Cass. Sez. III n. 6202 del 11 febbraio 2015 (Ud 18 dic 2014)
Pres. Mannino Est. Scarcella Ric. Bennardo ed altri
Beni Culturali. Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato

Ai fini della configurabilità del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, di cui all'art. 176 del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, non è necessario la preesistenza di un provvedimento che dichiari l'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico delle cose delle quali il privato sia trovato in possesso, atteso che i beni di cui all'art. 10 del D.Lgs. n. 42 appartengono allo Stato sulla base del semplice accertamento del loro interesse culturale, salvo che il possessore non fornisca la prova della legittima proprietà degli stessi

RITENUTO IN FATTO

1. B.R. e M.A. hanno proposto ricorso, a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, avverso la sentenza della Corte d'appello di PALERMO emessa in data 12/03/2014, depositata in data 17/03/2014, con cui veniva confermata la sentenza del tribunale di AGRIGENTO del 14/01/2013 di condanna dei medesimi alla pena sospesa per entrambi di mesi 4 di reclusione ed Euro 200,00 di multa ciascuno per il reato di possesso di beni di interesse archeologico appartenenti allo Stato (D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 176 e 10: fatto contestato come accertato il (OMISSIS)).

2. Con i ricorsi viene dedotto un unico, articolato motivo, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1. Deducono, con tale unico motivo, la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e) sotto il profilo della illogicità e contraddittorietà della motivazione. In sintesi, la censura investe l'impugnata sentenza in quanto i giudici di appello avrebbero ritenuto i due ricorrenti responsabili del reato accertato senza alcuna prova dell'effettiva consapevolezza dell'interesse archeologico dei beni detenuti, come del resto fatto palese dalla motivazione dell'impugnata sentenza, in cui si parla di "presumibile" interesse culturale o archeologico di almeno una parte degli oggetti raccolti; sarebbe, quindi, mancato qualsiasi accertamento in ordine all'effettiva sussistenza dell'elemento psicologico del reato, fin dal momento della consumazione del reato, coincidente con il rinvenimento dei beni; diversamente, i giudici di merito avrebbero desunto il dolo da elementi estrinseci e marginali, come l'atteggiamento tenuto in momento successivi alla consumazione del reato o la valutazione successiva circa la natura dei beni frutto di un'attenta perizia sugli stessi; detti beni, in realtà, a prima vista non potevano essere considerati di interesse culturale, tant'è che per gli unici oggetti che potevano essere rilevati con l'attrezzatura nella disponibilità dei due ricorrenti (monete e placchetta a forma di campanella) la perizia ne aveva escluso l'interesse culturale; la stesa teste G., funzionario della Soprintendenza, non aveva potuto affermare con certezza che le monete fossero tali, sicchè a maggior ragione tale attività identificativa non era possibile per i due ricorrenti, non avendo le conoscenze necessarie.

2.1.1. Ancora, il vizio motivazionale inficerebbe l'impugnata sentenza nella parte in cui i giudici negano il riconoscimento delle attenuanti generiche a causa delle non lievi modalità del fatto commesso; tale affermazione non sarebbe supportata da alcun elemento, essendosi sostanziato il comportamento tenuto dai ricorrenti nell'effettuare un'inversione di marcia cui era seguita l'azione dei militari; la valutazione di una negativa personalità dei ricorrenti in assenza di riscontri oggettivi risulterebbe dunque illogica.


CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I ricorsi sono infondati.

4. Ed invero, dall'impugnata sentenza emerge con chiarezza e senza alcuna sbavatura di ordine logico nè, tantomeno, contraddittorietà motivazionale l'illustrazione delle ragioni per le quali gli stessi vennero ritenuti responsabili in sede di merito. Con particolare riferimento al dolo su cui si appuntano le censure difensive, i giudici di appello chiariscono come le modalità del fatto e, segnatamente, il comportamento tenuto dai ricorrenti alla vista degli operanti (i due, infatti, alla vista dei carabinieri, avevano cercato di darsi alla fuga e, poi, vistisi inseguiti avevano tentato di disfarsi del cospicuo materiale in loro possesso gettandolo dal finestrino della vettura in corsa) denotassero la consapevolezza di detenere oggetti di interesse culturale, di cui la gran parte risultò infatti rivestire detto interesse. I giudici di appello, peraltro, correttamente escludono qualsiasi rilievo alla circostanza che taluni degli oggetti sequestrati rivestissero interesse culturale (ad esempio la placchetta metallica), atteso che ciò che rilevava nel caso di specie era che i due, proprio per il loro comportamento, avessero la consapevolezza del presumibile interesse culturale di quanto in loro possesso.

Si noti, del resto, che ai fini della configurabilità del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 176 non è necessario la preesistenza di un provvedimento che dichiari l'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico delle cose delle quali il privato sia trovato in possesso, atteso che i beni di cui al citato D.Lgs. n. 42, art. 10 appartengono allo Stato sulla base del semplice accertamento del loro interesse culturale, salvo che il possessore non fornisca la prova della legittima proprietà degli stessi (Sez. 3, n. 39109 del 24/10/2006 - dep. 28/11/2006, Palombo, Rv. 235410), circostanza da escludersi nel caso in esame. A ciò va aggiunto, peraltro, che ai fini dell'integrazione del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, è sufficiente un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall'autorità giudiziaria, come avvenuto nel caso di specie (Sez. 3, n. 35226 del 28/06/2007 - dep. 21/09/2007, Signorella, Rv. 237403).

5. Quanto al reato per cui si procede, la norma sanzionatola di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 176, (Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato) punisce "Chiunque si impossessa di beni culturali indicati nell'art. 10 appartenenti allo Stato ai sensi dell'art. 91". L'art. 176 tutela l'interesse a garantire che i beni culturali ritrovati confluiscano nella disponibilità materiale e giuridica dello Stato. Al fine di individuare l'ambito di operatività di tale ipotesi criminosa occorre esaminare la disposizione di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 91 a cui la norma fa espresso rinvio. Il suddetto art. 91 stabilisce che le cose aventi rilievo culturale indicate all'art. 10 del codice stesso, "da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli art. 822 e 826 c.c.". I soggetti attivi del delitto di cui all'art. 176 possono essere o l'autore di ricerche autorizzate ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 89 (ed in tal caso l'art. 176 prevede un circostanza aggravante stabilendo la pena della reclusione da 1 a 6 anni e la multa da Euro 103,00 a Euro 1.033,00) o il ricercatore abusivo oppure coloro che realizzano una scoperta occasionale.

Orbene, con riferimento al dolo normativamente richiesto, il semplice riferimento alla condotta di impossessamento di beni culturali senza alcuna specificazione rende sufficiente il dolo generico, ossia la mera consapevolezza di beni aventi interesse culturale, non rilevando la circostanza che tale consapevolezza venga desunta anche dal comportamento tenuto in epoca successiva al rinvenimento. Ed infatti, va qui ricordato che la prova della sussistenza del dolo nel momento in cui e stato commesso il reato può essere tratta anche dal comportamento tenuto dal colpevole successivamente al reato medesimo, perchè il principio del libero convincimento del giudice non soffre distinzioni fra natura materiale e psicologica dei fatti emersi dal processo e oggetto di valutazione ai fini del convincimento stesso (Sez. 2, n. 1818 del 17/11/1967 - dep. 26/02/1968, Di Salvio, Rv. 106993). Sotto tale profilo, si noti, questa Corte ha ritenuto che la prova della volontà di appropriarsi di una cosa altrui possa desumersi dalla condotta succeda alla sottrazione (Sez. 2, n. 1491 de, 25/10/1965 - dep. 14/01/1966, Volonte, Rv. 100253).

Deve, pertanto rigettarsi il motivo di ricorso in questione.

6. Quanto, infine, al preteso vizio motivazionale derivante dal mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, la doglianza si presenta priva di pregio, atteso che i giudici hanno negato il riconoscimento delle attenuanti invocate sia per l'assenza di sintomi di resipiscenza, ma anche per i precedenti penai, a loro carico. Ed è pacifico nella giurisprudenza d, questa Corte che ai fini dei applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all'art. 133 c.p., ma non e necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quali di esso ha inteso fare riferimento (Sez. 1, n. 707 del 13/11/1997 - dep. 21/02/1998, Ingardia, Rv. 209443). Ne deriva che i, riferimento a, precedenti penai, dell'imputato costituisce ragione sufficiente a giustificare, di per sè solo il diniego delle circostanze attenuanti generiche, qualora tali precedenti siano stati considerati dai giudici di merito come indici della capacità a delinquere e, quindi della pericolosità sociale del condannato (Sez. 1, n. 12787 del 05/12/1995 - dep. 29/12/1995, P.G. in proc. Longo ed altri, Rv. 203146).

7. I ricorsi devono essere pertanto rigettati. Segue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti alle spese del procedimento.


P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2015