Cass. Sez. III n. 49439 del 23 dicembre 2009 (Cc.4 nov. 2009)
Pres. Grassi Est. Squassoni Ric. Dafarra
Beni culturali. Restituzione all’avente diritto e onere probatorio

Il possesso di beni di interesse archeologico, appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, si presume illegittimo a meno che il detentore fornisca la dimostrazione di averli legittimamente acquistati in epoca antecedente alla entrata in vigore della L.346/1906. Per quanto concerne l’onus probandi, è vero che, per l’accertamento del reato di impossessamento illecito di beni culturali, valgono le normali regole processuali per cui non deve essere il privato a fornire la prova della legittima provenienza dei beni detenuti. Tale regola è però valida nell’alveo del processo penale e non nel caso di restituzione all'avente diritto all'esito del processo penale, che è disciplinato dalle norme processuali civili alla luce delle quali (ed in particolare del principio sancito dall’art. 2697 cc) va individuato il soggetto che ha diritto alla restituzione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con sentenza, 20 giugno 2007, il Tribunale di Vigevano ha assolto D.M., per carenza dello elemento soggettivo, dai reati di ricettazione ed illecito impossessamento di oggetti di interesse archeologico ordinando la restituzione del materiale in sequestro "a chi proverà di averne diritto".

Indi, con ordinanza 7 luglio 2008, il Tribunale di Vigevano, in sede esecutiva, ha restituito i beni allo Stato ad eccezione di due oggetti ritenuti di legittima proprietà del D..

A sostegno della conclusione, il Giudice ha rilevato come tutti i beni archeologici debbano essere ricondotti al patrimonio indisponibile dello Stato, a sensi dell'art. 826 c.c., prescindendo dalla pretesa assenza di interesse culturale. Il Tribunale ha precisato che costituisce legittimo possesso da parte dei privati solo il ritrovamento o la scoperta dei beni in data anteriore alla vigenza della L. n. 364 del 1909; questa eccezionale circostanza, nel caso in esame, non è stata provata, e neppure allegata, dal richiedente.

Per l'annullamento della ordinanza, D. ha proposto ricorso per Cassazione deducendo difetto di motivazione e violazione di legge, in particolare, rilevando:

- che non è applicabile l'art. 826 c.c. in quanto i beni non sono stati trovati nel sottosuolo o fortuitamente rinvenuti, ma appartengono da generazioni alla sua famiglia ed il loro possesso è legittimo a sensi dell'art. 1153 c.c.;

- che la prova della illecita detenzione del bene incombe sulla pubblica accusa e non sul detentore.

Le censure non sono meritevoli di accoglimento.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il possesso di beni disinteresse archeologico, appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, si presume illegittimo a meno che il detentore fornisca la dimostrazione di averli legittimamente acquistati in epoca antecedente alla entrata in vigore della L. n. 346 del 1906.

Per quanto concerne l'onus probandi, è vero che la più recente giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che ,per l'accertamento del reato di impossessamento illecito di beni culturali, valgono le normali regole processuali per cui non deve essere il privato a fornire la prova della legittima provenienza dei beni detenuti.

Tale regola è valida nell'alveo del processo penale e non nel caso in esame che è disciplinato dalle norme processuali civili alla luce delle quali (ed in particolare del principio sancito dall'art. 2697 c.c.) va individuato il soggetto che ha diritto alla restituzione.

Pertanto D. era gravato dall'onere, non assolto, di provare il fatto fondamentale posto alla base della sua domanda, cioè, il possesso, suo o dei suoi danti causa, anteriore alla L. n. 364 del 1909; nel procedimento di merito, e anche nel presente ricorso, D., per sostenere il suo assunto, fa un riferimento, peraltro generico e non controllabile, a collezioni della sua famiglia risalenti solo agli anni (OMISSIS) e, quindi, di epoca posteriore alla legge ricordata.

Non rileva il riferimento del ricorrente all'art. 1153 c.c. che disciplina il diverso caso della alienazione di cose mobili a non domino, con la esistenza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire il possesso, ma inefficace.

Per le esposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 4 novembre 2009.