’idea che essa dilava e trascina con sé altri materiali; siccome la normativa regionale stabilisce che il fatto che l’acqua trascini altro materiale non la rende di per sé pericolosa o contaminata; siccome allora occorre discernere cosa si è trascinato; siccome, infine, quelli di cui si discute sono materiali che non interagiscono con l’acqua e che naturalmente se ne separano (“interi”); allora non v’è ragione di affermare che le acque in questione siano da considerarsi pericolose, tanto più che l’unica volta in cui il legislatore regionale si è occupato delle acque in ambito di cava (d.G.R. n.138\2002) ha stabilito che “l’eventuale utilizzo di acque nelle fasi di taglio non costituisce scarico ai sensi del D.lgs.n.152\92”, onde non necessita di autorizzazione.

Quanto agli idrocarburi, la definizione di acque meteoriche non contaminate richiamata dal Tar (quelle derivanti da superfici impermeabili non adibite allo svolgimento di attività produttive, compresi i piazzali di sosta e di movimentazione di automezzi, anche di aree industriali), contraddice la qualificabilità delle acque in questione come “contaminate”; se gli idrocarburi- trattati in cava con un disoleatore ed eliminati quindi dall’acqua restituita al reticolo idrografico- non sono idonei a contaminare l’acqua quando vengono dilavati dai piazzali di sosta e di movimentazione automezzi, come potrebbero esserlo se vengono dilavati in un piazzale di cava, dato che anche questo è un piazzale industriale in cui il rischio di rilascio di idrocarburi potrebbe derivare solo dalla movimentazione dei mezzi, non essendovi svolta alcuna attività ulteriore che comporti l’utilizzo di idrocarburi?

IV. Contraddittorietà della motivazione. Violazione del D.lgs.n.152\99 sotto ulteriore profilo. Violazione della l.r. 31.5.2006, n.20, sotto ulteriore profilo. Difetto assoluto di presupposti.

Secondo il Tar l’acqua meteorica nel caso si trasforma in refluo industriale perché cadendo entrerebbe in contatto con “materiale inquinante”.

Era stato dedotta in proposito la censura che l’art.39 del D.lgs.n.152\99 utilizza la locuzione “particolari ipotesi in relazione all’attività svolta”, esigendo che deve trattarsi di situazione in cui il rischio si presenti a seguito di un giudizio concreto e qualificato, giudizio che l’ARPAT non ha ritenuto di effettuare, basandosi sull’assioma per cui basta l’esercizio dell’attività di cava per ritenere sussistente un carico inquinante tale da dover dettare particolari prescrizioni. Per il Tar la necessità di sottoporre ad autorizzazione lo scarico de quo non deriva però dalla loro potenzialità inquinante, bensì dalla natura di acque contaminate per l’accertata sussistenza di contatto con i materiali e le sostanze derivanti dal ciclo industriale, per cui sono soggette ad autorizzazione indipendentemente dal loro effettivo carico inquinante. Pare allora che l’autorizzazione sia necessaria non tanto per la qualificazione delle acque come reflue industriali, ma per la loro natura di “acque contaminate”.

IV.b. In precedenza è stata dedotta l’impossibilità giuridica di qualificare le acque in questione come meteoriche dilavanti contaminate; inoltre la possibilità di tale qualificazione secondo la legge regionale presuppone che esse comportino un “oggettivo rischio di trascinamento, nelle acque meteoriche dilavanti, di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali”. I relativi casi dovevano essere determinati dal legislatore regionale con regolamento; l’accertamento di tale rischio oggettivo sarebbe comunque spettato all’ARPAT, che però non ha svolto nessuna verifica e nessuna valutazione del carico inquinante effettivamente e concretamente presente nell’area.

V. Erroneità della motivazione. Travisamento dei fatti. Manifesta ingiustizia, vessatorietà e disparità di trattamento.

Il Tar richiama il verbale di sopralluogo ARPAT del 25 ottobre 2006 per individuare un ulteriore rischio di inquinamento dei corpi idrici derivanti dallo scarico delle acque che cadono sui piazzali di cava; ma dal verbale emerge che gli esiti attengono ad aree del tutto diverse dai piazzali, su una strada esterna all’area di cava che non è di proprietà della ricorrente, strada di cantiere che altra impresa, nell’ambito dei lavori della Variante di Valico, stava realizzando per raggiungere il proprio cantiere, e nello stesso verbale si fa riferimento alla ripercussioni negative sui torrenti vicini della acque originate dal lavaggio di quella stessa strada, operato dalla stessa impresa. Mentre non risulta che alcuna prescrizione sia stata imposta a tale impresa, il Tar adduce i rischi derivanti dallo scarico di tali acque come motivo per imporre alla ricorrente l’autorizzazione allo scarico della acque che piovono altrove.

VI. Sull’estromissione dal giudizio di ARPAT e Provincia di Firenze.

Lo stesso Tar ammette che il parere della Provincia ha contribuito quale atto endoprocedimentale a determinare il contenuto finale del provvedimento impugnato, con la conseguenza che costituirebbe un provvedimento che, pur assorbito nella determinazione finale della conferenza di servizi, impone alla parte che intenda contestarlo l’onere di notificazione del ricorso anche all’amministrazione alla quale sia soggettivamente imputabile. Ma disposta tale estromissione, comunque, il Tar non avrebbe dovuto tener conto degli scritti difensivi depositati dagli enti estromessi, mentre la sentenza si basa sulle tesi difensive svolte da queste stesse Amministrazioni, configurandosi un grave vizio procedurale.

Si è costituito il Comune di Barberino del Mugello deducendo l’infondatezza dell’appello.

Si sono costituite altresì ARPAT e Provincia di Firenze; la prima ha ribadito la propria carenza di legittimazione passiva ed ha svolto controdeduzioni sul merito dell’appello, la seconda ha dedotto l’inammissibilità ed infondatezza dell’appello medesimo.

Si è costituito il Ministero dell’ambiente unitamente all’Autorità di bacino del fiume Arno senza svolgere particolari difese.


DIRITTO


1. Va ribadita la carenza di legittimazione passiva dell’ARPAT e della Provincia di Firenze nella presente controversia.

Ed infatti la prima ha emesso un parere, in data 30 agosto 2005, all’interno del procedimento avente perciò, come tale, secondo la corretta qualificazione fornita dal Tar, natura endoprocedimentale e non provvedimentale, sicchè non si applica l’orientamento giurisprudenziale richiamato in appello, dovendo piuttosto ritenersi che l’impugnazione della prescrizione imposta dal Comune, in caso di suo accoglimento, sia idonea a rimuovere integralmente la lesione lamentata, senza che possa residuare un’autonoma operatività del predetto atto endoprocedimentale, e dell’attività istruttoria che esso presuppone, che non sia travolta dall’eventuale caducazione del provvedimento finale.

A maggior ragione tali considerazioni valgono per il parere della Provincia, soltanto richiamato dall’ARPAT nel suo opinamento, e che rimane sullo sfondo, come rinvio extraprocedimentale determinativo del contenuto del parere ARPAT, ma insieme ad esso assorbito, nella sua valenza lesiva, dal medesimo provvedimento finale.

1.1. Quanto al “grave vizio procedurale” determinatosi dall’avere asseritamente il primo giudice tenuto conto delle difese degli enti estromessi, esso perde di rilevanza, anche con riferimento alla sua astratta prospettazione, alla luce delle considerazioni che seguono, in cui la decisione è assunta alla stregua delle risultanze probatorie versate in atti e comunque utilizzabili nel processo amministrativo, avente un sistema istruttorio anche acquisitivo, nonchè di argomentazioni in punto di diritto comunque commisurate alle doglianze svolte in primo grado ed ai motivi di appello strettamente correlati al merito della vicenda.

2. Il punto centrale della controversia concerne la qualificazione da attribuire alle acque piovane, cioè “meteoriche di dilavamento”, secondo il concetto offerto dal legislatore già ai sensi degli artt.2 e 39 del D.lgs. 11 maggio 1999, n.152, le quali precipitino in un piazzale utilizzato per la frantumazione, lo stoccaggio, il caricamento ed il successivo trasporto di materiale estrattivo proveniente da un’adiacente cava, piazzale come tale ingombrato da residui di tale materiale, che tende ad essere ridotto in polveri dal passaggio degli automezzi che, a loro volta, lasciano sullo stesso terreno residui di idrocarburi.

Sul piano del fatto, poi, risulta pacifico che tali acque meteoriche siano convogliate, nel caso specifico, in vasche di decantazione, dove vengono separati i fanghi in esse presenti in sospensione, che essendo “inerti” non alterano chimicamente le stesse acque (la circostanza risulta del pari pacifica alla luce dei rilievi svolti dalla stessa ARPAT), e dove un “disoleatore” trattiene gli idrocarburi eventualmente presenti. Solo dopo tale “decantazione” e depurazione, le acque originariamente meteoriche in questione vengono immesse nei corpi idrici dell’ambiente circostante. E’ altettanto pacifico che la parte solida sedimentata dei “fanghi” è separatamente smaltita come “rifiuto”.

Il Tar ha ritenuto, nella sua più pregnante e decisiva statuizione, che la particolare tipologia delle lavorazioni che si effettuano sui piazzali di cava e la conseguente formazione di fanghi, considerati rifiuti e, come s’è visto, trattati come tali, comporta che le acque meteoriche perdano nel caso la loro natura e si trasformino in acque reflue industriali, soggette cioè ad autorizzazione allo scarico, come in effetti imposto in base all’impugnata prescrizione n.3) della rilasciata autorizzazione all’esercizio della cava.

3. La conclusione non è da condividere.

Ed infatti, deve ritenersi che, nel caso di una cava a cielo aperto, come quello che ci occupa, il piazzale dove avviene la frantumazione, lo stoccaggio, il caricamento ed il trasporto del materiale estrattivo costituisca una componente coessenziale dell’impianto utilizzato per l’esercizio dell’attività produttiva; l’attività complessiva in questione trova, infatti, in tali operazioni dei momenti di ineliminabile svolgimento del ciclo produttivo e quindi il piazzale finalizzato a tali essenziali lavorazioni rientra a titolo primario nel concetto di “impianto..in cui si svolge attività…di produzione di beni” utilizzato nella definizione di acque reflue industriali posta dall’art.2 citato e ribadita dall’attuale art.74, lettera h) del D.lgs. 3 aprile 2006, n.152.

3.1. Tale connotazione, in definitiva operata anche dal giudice di prime cure, tuttavia, non risulta sufficiente a trasformare le acque meteoriche di dilavamento in “acque reflue industriali”, giacchè il principale ostacolo a tale qualificazione è frapposto dalla stessa definizione di queste ultime, quale ricavabile dall’art.2 del D.lgs. n.152\99, conforme, d’altra parte, nella sua integralità, al testo attualmente vigente dell’art.74, comma 1, lett.h), del D.lgs. 3 aprile 2006, n.152, quale interpolato dall’art.2, comma 1, del D.lgs. 16 gennaio 2008, n.4.

Quest’ultimo ha infatti soppresso l’inciso finale precedentemente inserito nel testo dell’art.74, comma 1, lett.h) medesimo, secondo il quale si intendevano come acque meteoriche di dilavamento “anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento” (la rilevanza di tale soppressione e, prima ancora, dell’inciso stesso, non sussistono peraltro nella presente controversia, in cui il provvedimento finale reca la data del 17 ottobre 2005, quando non era dubitabile che l’unica disciplina a cui fare riferimento fosse quella ritraibile dal solo D.lgs.11 maggio 1999, n.152, allora vigente).

Ed invero, la disciplina “ratione temporis” applicabile, ed in effetti applicata, prevedeva la natura di “acque reflue industriali” delle sole acque che, comunque provenienti da edifici od impianti in cui si svolgessero attività commerciali o di produzione, fossero comunque diverse dalle “acque meteoriche di dilavamento”.

3.2. In sostanza, per il legislatore assume importanza dirimente, ai fini della qualificazione in parola, la circostanza che le acque reflue siano immesse nel ciclo produttivo in conseguenza dell’iniziativa umana ascrivibile all’attività economica esercitata, risultando cioè l’immissione un momento costitutivo del processo produttivo, come conferma altresì la pari eccettuazione dal regime prevista per le “acque reflue domestiche” (oltre che, appunto, per quelle “meteoriche di dilavamento”).

Non può perciò condividersi il riferimento operato dal Tar alla giurisprudenza di merito dell’A.G.O. relativa ad acque che, ancorchè meteoriche, siano da ritenersi comunque “provenienti dall’insediamento produttivo”; ciò perché, da un lato, la provenienza dall’impianto non è considerata elemento di qualificazione di per sé sufficiente alla stregua della stessa evidente ed obiettiva formulazione legislativa, dall’altro, le acque derivanti da eventi atmosferici non possono neppure, a rigore, considerarsi, “comunque” provenienti dall’insediamento produttivo, perché la loro origine rimane essenzialmente atmosferica e la provenienza dall’impianto deve ritenersi incidentale, cioè ascrivibile al “luogo” ma indipendentemente dalla natura produttiva di questo e dalla (dovuta) funzionalità e strumentalità dell’utilizzazione delle acque rispetto al ciclo produttivo.

3.3. La provenienza presa in considerazione dalla legge, nel complesso della formulazione legislativa qui in rilievo, deve quindi ritenersi “funzionale” in relazione al ciclo produttivo e non solo “spaziale” in relazione all’ubicazione di un impianto, come attesta l’eccettuazione delle acque meteoriche di dilavamento unitamente a quelle “reflue domestiche”.

Né è condivisibile il passaggio della sentenza di primo grado che, tralasciando il dato testuale e logico derivante dalla lettera della disposizione in questione, con un salto logico puntualmente denunziato in appello, ritiene che le acque di dilavamento venute in contatto con sostanze o materiali connessi con le lavorazioni industriali perdano la loro natura di “acque scese dal cielo”: ed infatti, nel concetto normativo di “acque meteoriche di dilavamento”, -posto in relazione di contrapposizione con il precedente enunciato delle “acque reflue industriali”, intese come quelle provenienti da edificio od impianto di esercizio di attività industriali-, è insito e connaturato sia che le acque “dilavino” cioè entrino in contatto e trascinino i materiali che si trovano sul suolo, sia che questi materiali possano essere quelli risultanti da attività industriali svolte presso l’impianto di volta in volta considerato.

4. La conclusione qui tratteggiata trova poi conferma nell’altra disposizione normativa in tema di “acque meteoriche di dilavamento”, come ulteriormente denunzia l’appello in esame, e ciò in un senso del tutto opposto a quello ritenuto dal giudice di prime cure.

Tale norma è l’art.39 del D.lgs.n.152\99, per il quale il comma 1, lett. b) prevede che le Regioni disciplinino “i casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione”, mentre il comma 2 dispone che “ le acque meteoriche non disciplinate ai sensi del comma precedente non sono soggette a vincoli o prescrizioni derivanti dal presente decreto”.

4.1. La disposizione si connette sistematicamente alla previsione dell’art.2 stesso D.lgs., sopra analizzata, nel configurare una disciplina dove le acque meteoriche sono, in linea di principio, esenti da autorizzazioni o prescrizioni ed estranee al sistema di controllo preventivo della immissione previsto per le acque derivanti da insediamento umano, e ciò ancorchè concernano, con la loro precipitazione, luoghi utilizzati come insediamenti produttivi, in cui il “dilavamento” rimane un fenomeno naturale, non oggetto di una presunzione assoluta di automatica capacità inquinante.

La possibile, ed anzi probabile, interferenza della precipitazione atmosferica e del suo effetto “dilavante” con la potenzialità inquinante degli insediamenti umani, anche produttivi, evenienza innegabile secondo il senso comune, è peraltro oggetto di una specifica previsione, che affida alla Regione l’individuazione in via normativa dei casi che, secondo un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’esperienza produttiva (e, più ampiamente, insediativa), siano tali da evidenziare il superamento di una soglia di pericolosità inquinante che esige un particolare regime cautelativo (prescrizioni ed “eventuale autorizzazione”).

4.2. Dunque le acque meteoriche non sono ontologicamente riconducibili, nella considerazione normativa, alle acque reflue industriali, mentre la circostanza, utilizzata dal Tar come premessa qualificante del suo ragionamento, che esse, ricadendo all’interno dell’area dell’insediamento produttivo, entrando a contatto con i prodotti di lavorazione, si arricchiscano, nel caso, di “solidi sospesi” e di “idrocarburi” (dovuti alla presenza di macchine operatrici), non descrive altro che il fenomeno del “dilavamento”, perfettamente compatibile con il carattere proprio e tipico delle “acque meteoriche”, appunto, “di dilavamento”; tale fenomeno, nella stessa concettualizzazione normativa, non può comportare che le stesse “perdano” tale natura “assumendo quella di acque reflue industriali o, quanto meno, quella di “acque dilavanti contaminate””(cfr; pag 14 sentenza di primo grado).

4.3. Se, come già precisato, si fa correttamente riferimento alla disciplina al tempo vigente (ma non divergenti rilievi scaturiscono dall’esame della disciplina attuale), si conclude, invece, nel senso che la pur ragionevole maggior pericolosità dell’interferenza tra acque meteoriche e dilavamento di materiali estrattivi provenienti dalle cave, ben avrebbe potuto costituire l’oggetto della disciplina regionale relativa ai casi in cui tali acque piovane risultino assoggettate a misure di prevenzione del pericolo di inquinamento, ai sensi del citato art.39, comma 1, lett. b).

Ma tale disciplina non era stata, al tempo, dettata dalla Regione Toscana ed in assenza della medesima non era legittimo ricorrere, in definitiva per colmare una lacuna nella disciplina prevista dal D.lgs.n.152\99, (quale poi ribadita dall’art.113 del D.lgs.n.152\2006), ad una forzatura del concetto di “acque reflue industriali”, qual’è quella posta a base della prescrizione impugnata e del parere dell’ARPAT del 30 agosto 2005, richiamante analoghe conclusioni di un parere della Provincia reso il 16 maggio 2003.

4.4. Va soggiunto che una tale disciplina regionale non può riconoscersi nelle previsioni della deliberazione di Giunta regionale n.138 dell’11 febbraio 2002, che appare con tutta evidenza dettata per le immissioni nell’ambiente delle diverse “acque derivanti da coltivazioni di cave e\o da connesse attività di trattamento e lavorazione dei materiali estratti”, e che quindi concerne acque immesse nel ciclo produttivo a seguito della connessa iniziativa umana, sul cui carattere di “reflue industriali” e sulla cui connessa esigenza di autorizzazione all’immissione non possono sorgere dubbi.

4.5. Neppure può coadiuvare le conclusioni assunte in primo grado il riferimento alla disciplina di cui alla l.r. 31 maggio 2006, n.20, che agli artt.1 e 2 pone il concetto di “acque meteoriche dilavanti contaminate” (art.2, comma 1, lett e)), intese come quelle “derivanti da attività che comportino oggettivo rischio di trascinamento…di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali individuate dal regolamento di cui all’art.13”.

Detta disciplina regionale, infatti, in primo luogo, è successiva all’adozione del provvedimento impugnato, sicchè corrobora la conclusione che la clausola di salvaguardia ambientale in tema di acque meteoriche prevista dall’art.39, comma 1, lett.b), del D.lgs.n.152\99, non avesse trovato attuazione fino a quel momento, sicchè non poteva farsene una legittima applicazione nei confronti della ricorrente.

D’altra parte, poi, la disciplina regionale in rilievo può risultare applicabile soltanto in presenza dell’adozione del “regolamento di cui all’art13” della stessa l.r., in assenza del quale il concetto di “acque meteoriche dilavanti contaminate” non opera in quei termini di tipicità e determinatezza che consentono l’attivazione del sistema delle autorizzazioni comunali previste dalla legge regionale medesima.

5. Va peraltro soggiunto che il sopra illustrato sistema di decantazione e di prima depurazione delle acque meteoriche in questione, autonomamente attivato dalla impresa appellante, conferma, sul piano del fatto, l’esistenza di quelle interferenze tra precipitazioni atmosferiche e attività estrattiva che comportano rischi di inquinamento idrico che sono contemplate dal sistema di tutela di livello regionale previsto dall’art.39 D.lgs.n.152\99, ma non per questo implicano l’accertamento legittimo di un fenomeno inquinante direttamente connesso alle acque meteoriche impingenti sul piazzale di cava, mentre neppure attestano una sorta di ammissione implicita del carattere refluo industriale delle acque stesse da parte dell’impresa, perché si tratta comunque di circostanze di fatto che non alterano la riconducibilità dei fatti in rilievo alle corrette definizioni normative qui assunte.

6. Alla luce dei rilievi finora svolti, comportanti l’accoglimento dei motivi secondo e terzo di appello (B1 e B2), deve ritenersi caducata l’intera sentenza di primo grado, posto che una volta accertato che le “acque meteoriche di dilavamento” non possono essere qualificate come “acque reflue industriali”, e neppure sussumibili nella categoria speciale delle acque meteoriche sottoponibili a particolari prescrizioni o eventuale autorizzazione, ovvero “contaminate”, per l’assenza, al momento dell’esecuzione dell’istruttoria e dell’adozione del provvedimento impugnato della dovuta disciplina regionale (subentrata successivamente e che, comunque, esige l’adozione del “regolamento di cui all’art13”), ne risulta accolta in misura satisfattiva l’originaria impugnazione caducante la prescrizione impugnata in via principale.

E’ evidente come, sulla scorta di ciò, non rilevi più la questione della effettuazione o meno, da parte degli organi tecnici deputati all’espletamento dell’istruttoria, degli accertamenti circa l’effettivo rischio di inquinamento e della riconducibilità o meno di tale fase istruttoria al regime delle “acque meteoriche contaminate”, previsto dalla posteriore disciplina regionale di cui si è esclusa l’applicabilità al caso in esame.

6.1. Ad ogni buon conto, l’istruttoria espletata a seguito della decisione interlocutoria n.894 del 2009, ha chiarito che la ricorrente ha chiesto ed ottenuto l’autorizzazione allo scarico delle acque meteoriche in questione, in virtù di atto dirigenziale della Provincia di Firenze n.2733 del 20 agosto 2007; è emerso altresì in corso di causa che tale autorizzazione è (soltanto) ora espressamente prevista in forza del regolamento emanato dalla Regione ai sensi del già citato art.13 delle l.r. n.20 del 2006, cioè del regolamento approvato con DRGT 8 settembre 2008, n.46.

La stessa Provincia sostiene che “ad avallare al posizione a suo tempo assunta…” cioè che lo scarico delle acque meteoriche fosse, nel caso, soggetto ad autorizzazione, “interviene il comma 5 dell’art.39” dello stesso regolamento del 2008. La Provincia opina inoltre che “quanto autorizzato soddisfi i requisiti previsti dal regolamento e pertanto debba essere confermato”.

La Provincia in sede istruttoria dichiara inoltre che in occasione del rilascio dell’autorizzazione allo scarico in questione si è chiesto il trattamento di tutte le acque “anticipando” i contenuti dell’art.43, comma 2, del successivo regolamento” del 2008.

Le stesse risultanze istruttorie e, obiettivamente, l’emanazione di quest’ultimo regolamento, di circa tre anni successivo all’atto impugnato, confermano dunque quanto qui finora ritenuto, ossia che, in conformità delle previsioni dell’art.39, comma 1, lett. b) del D.lgs. n.152\99 e dei corrispondenti artt.2 (introducente ex novo rispetto al testo legislativo statale il concetto di “acque meteoriche dilavanti”) e 13 della della citata l.r. n.20 del 2006, al momento della emanazione del provvedimento impugnato con il ricorso di primo grado, non sussisteva alcun obbligo di autorizzazione allo scarico delle acque meteoriche ancorchè interessanti un’area utilizzata per l’attività di cava.

Alla luce di quanto precede appare evidente il permanere dell’interesse alla decisione dell’attuale appellante, atteso che la mancata rimozione dell’atto impugnato renderebbe operativo un obbligo a suo carico che, se mantenuto, comporterebbe, in caso di sua violazione e per il periodo tra il 2005 ed il 2008, l’esposizione dell’impresa e dei suoi legali rappresentanti a responsabilità da illecito amministrativo ed eventualmente penale, pur a fronte di una normativa che, al tempo, non consentiva l’imposizione di dotarsi di un’autorizzazione.

L’incertezza della complessa disciplina in applicazione e la natura degli interessi coinvolti giustifica peraltro la compensazione delle spese tra tutte parti costituite per entrambi i gradi di giudizio.


P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello indicato in epigrafe, lo accoglie e per l’effetto in riforma della sentenza impugnata, accoglie l’originario ricorso e annulla il provvedimento nella parte impugnata..
Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2009 con l'intervento dei Magistrati:

Giuseppe Barbagallo, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Luciano Barra Caracciolo, Consigliere, Estensore
Maurizio Meschino, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Il Segretario




DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/12/2009