Cass. Sez. III  n. 11500 del 22 marzo 2011 (Ud. 22 dic,2010)
Pres. Teresi Est.Franco Ric.Barletta
Alimenti.Potenziale nocività dell'alimento all'atto della vendita o detenzione

L'integrazione della fattispecie criminosa di commercio di sostanze alimentari nocive richiede che le sostanze destinate all'alimentazione siano già potenzialmente e concretamente nocive al momento della vendita o della detenzione per la vendita, a nulla rilevando, invece, che lo diventino in un secondo momento per cause successive ed estranee alla volontà del reo. (Nella specie si trattava di carne di agnello posta in vendita nei banchi di un supermercato, debitamente confezionata con cellophane, la prova del cui ammaloramento all'atto della vendita era incerta).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. TERESI Alfredo - Presidente - del 22/12/2010
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - SENTENZA
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - N. 2121
Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. SARNO Giulio - Consigliere - N. 45100/2009
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Barletta Alberto, nato a Benevento il 13.2.1961;
avverso la sentenza emessa il 30 aprile 2009 dalla corte d'appello di Napoli;
udita nella pubblica udienza del 22 dicembre 2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FRANCO Amedeo;
udito il Pubblico Ministero in persona Sostituto Procuratore Generale Dott. PASSACANTANDO Guglielmo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Barletta Alberto venne tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui; a) all'art. 516 c.p. per avere, quale legale rappresentante di un supermercato, posto in vendita carne di agnello debitamente confezionata con cellophane in evidente stato di putrefazione; b) del reato di cui alla L. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5.
Il giudice del tribunale di Benevento, sezione distaccata di Guardia Sanframondi, con sentenza 20.11.2006 qualificò il fatto di cui al capo A) come reato di cui all'art. 444 c.p. e dichiarò l'imputato responsabile di tale reato nonché di parie di quello sub B). La corte d'appello di Napoli, con la sentenza in epigrafe, dichiarò estinto il reato sub B) e confermò nel resto la sentenza di primo grado.
L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 444 c.p. perché non è stata accertata la presenza degli elementi necessari alla integrazione del detto reato, e in particolare l'attitudine dell'alimento ad arrecare nocumento alla salute pubblica già al momento della vendita ed il dolo del venditore. La corte d'appello ha omesso di rispondere agli specifici motivi di appello sul punto effettuando solo un generico rinvio alla sentenza di primo grado. 2) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione sia in ordine alla sussistenza degli elementi essenziali del reato sia in ordine alla valutazione della attendibilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa assunta come testimone. Anche sul punto la corte d'appello ha omesso di esaminare gli specifici motivi di appello.
3) mancata assunzione di prove decisive, consistenti nella acquisizione degli originali dell'etichetta, nella nomina di un perito e nella nuova escussione della parte offesa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è fondato essendo la sentenza impugnata viziata sia da carenza e manifesta illogicità della motivazione sia da errori di diritto.
La vicenda, così come risulta dalle sentenze dei giudici del merito, è la seguente. Il 7 ottobre 2005, alle ore 18.45, la sig. De Luca Grazia, residente a Guardia Sanframondi, denunciò ai carabinieri che la sera del giorno precedente, 6 ottobre 2004, si era recata nel supermercato Barletta di Telese chiedendo di acquistare della carne di agnello tagliata al momento. Il macellaio le disse però che ciò non era possibile e la invitò a servirsi dallo scomparto del preconfezionato. La donna quindi prelevò una vaschetta preconfezionata e cellofanata di carne di agnello. Tornata a casa, mise la vaschetta nel frigo e, apertala il giorno seguente verso le ore 14, constatò che, mentre le fettine superiori erano normali, per quelle poste in fondo della vaschetta la carne era maleodorante, giallognola e avariata. La De Luca consegnò ai carabinieri la vaschetta aperta con la carne ed uno scontrino del supermercato emesso il 6 ottobre 2004 alle ore 12.41, da cui risultava l'acquisto di carne, ma non l'etichetta con la data di confezionamento, la natura del prodotto ed il lotto di produzione. I vigili sanitari in seguito ispezionarono il supermercato e sequestrarono vari tipi di carne, ma i controlli e le analisi dettero esito negativo.
Il pubblico ministero ha quindi proceduto non nei confronti del macellaio al quale la donna si era rivolta, ma contro il legale rappresentante della società proprietaria del supermercato Barletta di Telese, ossia della srl ESSEBI Supermercati con sede in Benevento. È stato contestato ed è stato ritenuto il delitto di commercio di sostanze nocive di cui all'art. 444 c.p.. Ora, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, "Il commercio di sostanze alimentari nocive configura, a norma dell'art. 444 c.p., un reato di pericolo, per la sussistenza del quale è necessario che gli alimenti di cui si vuoi fare commercio abbiano attitudine ad arrecare nocumento alla salute pubblica. Tale attitudine non può essere meramente ipotetica, occorrendo, invece, un pericolo concreto i cui estremi, specificamente individuati, debbono dare ragione dell'affermazione di responsabilità. La pericolosità, per essere dimostrata, non abbisogna necessariamente di indagini peritali, poiché il giudice di merito può ricavarla da qualsiasi mezzo di prova e dalla comune esperienza" (Sez. 1, 23.9.2004, n. 41106, Molendino, m. 229746; conf. Sez. 1, 17.1.2007, n. 3532, Valastro, m. 235904); "In tema di commercio, detenzione o distribuzione per il consumo di sostanze destinate alla alimentazione, il bene giuridico tutelato dalle fattispecie previste dall'art. 444 c.p. e art. 452 c.p., comma 2, è costituito dalla "salute pubblica", che viene salvaguardata anche attraverso la previsione normativa di un delitto inquadrabile nella categoria dei reati c.d. "di pericolo concreto", per la cui esistenza è necessario che le sostanze alimentari abbiano effettiva idoneità a porre in pericolo la salute dei consumatori, pur non essendo richiesto che il nocumento si sia già verificato o debba necessariamente verificarsi. Ne deriva che la pericolosità delle sostanze non può essere valutata astrattamente, cioè come situazione meramente ipotetica, ma deve essere accertata specificamente a mezzo di adeguati strumenti probatoria (Sez. 1, 16.10.1996, n. 1367, Grimandi, m. 207707); "Il delitto di cui all'art. 444 c.p. va inquadrato nella categoria dei reati di pericolo concreto, nel senso che le sostanze alimentari abbiano idoneità ad esporre effettivamente a pericolo la salute pubblica; la pericolosità degli alimenti - cioè la possibilità che da essi derivi pregiudizio al bene tutelato dalla norma - non può, dunque, essere valutata astrattamente come situazione meramente ipotetica, sibbene deve essere fatta sulla base di accertamento tramite gli strumenti probatori adeguati alle singole sostanze alimentari collegate a sospetto" (Sez. 1, 13.5.1992, n. 6930, Turatta, m. 190585).
Trattandosi poi di delitto occorre il dolo. Al proposito, la giurisprudenza ha affermato che "L'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 444 c.p. è costituito dal dolo generico, ravvisabile nella volontarietà del commercio di sostanze alimentari nocive, conoscendone la loro pericolosità per la salute pubblica" (Sez. 1, 16.10.1996, n. 1367, Grimandi, m. 207709); e che "Il dolo necessario ad integrare la fattispecie criminosa di cui all'art. 444 c.p. consiste nella consapevolezza del pericolo che si può creare con la vendita del prodotto; per l'affermazione di colpevolezza non occorre invece che l'agente abbia posto in vendita le sostanze alimentari con la certezza del loro carattere dannoso" (Sez. 1, 18.11.1966, n. 1423, Milone, m. 103537).
In sostanza, il delitto di commercio di sostanze alimentari nocive presuppone, quanto all'elemento oggettivo, che le sostanze di cui si vuole fare commercio abbiano attitudine ad arrecare nocumento alla salute pubblica. Tale attitudine non deve consistere in un pericolo meramente ipotetico, essendo necessario un pericolo concreto, che deve sussistere al momento della cessione in vendita. L'elemento soggettivo del delitto è costituito dal dolo generico, ravvisabile nella volontarietà del commercio di sostanze alimentari nocive, conoscendone la loro pericolosità per la salute pubblica. Ai fini della configurazione del delitto deve quindi sussistere ed essere provata la pericolosità della sostanza alimentare di cui si vuole far commercio (in qualsiasi momento precedente o contestuale alla cessione del bene), la consapevolezza del pericolo e la volontarietà del commercio.
Nel caso in esame, dunque, per la integrazione del reato occorre accertare che l'agnello acquistato dalla sig.ra De Luca nel supermercato di Telese il 6.10.2004 alle ore 12.41, già al momento della vendita (cioè della consegna del bene all'acquirente) fosse in concreto nocivo per la salute e che l'imputato (che è il legale rappresentante della Essebi Supermercati srl e che non risulta essere stato presente alla vendita) fosse a conoscenza della noci vita, ossia della concreta potenzialità nociva del prodotto. Ora, la sentenza impugnata, innanzitutto manca di motivazione sull'esistenza dell'elemento oggettivo, ossia sulla prova che l'agnello fosse già ammalorato, e quindi pericoloso, al momento della cessione del bene. È infetti necessario che la merce posta in vendita sia potenzialmente nociva già al momento della vendita (o anche prima se detenuta per la vendita) a nulla rilevando che lo diventi in seguito per cause successive ed estranee alla volontà del soggetto attivo del reato. La pericolosità deve poi essere concreta ed oggetto di specifico accertamento. Sul punto la sentenza impugnata contiene una motivazione meramente apodittica, che, tra l'altro, non da conto del fatto che la denunciante aveva dichiarato che, al momento dell'acquisto, le fettine apparivano buone e che solo il giorno dopo, quando aprì la confezione di cellophane, sentì un cattivo odore. La sentenza ha poi omesso di valutare per quanto tempo la vaschetta, acquistata a Telese, era stata tenuta in macchina prima di essere riposta in frigo a Guardia Sanframondi, dal momento che lo scontrino prodotto indica le ore 12.41 e che la teste mise la carne nel frigo solo quando tornò a casa (non si capisce bene, dalle sentenze di merito, se nel pomeriggio o la sera dello stesso giorno). La sentenza impugnata ha anche omesso di considerare sia che i vigili sanitari successivamente prelevarono campioni di carni rosse e bianche e che le analisi dettero esito negativo, sia che il veterinario della AUSL ha dichiarato in dibattimento che la carne di agnello, se ben conservata, non poteva raggiungere il grado di putrefazione che aveva la carne in questione e se conservata in frigorifero non si poteva alterare in un solo giorno, mentre se conservata a venti gradi si poteva alterare anche in 24 ore. Tutti questi elementi, specificamente evidenziati con l'atto di appello, non sono stati presi in considerazione e valutati dalla corte d'appello che ha omesso di motivare sul punto, limitandosi a richiamare la motivazione del giudice di primo grado, che aveva apoditticamente affermato che la carne era già adulterata al momento della vendita.
Per quanto poi concerne la sussistenza dell'elemento soggettivo, la corte d'appello lo ha desunto dagli artifici che sarebbero stati posti in essere dal macellaio all'atto della vendita della carne adulterata inducendo la denunciante (che aveva chiesto carne tagliata al momento) ad acquistare il prodotto preconfezionato. La motivazione è sia apodittica sia manifestamente illogica. Innanzitutto, risulta dalle stesse sentenze di merito che la denunciante aveva dichiarato che il macellaio addetto al supermercato le aveva risposto che non era possibile tagliare la carne e le aveva indicato il banco dei preconfezionati. Ora, non è spiegato perché in tale risposta dovrebbe individuarsi addirittura un artificio diretto ad indurre la teste ad acquistare carne avariata (senza peraltro nemmeno ipotizzare che tutte le confezioni contenessero carne avariata o che fosse stato lo stesso macellaio a scegliere e consegnare proprio la confezione avariata). Nè, d'altro lato, è spiegato in che cosa sarebbero consistiti gli artifici al di là della indicazione dello scomparto dei preconfezionati. In ogni modo, la motivazione è anche manifestamente illogica ed inconferente perché il comportamento che si ipotizza artificioso ed induttivo e quindi l'elemento psicologico vengono riferiti al macellaio che si trovava nel supermercato e che rispose alla De Luca, mentre in questo processo è stato imputato e condannato non il macellaio ma il legale rappresentante della società proprietaria del supermercato che ha sede legale a Benevento e che nemmeno si assume che si trovasse nel supermercato al momento del fatto. La corte d'appello probabilmente ha confuso con una contravvenzione in materia alimentare, mentre, essendo stato contestato il delitto di cui all'art. 444 c.p., occorreva provare la sussistenza del dolo e della consapevolezza della pericolosità in concreto della carne prima della vendita in capo all'imputato Barletta Alberto, legale rappresentante della società. Su questo elemento del reato la motivazione manca completamente, perché la stessa si riferisce esclusivamente al macellaio, mentre non sono state indicate le ragioni per le quali il Barletta sarebbe stato consapevole dello stato di adulterazione del prodotto in vendita e della sua pericolosità in concreto o comunque perché avrebbe concorso nell'induzione e nell'artificio posto in essere dal macellaio.
Va ancora aggiunto che la sentenza impugnata ha anche omesso di esaminare e motivare sulle specifiche eccezioni sollevate con l'atto di appello, quali l'attendibilità della denunciante e le contraddizioni nel suo racconto, la non corrispondenza tra orario dichiarato e quello risultante dallo scontrino, le modalità di conservazione, la scarsa valenza probatoria del solo scontrino, la mancanza dell'etichetta con l'indicazione della natura del prodotto, della data di confezionamento e del lotto di produzione. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d'appello di Napoli. P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Napoli. Così deciso in Roma, nella Sede della Corte Suprema di Cassazione, il 22 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2011