Sez. III n. 9012 del 6 maggio 2015
Presidente: Berruti Estensore: De Stefano
Nuove Cave Torino Srl ed altri (Corea U ed altro) contro Ente Gestione Sistema Aree Protette Fascia Fluviale Po Tratto Torinese (Bussa L ed altro)
Danno ambientale.Concorso nello stesso evento

In materia di responsabilità per danno ambientale, la regola di cui all'art. 311, comma 3, penultimo periodo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nel testo modificato, da ultimo, dall'art. 25 della legge 6 agosto 2013, n. 97 - per la quale "nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale" - mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di un'unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, che restino tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola di cui all'art. 2055 cod. civ. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato.

 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. - L'Ente di Gestione del Sistema delle Aree Protette della Fascia Fluviale del Po - Tratto Torinese convenne in giudizio - con citazione notificata fino al 21.2.05 - dinanzi al tribunale di Torino - sez. dist. di Moncalieri la società Nuove Cave Torino srl ed i suoi amministratore unico e direttore dei lavori, P.P. S. e N.P.G., per conseguirne condanna al risarcimento di tutti i danni - patrimoniali, extrapatrimoniali ed ambientali, quantificandoli in Euro 3.497.000 - arrecati, in loc. (OMISSIS), ponendo in essere per diversi anni attività estrattiva in violazione delle autorizzazioni concesse e non avendo essi, conclusisi i procedimenti penali per gli stessi fatti nel 2003 con sentenza di patteggiamento, dato corso alle opere di ripristino loro ingiunti dalla procura della Repubblica.

I convenuti contestarono la domanda, la quale però, espletata consulenza tecnica di ufficio, fu in parte accolta dal tribunale, con sentenza n. 274 del 13.10.09, che condannò i convenuti a pagare Euro 1.535.539,57 (oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulla somma di anno in anno rivalutata dal 30.9.08, data di deposito della c.t.u., al deposito della sentenza ed oltre soli interessi legali dalla sentenza al saldo), corrispondenti ai lavori di riqualificazione ambientale indicati e quantificati nell'ammontare calcolato dal c.t.u., ad esclusione del materiale, in quanto richiesto dal Comune di Carignano in separato giudizio, concluso con coeva sentenza n. 272/09 del medesimo ufficio giudiziario.

I soccombenti interposero appello, che però la corte territoriale respinse con sentenza n. 236, dep. il 17.2.11: per la cui cassazione ricorrono ora la Nuove Cave Torino srl, P.P.S. e N.P.G., affidandosi ad otto motivi; resiste con controricorso l'Ente di Gestione del Sistema delle Aree Protette della Fascia Fluviale del Po -tratto torinese; e, per la pubblica udienza del 17.2.15, entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. - La controversia coinvolge la problematica del danno ambientale, la cui disciplina nazionale è stata di recente ulteriormente modificata e definitivamente armonizzata con quella eurounitaria - o comunitaria od europea - con il recepimento organico dei relativi principi.

In particolare, la materia, originariamente disciplinata dalla L. 8 luglio 1986, n. 349,è stata profondamente innovata dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152; ed ha subito evoluzioni normative sensibili, anche a causa di un duplice avvio a carico della Repubblica italiana, da parte della Commissione dell'Unione Europea, di procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE. 2.1. In estrema sintesi ed in termini assolutamente sommari, basti in questa sede acquisire quale dato fermo:

- che il principio generale, di derivazione eurounitaria, è l'esigenza di porre rimedio alle alterazioni ed ai danni della risorsa "ambiente" esclusivamente mediante il recupero della stessa, in relazione alla sua peculiarità, quale contesto generale di quotidiana estrinsecazione esistenziale di una massa tendenzialmente indeterminata di individui: ciò che orienta quel recupero in direzione non soltanto - e perfino neppure necessariamente - del ripristino della situazione antecedente, ma anche della riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi - generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto - coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse;

- che tale principio generale comporta la riserva allo Stato, quale Ente esponenziale al massimo livello sul territorio, dell'esclusiva potestà di agire, sia in via preventiva che repressiva (o, meglio, recuperatoria), in considerazione appunto della potenziale incommensurabilità del danno e delle difficoltà di determinazione ed esecuzione delle opere per il recupero della risorsa violata;

sicchè il bene ambiente, secondo il concetto peculiare elaborato in materia, può essere tutelato solo dallo Stato, benchè debba restare impregiudicata la legittimazione di titolari di diritti diversi da quello all'integrità ambientale, i quali risultino separatamente danneggiati dall'unica condotta più rioffensiva che ha inciso su quella risorsa, ad agire per il risarcimento di quegli ulteriori danni;

- che, per avvicinare, in via di grande approssimazione, tale soluzione ai principi generali del nostro ordinamento, può sintetizzarsi che è imposta comunque la riparazione in forma specifica e, per di più, attraverso lo strumento di quello che può definirsi un'esecuzione in danno dell'obbligato, da parte del soggetto pubblico e successiva rivalsa nei confronti del danneggiante.

2.2. In questo contesto eurounitario, peraltro, in Italia:

- il suddetto D.Lgs. n. 152 del 2006 ha regolato l'intera materia ambientale (abrogando numerose leggi precedenti) e statuendo - soltanto - la priorità delle misure di "riparazione" rispetto a risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell'assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa "ambiente";

- il successivo D.L. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con modif.

dalla L. 20 novembre 2009, n. 166, ha poi, con il suo L. n. 166 del 2009, art. 5 bis - per neutralizzare la prima contestazione della UE del 2008 - precisato (con normativa applicabile anche ai giudizi in corso in luogo della previgente L. n. 349 del 1986, art. 18 salva la sola formazione del giudicato) che il danno all'ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione "primaria", "complementare" e "compensativa" previste dalla Direttiva 2004/35/CE: prevedendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all'ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, impossibili o eccessivamente onerose o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte;

- e tuttavia l'art. 25 della c.d. Legge Europea 2013 (L. 6 agosto 2013, n. 97) - per neutralizzare l'ulteriore contestazione della Commissione europea del 2012 - ha ulteriormente risistemato la materia, definitivamente eliminando ogni riferimento al risarcimento "per equivalente patrimoniale" e stabilendo che il danno all'ambiente deve essere risarcito solo con le "misure di riparazione" previste d'all. 3 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (che è identico all'Allegato 2 della Direttiva 2004/35/CE);

- sicchè, ad oggi e con disposizione applicabile anche ai processi in corso, il danno ambientale non può in nessun caso essere risarcito "per equivalente" pecuniario, ma solo con le misure di riparazione e con i criteri enunciati negli all. 3 e 4 al D.Lgs. n. 152 del 2006, come modificato;

- e, tuttavia, lo stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311 come da ultimo modificato, prevede al comma 3 che, sia pure solo quando l'adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.

2.3. Questa Corte, ma - significativamente - in tempo anteriore all'ultima novella del 2013, ha già avuto modo di statuire che la domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. 20 novembre 2009, n. 166 è assoggettata, in ordine alla liquidazione del danno, ai criteri specifici risultanti dal nuovo testo del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, commi 2 e 3, come modificato dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5-bis, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella citata L. n. 166 del 2009, individuandosi tali criteri direttamente nelle previsioni dei punti 1, 2 e 3, dell'All. 2 alla Direttiva 2004/35/CE e, solo eventualmente, ove sia stato nelle more emanato, in quelle contenute nel D.M. previsto nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, comma 3, ultimo periodo citato (Cass. 22 marzo 2011, n. 6551; sul punto confermata da Cass. 27 agosto 2014, n. 18352; solo in parte - relativamente cioè ai criteri di imputazione della responsabilità, ma non pure a quelli di liquidazione del danno - difforme risultando Cass. 7 marzo 2013, n. 5705).

Deve ora prendersi atto dell'ulteriore innovazione legislativa, applicabile, per espressa previsione normativa, anche ai giudizi in corso; infatti, ai sensi dell'art. 311, comma 3, terz'ultimo periodo, come modificato dall'ultimo intervento legislativo, i criteri e metodi appena codificati - cioè pure di valutazione monetaria per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa - trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo precedente.

Secondo tale ultima novella:

- ai sensi del comma 2 dell'art. 311, vanno determinati i costi delle attività necessarie a conseguire la corretta e completa attuazione delle misure di riparazione di cui all'all. 3 alla parte 6 del D.Lgs. n. 152 del 2006, quando il danno sia stato cagionato da operatori le cui attività sono elencate nell'all. 5 alla medesima parte 6; e, solo per il caso in cui l'adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, vanno determinati i costi delle attività necessari e a conseguirne la completa e corretta attuazione e si agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti;

- ai sensi del comma 3 del medesimo art. 311, poi, vanno individuate le misure di riparazione da adottare con provvedimento relativo al caso di specie, mentre con decreto ministeriale vanno stabiliti (in conformità a quanto previsto dall'all. 3, punto 1.2.3, alla medesima parte 6 del D.Lgs. n. 152 del 2006) i criteri per la determinazione delle misure di riparazione complementare e compensativa e per la loro valutazione monetaria.

2.4. La nuova disciplina va poi combinata al principio generale dell'art. 5 cod. proc. civ. in materia di perpetuatio iurisdictionis e quindi alla persistenza della giurisdizione del giudice ordinario civile, sicchè sarà quest'ultimo, investito della domanda di risarcimento per equivalente del danno ambientale, ad applicare, per provvedere sulla stessa, quei criteri e metodi e ad individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, a determinare il costo delle medesime da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.

In applicazione di principi altrettanto generali di diritto processuale, analogamente proseguono i giudizi iniziati in epoca anteriore alla prima di dette novelle legislative - e quindi prima del D.Lgs. n. 152 del 2006 - da soggetti diversi da quello in capo al quale è ora riconosciuta in via esclusiva la legittimazione: e correttamente saranno esaminate e decise le loro domande, ove gli originari attori vi insistano, ma all'indispensabile condizione dell'armonizzazione di quelle e delle eventuali condanne coi principi suddetti, in modo che quegli attori non conseguano risultati ormai vietati dal mutato assetto ordina mentale.

3. - Tutto ciò posto, giovano alcune puntualizzazioni preliminari.

3.1. Va ricordata la necessità che, per consentire a questa Corte di legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, nel ricorso si rinvengano sia l'indicazione della sede processuale di produzione dei documenti o di adduzione delle tesi, sia la trascrizione dei primi e dei passaggi argomentativi sulle seconde (tra le innumerevoli, v.: Cass., ord. 16 marzo 2012, n. 4220;

Cass. 1 febbraio 1995, n. 1161; Cass. 12 giugno 2002, n. 8388; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15751; Cass. 24 marzo 2006, n. 6679; Cass. 17 maggio 2006, n. 11501; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984; Cass., ord. 30 luglio 2010, n. 17915, resa anche ai sensi dell'art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; tra le più recenti, per limitarsi ad alcune: Cass. 11 febbraio 2014, nn. 3018, 3026 e 3038; Cass. 7 febbraio 2014, nn. 2823 e 2865 e ord. n. 2793; Cass. 6 febbraio 2014, n. 2712, anche per gli errores in procedendo; Cass. 5 febbraio 2014, n. 2608; 3 febbraio 2014, nn. 2274 e 2276; Cass. 30 gennaio 2014, n. 2072); del resto, neppure la giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. 22 maggio 2012, n. 8077) muove in direzione opposta, lasciando ampio spazio alla riaffermazione - del resto e come visto, effettivamente operata - del principio nella sua tradizionale accezione, del quale il nuovo art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), costituisce la codificazione (per tutte, v. ad es. Cass., ord. 25 marzo 2013, n. 7455): quella pronuncia a Sezioni Unite riferendosi ai diverso vizio di nullità del procedimento (o della sentenza) ed esigendo pur sempre che la doglianza sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole del codice di rito (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

3.2. - Ancora, il ricorrente che proponga in sede di legittimità una determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di fatto, ha l'onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (per l'ipotesi di questione non esaminata dal giudice del merito: Cass. 2 aprile 2004, n. 6542; Cass. 10 maggio 2005, n. 9765; Cass. 12 luglio 2005, n. 14599; Cass. 11 gennaio 2006, n. 230; Cass. 20 ottobre 2006, n. 22540; Cass. 27 maggio 2010, n. 12992; Cass. 25 maggio 2011, n. 11471; Cass. 11 maggio 2012, n. 7295;
Cass. 5 giugno 2012, n. 8992; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1435).

3.3. Ancora, va dato atto della mancata impugnazione, nella presente specifica sede, dell'affermazione della sussistenza della legittimazione dell'Ente di Gestione del Sistema delle aree protette della fascia fluviale del Po - tratto torinese.

Vanno ora esaminati partitamente i motivi di doglianza dei ricorrenti.

4.- I ricorrenti si dolgono, col primo motivo, di "violazione e falsa applicazione della L. n. 349 del 1986, art. 18 e dell'art. 2043 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Insufficiente motivazione della sentenza su fatti controversi e decisivi per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5".

4.1. In particolare, essi addebitano alla gravata sentenza di essersi basata esclusivamente, per affermare la loro responsabilità, sulla sentenza di patteggiamento, anzichè procedere ad autonomi accertamenti in punto di sussistenza di danno all'ambiente, di condotta antigiuridica da parte di ognuno dei convenuti, di commissione del fatto con dolo o colpa e di nesso di causalità fra condotta illecita e danno. E negano rilevanza al richiamo, quali elementi ulteriori, alla consulenza redatta per il pubblico ministero od alla documentazione a firma del legale rappresentante della società, riguardante i mai attuati lavori di ripristino, stigmatizzandone l'assoluta genericità.

4.2. Il contro ricorrente, oltre ad eccepire l'inammissibilità del motivo perchè non sarebbero specificati i fatti controversi e decisivi per il giudizio, rimarca la valenza di elemento di prova anche in via esclusiva riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità alla sentenza di c.d. patteggiamento, conclusione da applicarsi con maggiore tranquillità alla fattispecie, perchè seguita all'esito dell'intero percorso dibattimentale, nel cui corso erano state acquisite prove documentali e testimoniali ed espletata una consulenza tecnica di ufficio, nel pieno contraddittorio pure delle odierne parti; e ricorda gli elementi probatori ivi raccolti, pienamente utilizzabili anche nel presente diverso giudizio civile, a comprova delle numerose e reiterate attività illecite ed abusive poste in essere dalle controparti.

4.3. Il motivo è infondato.

E' ben vero che la sentenza di patteggiamento è generalmente intesa dai processualcivilisti come priva dell'efficacia diretta, nel processo civile, propria di una sentenza di condanna (disciplinata dall'art. 651 cod. proc. pen.).

Ciononostante, anche in quest'ambito la sentenza di patteggiamento comunque assurge al rango di importante elemento di prova (sia pur non esclusivo o decisivo ex se: Cass. 27 settembre 2013, n. 22213;

Cass. 19 gennaio 2011, n. 1141), sull'esclusione della cui rilevanza il giudice civile deve pur sempre motivare espressamente (Cass., ord. 6 dicembre 2011, n. 26263, con principio affermato ai sensi dell'art. 360-bis cod. proc. civ., n. 1 - seguita già da Cass. 18 aprile 2013, n. 9456 - o Cass. 7 novembre 2011, n. 23025; v. pure Cass. 31 ottobre 2014, n. 23158).

Può tralasciarsi il profilo di ammissione di responsabilità insita nella stessa richiesta di patteggiamento, conclusione dalla quale sembra meno remota oggi la giurisprudenza penale di questa Corte regolatrice (tra le numerose più recenti: Cass. sez. 2 pen., 5-10 giugno 2014, n. 24308; Cass. sez. 2 pen., 13 - 26 maggio 2014, n. 21231; Cass. sez. 2 pen., 14 febbraio - 2 marzo 2014, n. 10090; via via fino alle più remote: Cass. sez. 5 pen., 20 - 29 settembre 1999, n. 4117; Cass. sez. 1 pen., 3 novembre 1995, IMuIH; Cass. sez. 3 pen., 26 giugno 1995, Donazzolo; Cass. sez. 1 pen., 13 maggio 1994, Dellegrottaglie), ma praticamente raggiunta - con espressioni marcate nella materia disciplinare e forti di una specifica previsione normativa, ma in base a principi di portata così generale da assurgere a fondamento di una generalizzazione della conclusione - dalla giurisprudenza civile di questa Corte, sia pure senza alcun automatismo (in quanto sempre liberamente apprezzabile dal giudice civile: Cass. 6 dicembre 2011, n. 26520) e se non altro per implicito (Cass. Sez. Un., 20 settembre 2013, n. 21591; Cass. Sez. Un., 31 luglio 2006, n. 17289) o fino a prova contraria (Cass. 3 dicembre 2013, n. 27071; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass., ord. 12 febbraio 2011, n. 3560).

Infatti, nella specie il giudice di appello ha fatto riferimento non alla sola sentenza di patteggiamento, ma pure ad alcuni specifici atti del procedimento penale, tra cui la consulenza redatta per il pubblico ministero ed i documenti a firma del legale rappresentante della società in ordine ai "mai attuati interventi di ripristino": e tali riferimenti, operati a materiale istruttorio ritualmente acquisito agli atti di causa e nel rispetto del contraddittorio, sono pienamente idonei a porre i condannati in grado di confutarli analiticamente, non essendo pretesa dal giudice la specifica indicazione di ognuno degli elementi istruttori presi in considerazione.

5. - Ancora, i ricorrenti, col secondo motivo, lamentano "violazione e falsa applicazione il L. n. 349 del 1986 e dell'art. 2043 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Insufficiente motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il giudizio e specificamente col riguardo alla parte in cui la medesima pronuncia ha stabilito la condanna degli appellanti (attuali ricorrenti) al risarcimento in solido per l'intero danno ambientale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5".

5.1. In particolare, essi contestano il carattere solidale della condanna pronunziata nei loro confronti e la mancanza di un previo accertamento delle precise e singole responsabilità e colpe individuali, in violazione della L. n. 349 del 1986, art. 18 e del principio da esso introdotto, di deroga alla regola generale dell'art. 2055 cod. civ.; e censurano la conclusione dei giudici di merito sulla non separabilità delle responsabilità dei convenuti e sulla cooperazione di tutti nella determinazione della totalità del danno, per rimarcare l'esclusiva ascrivibilità di quello alla società, anzichè al suo amministratore unico ed al direttore dei lavori, oltretutto incaricati di funzioni diverse, il cui peculiare apporto causale avrebbe dovuto essere specificamente e separatamente valutato.

5.2. Il controricorrente eccepisce l'inammissibilità del tentativo di rivalutare i fatti, che il mezzo di censura comporterebbe; ma nega comunque la sussistenza della solidarietà ed evidenzia la già accertata responsabilità di tutti i convenuti per gli illeciti loro ascritti, nonchè la correttezza della riconduzione della responsabilità delle singole persone fisiche al ruolo da esse svolto nell'attività della società; e circoscrive la portata della L. n. 349 del 1986, art. 18 al piano dell'individuazione dei soggetti tenuti al risarcimento (in particolare, escludendosi ipotesi di responsabilità oggettiva), ma non anche su quello della quantificazione del risarcimento dovuto dai singoli soggetti individuati come responsabili.

5.3. Il motivo è infondato.

E' ben vero che "nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale" (principio posto dalla L. n. 349 del 1986, art. 18 e poi ribadito dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, comma 3, penultimo periodo, anche nel testo modificato - da ultimo - dalla L. 6 agosto 2013, n. 97, art. 25).

Tuttavia, la conseguente esclusione dell'operatività dell'art. 2055 cod. civ. deve avvenire con cautela, quello integrando un principio generale in tema di responsabilità extracontrattuale e rispondendo ad esigenze di tutela immediata ed effettiva del danneggiato.

E' indubbio che tale esclusione di operatività mira ad evitare il rischio di una sorta di responsabilità oggettiva o per fatto altrui ed in particolare quello di ascrivere ad ogni compartecipe anche per un modesto segmento di una delle condotte sfociate in un danno ambientale complessivo la responsabilità per l'ingentissimo danno che ne è derivato, anche quanto alle specifiche conseguenze non prevedibili o perfino non controllabili perchè da ascriversi alla condotta indipendente di altri: si pensi al caso di danneggiamenti ambientali di contesti complessi, determinati da condotte tra loro del tutto indipendenti (come, ad esempio, l'inquinamento di un corso d'acqua da parte di diversi imprenditori trasgressori), nei quali è parso opportuno che il risultato complessivo finale non fosse ripagato per intero secondo la casualità del soggetto economicamente solvibile.

Se questa è la ratio della norma di limitazione della responsabilità, essa non può operare pure nei casi di condotta unitaria, risultante dalla combinazione, quale indispensabili antefatti causali tra loro avvinti da inscindibili e reciproci nessi di consequenzialità, delle azioni colpose o dolose concorrenti di più persone: alle quali ultime sia quella complessiva condotta che quell'unitario danno allora andranno altrettanto unitariamente ascritti, in persistente applicazione - o, se si vuole, in non limitata applicazione o non estesa esclusione - della regola generale.

E la limitazione di responsabilità in esame va allora circoscritta ai casi in cui le condotte causative dell'unitario evento di danno siano differenti e tra loro indipendenti; a contrario, ove l'unitario evento di danno sia causato non da una pluralità di condotte autonome od indipendenti, ma da una altrettanto unitaria condotta colposa o dolosa, però indissolubilmente ascrivibile a più soggetti tra loro indifferenziatamente e quindi a condotte concorrenti in senso stretto, può riprendere applicazione - o non soffrire la limitazione speciale suddetta - la regola generale dell'art. 2055 cod. civ., che pone appunto in via generalissima i criteri di imputazione degli effetti di una condotta complessiva ed inscindibile nelle componenti delle azioni od omissioni di più soggetti.

E tanto avviene nella specie, in cui l'attività estrattiva illegittima, protratta nel tempo, è da ascriversi appunto alla società, quale centro di imputazione della volontà di procedere a quelle attività, a chi - quale legale rappresentante - in essa ne ha determinato e concretato le scelte e a chi, ponendo in essere i lavori, ha materialmente reso possibile gli episodi di depredazione della sponda del Po in cui l'illiceità dell'attività estrattiva si è concretata.

Infatti, con apprezzamento di fatto immune da vizi logici e giuridici la corte territoriale ha accertato che, nella causazione dell'unico evento di danno, consistente nel danno ambientale da attività estrattiva eccedente i limiti dell'autorizzazione in loc. (OMISSIS), il concorso causale di ciascuno - società, suo legale rappresentante e direttore dei lavori in cui materialmente si sono estrinsecate le attività di estrazione - è stato di per sè idoneo a cagionare per l'intero il danno, avendo tutti i soggetti operato per l'intero periodo in cui l'attività, pur se riferibile in ultima analisi alla società di cui il P. era legale rappresentante ed il N. direttore dei lavori, è stata posta in essere in dipendenza delle attività gestionali o materiali dell'uno e dell'altro.

E' stata fatta, quindi, corretta applicazione del seguente principio di diritto: in materia di responsabilità per danno ambientale, la regola (prevista dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, comma 3, penultimo periodo nel testo modificato - da ultimo - dalla L. 6 agosto 2013, n. 97, art. 25) per la quale "nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale", mirando ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in caso di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di una unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, quando siano tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa: con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, non soffre imitazione la regola generale dell'art. 2055 cod. civ. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero danno causato.

6. - Inoltre, i ricorrenti, col terzo motivo, adducono "violazione e falsa applicazione dell'art. 2943 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Nullità della sentenza e del procedimento per infrazione degli artt. 112, 167 e 345 c.p.c. ed in ragione del disposto di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4".

6.1. In particolare, essi negano potesse qualificarsi nuova l'eccezione di prescrizione: invero, posto che - comunque - il convenuto che eccepisca la prescrizione può limitarsi ad addurre il decorso del tempo, in primo grado essi avevano dedotto che, nei cinque anni precedenti l'inizio della causa, non vi erano state ulteriori attività illecite; sicchè, reputata dal primo giudice interrotta la prescrizione con la costituzione di parte civile nel processo penale, le ulteriori argomentazioni svolte in appello - in sostanza, la mancata valutazione della maggiore ampiezza dei danni reclamati in sede civile rispetto a quanto oggetto del procedimento penale - erano la contestazione degli argomenti addotti per respingere l'eccezione e non una nuova eccezione.

6.2. Il controricorrente contesta l'autosufficienza, sul punto, del ricorso, non risultando da esso in base a quali elementi sostenere la difformità dell'oggetto del presente giudizio civile rispetto a quello del procedimento penale sui medesimi fatti; sul punto, rimarca comunque invece sussistere la piena prova della coincidenza dei due oggetti; eccepisce l'inammissibilità della sollecitazione di un nuovo accertamento e valutazione dei fatti di causa; ricorda che nessuna reazione controparti ebbero alla controeccezione di interruzione della prescrizione, sicchè sarebbe evidente la novità di tali nuovi argomenti, che introducevano un nuovo thema decidendum, inammissibile in appello.

6.3. Effettivamente è fondata l'eccezione di difetto di autosufficienza del ricorso sul punto: non risulta, dal tenore testuale del ricorso, la lamentata diversità dell'ambito o dell'oggetto del procedimento penale rispetto a quello civile, mancando in esso la trascrizione degli atti di parte o di causa - con la precisa indicazione della sede processuale di produzione - da cui desumere tale diversità: pertanto, non essendo stato rispettato il principio ricordato sopra al par. 3.1, il motivo è inammissibile, anche a prescindere da quanto si verrà a specificare in ordine al motivo successivo.

7. - Successivamente i ricorrenti, col quarto motivo, deducono "violazione e falsa applicazione dell'art. 2943 c.c.. Insufficiente motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il giudizio e specificamente col riguardo alla parte in cui la medesima pronuncia ha riconosciuto l'esistenza di danni verificatisi in epoca antecedente alla scadenza del termine prescrizionale, come tali da escludere dal computo del danno riconosciuto all'Ente di Gestione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5".

7.1. In particolare, i ricorrenti contestano la loro condanna al risarcimento anche dei danni verificatisi antecedentemente alla scadenza del termine prescrizionale, individuando come dies a quo la data di notificazione della citazione in primo grado o, al più tardi, di costituzione di parte civile; censurano la gravata sentenza per avere qualificato non meglio spiegate le asserzioni di essi convenuti sulla maturata prescrizione per i danni di alcuni degli illeciti, perchè commessi prima del o a partire dal 1994; e concludono per l'illegittimità nel computo dei danni de valore dei lavori necessari al ripristino dei materiali asportati nel periodo antecedente alla scadenza del termine prescrizionale 7.2. Il controricorrente si duole della novità, in questa sede, di tale argomento - e della questione sulla natura permanente o istantanea dell'illecito - e comunque ricorda come la sentenza di primo grado avesse ritenuto la condotta illecita non esaurita in una serie di singoli atti autonomamente valutabili; eccepisce il difetto di autosufficienza del ricorso al riguardo, del resto neppure individuando quali sarebbero gli illeciti prescritti e quali quelli non prescritti; insiste per l'avvenuta interruzione del termine prescrizionale in dipendenza della costituzione di parte civile nel giudizio penale, avutasi il 9.4.01; ricorda poi come la prescrizione, negli illeciti permanenti, cessi con la cessazione delle condotte illecite, le quali, nella specie, sono state protratte ed unitarie; nega, di conseguenza, la lamentata insufficienza, sul punto, della motivazione.

7.3. In disparte i dubbi sulla novità della doglianza in questa sede (ciò che comporterebbe l'inammissibilità in applicazione dei principi ricordati sopra al par. 3.2), può rilevarsi che il motivo è comunque infondato: trattandosi di illecito evidentemente permanente, attesa la persistenza nel tempo della condotta - liberamente adottata ma sempre reversibile, con spontanea tempestiva ottemperanza anche alle ingiunzioni via via impartite - di mantenimento del sito ambientale in condizioni di depredazione o diminuzione, la prescrizione avrebbe iniziato a decorrere soltanto da quando la situazione illegittima, consistente nell'addotta alterazione dello stato dei luoghi, fosse stata rimossa (per un caso almeno in parte analogo, v. Cass. 30 gennaio 1990, n. 594, oppure Cass. 11 marzo 1980, n. 1624), oppure da quando fosse divenuta impossibile per i soggetti danneggianti, ove avessero perso la libera disponibilità del bene e, quindi, la possibilità di liberamente determinarsi in ordine allo stesso (Cass. 23 dicembre 2011, n. 28652); ma in alcun modo risulta che gli attuali ricorrenti abbiano fatto valere l'una o l'altra circostanza, uniche a fondare lo stesso inizio del decorso della prescrizione.

Il motivo va quindi rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto: in materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento e pertanto il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento non inizia a decorrere se non da quando tali condizioni sono state volontariamente eliminate dal danneggiante o tale condotta è stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte del danneggiante medesimo.

8. - A questo punto, i ricorrenti, col quinto motivo, sostengono "violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 303, lett. f) e del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, commi 2 e 3, nonchè dei principi dell'applicabilità dello ius superveniens e dello iura novit curia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Nullità della sentenza e del procedimento per infrazione degli artt. 112, 167 e 345 c.p.c. ed in ragione del disposto di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4".

8.1. In particolare, i ricorrenti contestano la mancata applicazione anche ai giudizi in corso, nonostante l'espressa previsione della necessità di quella (di cui al D.L. n. 135 del 2009, art. 5 bis conv. con mod. in L. n. 166 del 2009), delle sopravvenute norme del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 303 e 311 in materia di ambiente, che hanno radicalmente riscritto i criteri di determinazione del risarcimento, soprattutto in forma specifica; e negano rilevanza al fatto di avere introdotto un tale tema di discussione solo in comparsa conclusionale, attese le ampie modalità di rilievo dello ius superveniens; sottolineano la centralità del ripristino ambientale, di cui finanche escludono l'impossibilità o l'eccessiva onerosità, confinando il risarcimento per equivalente in via equitativa al rango di extrema ratio, oltretutto ancorato al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti ed ai parametri usati in casi simili o in materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario; il tutto a fondamento della reiterata istanza di rinnovazione della consulenza tecnica di ufficio.

8.2. Il contro ricorrente, dal canto suo, rimarca la novità in grado di appello delle questioni indotte dalla normativa già da tempo promulgata, nonchè la genericità della doglianza, che non si fa carico della specificazione dei parametri di quantificazione;

sottolinea la correttezza del criterio dei costi della riqualificazione ambientale; eccepisce il difetto di autosufficienza e la non specificità dei motivi di impugnazione; nega un diritto dei danneggiane di riparare in forma specifica il danno, visto che fino ad ora non avevano adempiuto il correlativo dovere, ciò che comporta la legittimità della condanna al risarcimento per equivalente.

8.3. Il motivo è fondato, sia pure per quanto di ragione e per di più in applicazione anche ufficiosa della normativa sopravvenuta ricostruita sopra al par. 2.

Già può dirsi che la qui gravata sentenza erra senz'altro nel non applicare la normativa sopravvenuta anche soltanto al momento in cui essa è stata resa, cioè la novella del 2009, pure applicabile - benchè sopravvenuta - in forza di specifica disposizione alla specie; e tanto basterebbe di per sè a condurre alla cassazione, sul punto, della pronunzia stessa.

Ma non può essere dubbio che, nonostante le parti abbiano del tutto ignorato tali ulteriori sviluppi, incomba a questa Corte l'applicazione della novella anche al di là di quanto sul punto abbiano dedotto le parti, che non pare abbiano preso in considerazione le complesse vicende legislative anche successive al 2009: da un Iato, perchè la norma è chiara nell'imporre quell'applicazione dei nuovi criteri risarcitori anche ai giudizi in corso, dall'altro, perchè solo in tal modo si eviterebbe la responsabilità dello Stato, membro dell'Unione ed unitariamente considerato e quindi anche quale Stato in persona dei suoi giudici di ultima istanza (per tutte, Corte Giust. CE 30 settembre 2003, in C- 224/01, Kobler, ovvero 13 giugno 2006, in C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; per la giurisprudenza di questa Corte v. pure, tra le ultime, Cass., ord. 29 gennaio 2015, n. 1575, ove altri riferimenti), per la violazione concreta della disciplina comunitaria - o, ora, eurounitaria - recata da un acte claire, quale certamente deve qualificarsi la normativa in materia ambientale, alla stregua della duplice procedura di infrazione avviata nei confronti della Repubblica italiana proprio per la mancata applicazione di quei principi generalissimi, tra cui quelli in tema di esclusione del risarcimento per equivalente.

8.4. Pertanto, la gravata sentenza deve essere cassata e rinviata alla stessa corte territoriale, affinchè essa operi - ormai in base all'ulteriormente sopravvenuta normativa del 2013 (e salvi beninteso ulteriori sviluppi, ove fossero anch'essi definiti applicabili ai giudizi pendenti) - quelle previe valutazioni in fatto sull'individuazione delle misure di riparazione complementare e compensativa e sulla valutazione monetaria delle medesime, curando che le valutazioni della consulenza tecnica di ufficio già a suo tempo espletata, in conformità peraltro a disciplina superata dall'evoluzione normativa, contemplino espressamente gli effetti dell'applicazione delle nuove disposizioni. E tanto in applicazione del seguente principio di diritto: il giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. 6 agosto 2013, n. 97, essendo ormai esclusa la liquidazione per equivalente di quello, può ancora conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311 come modificato prima dal D.L. n. 135 del 2009, art. 5-bis, comma 1, lett. b), cit. e poi dalla L. n. 97 del 2013, art. 25 cit., individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.

9. - Coi due successivi motivi i ricorrenti si dolgono della quantificazione del valore del materiale asportato.

9.1. In particolare:

- col sesto motivo, stigmatizzano una "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: e specificamente con riguardo alla parte in cui la medesima pronuncia ha provveduto alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei lavori necessari al ripristino dei luoghi con riguardo ai materiali asportati oltre il limite di profondità di metri 30"; al riguardo, contestano l'interpretazione prescelta dai giudici del merito - nonostante la prospettazione di un'alternativa da parte dello stesso c.t.u. - delle prescrizioni amministrative, sulla profondità degli scavi da ritenere illegittimi e quindi sul volume del materiale ritenuto illegittimamente asportato;

- col settimo motivo, denunziano una "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto decisivo e controverso per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; e specificatamente con riguardo alla parte in cui la medesima ha provveduto alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei lavori necessari al ripristino dei luoghi con riguardo ai materiali asportati oltre la c.d. fascia di 150 metri dalla sponda del fiume Po"; al riguardo, contestando i punti di partenza e le metodologie di calcolo adoperate dal c.t.u., in quanto affette da un sensibile margine di errore, puntualmente evidenziato dal loro c.t.p., nonchè dalla mancata considerazione dei danni della sopravvenuta alluvione dell'ottobre 2000 e dei lavori di ripristino già quasi del tutto ultimati fino a quel momento;

9.2. Da canto suo, il controricorrente eccepisce preliminarmente l'inconferenza dei rilievi rispetto all'oggetto della controversia, visto che la condanna si è riferita soltanto ai costi di riqualificazione, esclusi quelli di riempimento e ritombamento; ma ne rileva pure l'inammissibilità, perchè involgenti contestazioni di fatto e contrari alle risultanze di una completa, accurata ed esaustiva consulenza di ufficio; contesta la sussistenza di prova del fatto che le profondità superiori ai trenta metri dal piano di campagna si riferissero ad escavazioni precedenti agli atti autorizzativi del 1994 o ad aree coperte da precedenti atti autorizzativi; condivide le motivazioni della corte pure in punto di individuazione della linea di sponda quale punto di partenza della distanza di 150 metri per valutare la legittimità dell'attività estrattiva.

9.3. I motivi sono inammissibili: in violazione dei principi ricordati sopra al par. 3.1, non è in ricorso analiticamente riportato ogni atto dei gradi di merito da cui ricavare che i danni il cui risarcimento è l'oggetto della condanna siano riconducibili ai costi di ripristino diversi dal valore del materiale asportato.

E tanto a prescindere dal fatto che la valutazione del danno, ai fini della determinazione del suo risarcimento per equivalente, andrà comunque nuovamente effettuata dalla corte territoriale, ove abbia in concreto accertata la sussistenza dei presupposti specifici di quest'ultimo, alla stregua dei criteri indicati dall'art. 311 del codice dell'ambiente, nel testo oggi vigente.

10. - Infine, i ricorrenti, con l'ottavo ed ultimo motivo, si dolgono di "violazione e falsa applicazione della L. n. 449 del 1986, art. 18 con riferimento ai risarcimento del danno ambientale ed in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3".

10.1. In particolare, essi - pur ribadendo quanto argomentato con il quinto motivo e cioè la prevalenza della normativa sopravvenuta - contestano l'applicazione pure in concreto operata dei criteri di cui alla L. n. 349 del 1986, art. 18 per la controvertibilità della determinazione della quantità e del valore del materiale illegittimamente asportato e non ripristinato (anche per l'impossibilità di corretta individuazione dell'utile di impresa e del costo di estrazione, che il c.t.u. non era riuscito a quantificare): ed invocando la rinnovazione della consulenza o anche solo della valutazione, visto che, applicando correttamente il criterio equitativo e per di più tenendo in adeguato conto la tenuità della colpa della società (resa evidente dall'acquisizione di un parere pro ventate a sostegno della bontà delle tesi interpretative delle autorizzazioni poi applicate), certamente si sarebbe pervenuti ad un totale inferiore.

10.2. Il controricorrente eccepisce la novità della questione In questa sede e l'inammissibilità della rivalutazione del fatto che essa coinvolge, come pure l'inconferenza della doglianza rispetto all'oggetto della controversia, che non si estende al costo del materiale asportato; ma si diffonde poi sull'irrilevanza del profitto di impresa ai fini di riduzione del risarcimento, nonchè sull'evidenza della colpa, per l'insostenibilità delle tesi applicate da controparte, come stigmatizzato da una nota della competente Regione e dal Consiglio di Stato.

10.3. Il motivo è inammissibile: in violazione dei principi ricordati sopra ai par. 3.1 e 3.2, i ricorrenti non indicano analiticamente in ricorso, nè tanto meno li trascrivono, le sedi processuali in cui avrebbero sottoposto specificamente le questioni relative ai giudici del merito. Pertanto, è impossibile per questa corte valutare il merito della doglianza, anche nell'impossibilità di escluderne la novità in questa sede.

11. - In definitiva, accolto il quinto motivo di ricorso e dichiarati inammissibili (il terzo, il sesto, il settimo e l'ottavo) o rigettati (il primo, il secondo e il quarto) gli altri, la gravata sentenza va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio alla medesima corte territoriale, in diversa composizione e pure per le spese del giudizio di legittimità, affinchè proceda - definitivamente accertata la responsabilità dei convenuti - ad adeguare l'eventuale condanna risarcitoria al principio di diritto espresso sopra, al par.


P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, dichiarati inammissibili o rigettati gli altri; cassa la gravata condanna in relazione alle censure accolte e rinvia alla corte di appello di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte suprema di cassazione, il 17 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2015