Cass. Sez. III n. 15049 del 13 aprile 2007 (Ud. 09/01/2007)
Pres. Papa E. Est. Franco A. Imputato: Bertini.
(Annulla con rinvio, Trib. Massa, 10 dicembre 2004)
PRODUZIONE, COMMERCIO E CONSUMO - PRODOTTI ALIMENTARI (IN GENERE) - REATI - IN GENERE - Vendita di sostanze in cattivo stato di conservazione - Stato di conservazione - Individuazione - Criteri.

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 5 lett. b) L. 30 aprile 1962 n. 283, vendita o detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario accertare la sussistenza di un concreto danno per la salute o un concreto deterioramento del prodotto, in quanto, trattandosi di un reato di pericolo, è sufficiente che le modalità di conservazione possano determinare il pericolo di un tale danno o deterioramento; peraltro è necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare un tale pericolo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. PAPA Enrico - Presidente - del 09/01/2007
Dott. TARDINO Vincenzo Luigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. TERESI Alfredo - Consigliere - N. 2
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. SARNO Giulio - Consigliere - N. 14667/2005
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Bertini Umberto, nato a Lucca il 9 maggio 1969;
avverso la sentenza emessa il 10 dicembre 2004 dal giudice del tribunale di Massa;
udita nella pubblica udienza del 9 gennaio 2007 la relazione fatta dal Consigliere Dr. Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza in epigrafe il giudice del tribunale di Massa dichiarò Bertini Umberto colpevole del reato di cui alla L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5, lett. b), perché, nella veste di direttore e responsabile delle procedure di autocontrollo del supermercato Esselunga, aveva consentito e non impedito che una confezione di filetto di salmone situata nel banco frigo per la vendita avesse, al cuore del prodotto, una temperatura di 10 anziché quella di 4 indicata sulla confezione, e si trovasse pertanto in cattivo stato di conservazione, e lo condannò alla pena della ammenda.
L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza ed erronea applicazione della Legge penale in relazione alla L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5, lett. b), sotto il profilo dell'offesa. Osserva, che pur aderendo alla tesi del reato in esame come di pericolo presunto e dell'interesse giuridico tutelato come quello del consumatore a che il prodotto giunga sul mercato con le cure igieniche dovute, nella specie non sussiste alcuna offesa penalmente rilevante, ne' reale ne' potenziale. Non sussiste un pericolo per la salute del consumatore, ne' un danno alla sua tranquillità e affidamento circa il rischio di alterazione del prodotto. Il prodotto in questione, infatti, non solo non era affatto alterato, ma non era neppure in cattivo stato di conservazione, perché la temperatura accertata era del tutto transitoria e conseguente, in quell'istante, al sistema dinamico di refrigerazione del frigo ovvero al probabile minimo intervento di un consumatore. Non era riscontrabile una conservazione senza le dovute cure igieniche, come dimostrato dal fatto che la temperatura diversa da quella suggerita riguardava un solo momento ed un solo salmone tra tutti quelli contenuti nel banco frigo. La condanna si basa quindi sulla presunzione non solo del pericolo per l'alterazione, ma anche sulla presunzione del cattivo stato di conservazione, che invece deve essere oggetto di prova diretta e certa. In ogni caso la difesa ha fornito la prova contraria che non sussisteva un cattivo stato di conservazione, perché si trattava dell'unico caso, avendo tutti gli altri prodotti ittici contestualmente esposti una temperatura di 4;
perché era il sistema dinamico di refrigerazione che poteva determinare una temperatura di poco superiore, ma solo per un brevissimo tempo; perché la temperatura del banco (perfettamente funzionante e senza limite massimo di carico) era di 2^; perché egli ed i suoi aiutanti controllavano la temperatura più volte al giorno, come risultava dalla lista di controllo. Non era poi ne' provata ne' verosimile l'ipotesi di un eccessivo stivaggio, che avrebbe comportato una temperatura elevata non per un solo salmone ma per più prodotti, sicché doveva ritenersi vera l'ipotesi di un precedente temporaneo spostamento o prelevamento da parte di un cliente.
2) inosservanza ed erronea applicazione della L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5, lett. b), sotto il profilo dello elemento psicologico del reato. Lamenta che la sentenza impugnata si basa su un giudizio di responsabilità oggettiva, giacché i controlli periodici, la temperatura di 2^ del banco frigo, il sistema di refrigerazione dinamico, la presenza di diversi capi reparto, l'unicità dell'episodio, il fatto che i prodotti erano già confezionati sottovuoto, escludono la riferibilità psicologica del fatto all'imputato. Invero, in assenza di una alterazione visibile della confezione, oltre alle condotte osservate, restava solo la condotta dell'apertura della confezione e quindi della distruzione del prodotto, e cioè una condotta alternativa non richiedibile. La sentenza impugnata manca comunque di qualsiasi motivazione sulla dedotta insussistenza della colpa a causa della impossibilità del comportamento eventualmente ritenuto corretto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è fondato perché effettivamente la sentenza impugnata è viziata da erronea interpretazione delle norme applicate e da carenza e manifesta illogicità della motivazione.
Innanzitutto, il giudice afferma che, per la sussistenza del reato in esame non è necessario accertare che le sostanze alimentari detenute per la vendita siano alterate in maniera da essere potenzialmente lesive per la salute delle persone, essendo invece sufficiente che le stesse siano detenute senza l'osservanza delle prescrizioni igienico- sanitarie idonee a garantire la loro buona conservazione, in modo che i prodotti si vengano a trovare in condizioni che ne mettano in pericolo la commestibilità o l'igiene e senza che abbia rilevanza il fatto che attualmente il prodotto non abbia ancora subito le modifiche che lo rendano nocivo alla salute.
L'affermazione è certamente esatta e conforme al principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dalla L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5, lett. b, che vieta, tra l'altro, la vendita e la detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario che quest'ultimo si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza (Sez. Un., 19 dicembre 2001, Butti, m. 220.716; Sez. 3^, 21 aprile 2004, Sontuoso, m. 228.887).
È però anche vero che, se non è necessario accertare la sussistenza di un concreto danno per la salute o di un concreto deterioramento del prodotto, in quanto, trattandosi di reato di pericolo presunto (Sez. 3^, 16 dicembre 2003, Bargelli, m. 226.874), è sufficiente che le modalità di conservazione possano determinare il pericolo di un tale danno o di un tale deterioramento, è però necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare un tale pericolo. In altri termini, se è sufficiente la presunzione del pericolo dell'alterazione, non può ritenersi sufficiente anche la mera presunzione della inidoneità delle modalità di conservazione.
Nel caso di specie, invece, il giudice ha basato la sua decisione proprio, per così dire, sulla presunzione di una presunzione, in quanto in realtà ha omesso di accertare se la concreta modalità di conservazione del prodotto era realmente idonea a dar luogo ad un pericolo di alterazione del prodotto, ma ha soltanto presunto tale idoneità, con motivazione apodittica o comunque manifestamente illogica.
Il giudice del merito, infatti, ha accertato in punto di fatto che una delle confezioni di filetto di salmone congelate, tra le tante conservate all'interno del banco frigo, aveva una temperatura alla matrice di 10^ C, invece della temperatura di 4^ C, corrispondente ad una idonea modalità di conservazione, ed alla quale, invece, si trovavano tutte le altre confezioni di filetto di salmone conservate nello stesso banco frigo, il quale a sua volta era dotato di sistema dinamico di refrigerazione, funzionava regolarmente, ed aveva una temperatura di 2^ C.
Il giudice ha poi osservato che, se il prodotto fosse stato conservato alla temperatura di 10^ C, dopo otto giorni alcune entità batteriche si sarebbero potute replicare ed avrebbero potuto produrre tossine nocive per la salute. Ha di conseguenza ritenuto che la modalità di conservazione del prodotto era tale da non impedire, nell'arco di otto giorni, il formarsi di tossine nocive per la salute.
La manifesta illogicità di questo ragionamento è di tutta evidenza, in quanto esso si basa sull'assunto - indimostrato, ed anzi in contrasto con altre circostanze evidenziate dalla stessa sentenza impugnata - che la confezione in questione sarebbe sicuramente rimasta alla temperatura di 10^ C per otto giorni. Invece, era ben possibile che la confezione fosse rimasta alla temperatura di 10 C per pochi momenti, per poi tornare a quella di 4^ C (dato che fu rinvenuta all'interno del banco frigo regolarmente funzionante) così come poteva essere ugualmente possibile che essa fosse portata ad una temperatura superiore, e che quindi il pericolo del formarsi di tossine nocive potesse presentarsi ancor prima di otto giorni. Si tratta di una circostanza sicuramente decisiva ai fini del decidere, e che invece è rimasta del tutto inesplorata. Il giudice, quindi, avrebbe dovuto accertare, anche in via presuntiva sulla base di concreti elementi di fatto, quale potesse essere orientativamente il periodo di tempo in cui la confezione in questione era rimasta (o sarebbe rimasta) ad una temperatura superiore ai 4^ C e poi accertare se la permanenza a tale temperatura per questo periodo di tempo potesse considerarsi idonea a determinare il pericolo di tossine nocive.
In realtà, gli elementi evidenziati dalla sentenza impugnata sembrano essere, invece, nel senso di una permanenza ad una temperatura superiore a 4^ C solo per un breve periodo di tempo. Si afferma infatti che la confezione fu rinvenuta all'interno del banco frigo, che questo era funzionante e ad una temperatura di 2^ C, che il sistema di refrigerazione era di tipo dinamico, che la temperatura di 10^ C poteva essere raggiunta dopo circa 6-7 minuti dall'estrazione del prodotto dal banco (e, quindi, probabilmente, la permanenza fuori dal banco per più tempo avrebbe portato ad una temperatura maggiore), che il banco era stato stivato in modo eccessivo per vendere un maggior numero di prodotti (il che farebbe presumere che i prodotti in questione erano smerciati con notevole frequenza e che quindi non poteva essere eccessivo il periodo di permanenza fuori dal banco).
A ben vedere, deve quindi ritenersi che il giudice abbia ritenuto che il solo fatto che il prodotto fosse rimasto anche per un breve periodo di tempo ad una temperatura superiore a 4^ C fosse sufficiente per ritenere violate le corrette modalità di conservazione e quindi già automaticamente insorto il pericolo di future alterazioni. Si tratta però di una opinione non corrispondente a nessuna regola di esperienza (che infatti non viene indicata), che vieti anche brevi superamenti della temperatura consigliata per la conservazione del prodotto, ne' ad alcuna prescrizione normativa in materia. Il giudice cita il D.P.R. n. 327 del 1980, omettendo però di considerare che se il D.P.R. 26 marzo 1980, n. 327, art. 31 (contenente il Regolamento di esecuzione della L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 31), che regola i requisiti degli esercizi di vendita e di somministrazione di sostanze alimentari e bevande, dispone che i prodotti come quelli in questione devono essere conservati a temperatura non superiore a 4^ gradi, il successivo art. 51, che disciplina la temperatura delle sostanze alimentari durante il trasporto, dispone che il trasporto delle sostanze alimentari elencate nell'allegato C deve essere effettuato con modalità atte a garantire il mantenimento delle condizioni di temperatura fissate nell'allegato stesso. E il detto Allegato C, nella parte 1^, dispone a sua volta che i prodotti della pesca congelati o surgelati debbono mantenere durante il carico e durante il trasporto una temperatura massima di 18^ C.
Quindi, contrariamente all'assunto implicito su cui si basa la sentenza impugnata, non solo le regole di comune esperienza ma anche le specifiche disposizioni legislative in materia prevedono la possibilità di interruzioni della catena del freddo, ferma restando ovviamente la necessità che tali interruzioni non siano tali da determinare un cattivo stato di conservazione del prodotto, il quale però non può presumersi in astratto, ma va determinato in concreto in relazione a tutte le circostanze del caso (cfr. Sez. 3^, 19 gennaio 2006, Castelli). Tale accertamento, nella specie, è completamente mancato.
È opportuno evidenziare che la motivazione della sentenza impugnata è carente anche in ordine alla sussistenza dello elemento psicologico del reato, in quanto effettivamente sembra essere pervenuta alla affermazione di una sorta di responsabilità oggettiva. Il giudice del merito, invero, ha omesso di valutare ed adeguatamente motivare sulle circostanze in proposito indicate dall'imputato, quali la temperatura del banco frigo accertata in 2^ C, il regolare funzionamento dello stesso, il sistema di refrigerazione dinamico, la presenza di più capi reparto, l'unicità dell'episodio, la circostanza che i prodotti pervenivano dal produttore giù confezionati sottovuoto, l'assenza di alterazioni visibili. In particolare, non è stata nemmeno indicata quale condotta esigibile l'imputato avrebbe dovuto tenere, ed invece non aveva tenuto, per andare esente da colpa.
La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio al tribunale di Massa per nuovo giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione:
annulla la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Massa. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 9 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2007