La legge 22 maggio 2015 n. 68 e l’istituto della prescrizione applicato ai reati ambientali.

di Vincenzo PAONE

Relazione tenuta alla Scuola Superiore della Magistratura nellincontro di studio sul tema "L’accertamento della responsabilità penale nei reati ambientali ed urbanistici" Scandicci, Villa di Castelpulci, 10-12 aprile 2017

1. Il campo di applicazione in relazione alla tipologia delle contravvenzioni.

La legge 22 maggio 2015 n. 68, Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente, mediante l’inserimento nel d.leg. n. 152/06 della parte sesta-bis intitolata « Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale », ha introdotto un meccanismo di estinzione delle contravvenzioni ambientali utilizzando l’identico modulo procedurale previsto dal d.leg. 19 dicembre 1994 n. 758, relativo alla sicurezza ed igiene sul lavoro.

Non mancano le notevoli criticità nella nuova disciplina ( 1 ): la prima si annida nell’articolo di esordio, e cioè il 318-bis, secondo cui «Le disposizioni della presente parte si applicano alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste dal presente decreto che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette».

I problemi sono due: il primo riguarda il campo di applicazione della legge e in particolare la tipologia dei reati ammessi alla procedura estintiva; il secondo riguarda la portata del concetto di «danno o pericolo concreto e attuale di danno» che funge da ostacolo alla prescrizione.

Orbene, poiché il procedimento si conclude con l’ammissione del contravventore al pagamento di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa, ci si deve chiedere se l’istituto si applichi, oltre che alle contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con la pena dell’ammenda alternativa all’arresto, anche alle contravvenzioni punite con la pena pecuniaria congiunta a quella detentiva.

A favore della tesi estensiva è spendibile un argomento fortemente suggestivo: la norma non dice nulla esplicitamente e quindi tale silenzio ben può essere inteso come volontà di allargare il campo applicativo dell’istituto anche ai reati puniti con la pena congiunta sul presupposto che l’unico requisito richiesto sia la presenza della pena pecuniaria.

Ma il silenzio della legge è una circostanza «neutra» e perciò per ritenere che la volontà del legislatore fosse proprio nel senso suindicato, è necessario verificare l’esistenza di indici significativi che corroborino o meno questa opzione interpretativa.

Cominciamo dall’art. 318-septies, 3° comma, che prevede la facoltà per l’autore del reato, in caso di adempimento in un tempo superiore a quello indicato dalla prescrizione, ma congruo, oppure in caso di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione con modalità diverse da quelle indicate dall'organo di vigilanza, di essere ammesso all’oblazione di cui all’art. 162 bis c.p. applicabile, come è noto, alle sole contravvenzioni punite con l’ammenda alternativa all’arresto.

Così disponendo, in analogia alla disciplina del d.leg. n. 758/94, la l. n. 68/15 ha congegnato un meccanismo che ha una sua coerenza interna perché lo stesso tipo di contravvenzione è estinguibile mediante versamento di una somma di denaro nell’ambito della procedura pre-giudiziaria o in sede giudiziaria (salvo, come diremo oltre, il limite della condizione soggettiva per i recidivi reiterati). Appare dunque poco logico pensare che un reato punibile con la pena congiunta possa estinguersi mediante l’ammissione al pagamento in forma ridotta (ex art. 318-septies, 1° comma), ma non mediante l’oblazione speciale di cui all’art. 162 bis c.p.

Inoltre, è altrettanto illogico prevedere l’ammissione alla procedura di cui alla l. n. 68/15 per gli autori delle contravvenzioni più gravi, quelle cioè sanzionate con l’arresto e l’ammenda, a scapito di quelle punite con il solo arresto, e quindi formalmente meno gravi, che non hanno accesso né alla nuova procedura né all’oblazione speciale.

Infine, la tesi, che vede nel silenzio della norma una precisa scelta del legislatore, si scontra, irrimediabilmente, con il «vuoto» totale che sul punto si ricava dai lavori preparatori. Basta scorrere gli atti parlamentari per vedere che del problema di cui stiamo parlando il legislatore non ne fosse minimamente avvertito: il dibattito, infatti, si è sempre concentrato sulla parte della nuova legge dedicata ai delitti inseriti nel codice penale e pochissimi sono stati i contributi concernenti la parte relativa alle prescrizioni. Peraltro, non risulta che sia mai stata compiuta una ricognizione delle sanzioni previste dal d.leg. n. 152/06 in modo da avere una base razionale per discutere consapevolmente sulla questione qui controversa.

In queste condizioni, risulta veramente arduo pensare di attribuire all’omessa presa di posizione sul tema la volontà del legislatore di estendere la procedura a tutte le contravvenzioni, salvo quelle punite con il solo arresto.

Di fronte alla ribadita ambiguità della norma, il dubbio deve essere perciò risolto ricorrendo alle disposizioni generali dell’ordinamento penale. In primo luogo il principio di legalità della pena: infatti, seguendo la tesi estensiva, la pena dell’arresto, prevista congiuntamente all’ammenda, non verrebbe mai applicata in difetto però di una norma espressa che consenta tale operazione. E’ in questa ottica, quindi, che si deve apprezzare il «silenzio» del legislatore: se la legge avesse voluto effettivamente estendere l’applicabilità della procedura estintiva alle contravvenzioni punite con pena congiunta, non solo sarebbe stato doveroso dirlo espressamente, ma sarebbe stato necessario introdurre una specifica deroga al principio generale secondo il quale le pene previste dalla legge si applicano nella loro interezza.

Ci pare infine interessante questa osservazione. Come vedremo più avanti, la procedura prescrizionale si applica solamente alle contravvenzioni che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. Da questo punto di vista, si può agevolmente constatare che esiste una certa correlazione tra le ipotesi criminose punite con la pena congiunta e le condotte che, tendenzialmente, cagionano un danno all’ambiente o creano un pericolo concreto ed attuale di danno sicchè appare del tutto logico (e comunque non arbitrario né ingiustificato) che alle prime non si estenda la nuova normativa.

2. Il campo di applicazione in relazione al dato temporale .

Secondo l’art. 318-octies, la normativa non si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge avvenuta in data 29 maggio 2015.

Al riguardo, sono state proposte interpretazioni diverse: quella che considera pendenti i procedimenti già iscritti nel registro delle notizie di reato alla data di entrata in vigore della legge; quella che considera pendenti i procedimenti iscritti anche dopo tale data, ma pregressi quanto a data di commissione del fatto; quella che identifica la pendenza del procedimento con la data di trasmissione della comunicazione della notizia di reato; quella che identifica la pendenza del procedimento con la data di acquisizione da parte della polizia giudiziaria della notizia di reato.

A nostro avviso, occorre partire dal fatto che il procedimento penale si considera in corso a partire dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. sicchè l’interpretazione più accettabile è quella per cui la normativa si applica solo ai procedimenti iscritti dopo il 29 maggio 2015, anche se relativi a fatti commessi prima.

Poiché il meccanismo della prescrizione richiede l’individuazione di un soggetto da indagare, l’iscrizione rilevante ai fini dell’art. 318- octies dovrebbe essere solo quella dei “noti – mod. 21”. Perciò, in caso di passaggio dal registro “ignoti” a “noti”, in analogia all’ipotesi prevista dall’art. 318-quinquies, in cui il pubblico ministero prende notizia di una contravvenzione di propria iniziativa, riteniamo che, anche in tale evenienza, il pubblico ministero debba dare comunicazione all'organo di vigilanza o alla polizia giudiziaria affinchè provvedano agli adempimenti di cui agli artt. 318-ter e 318- quater.

3. Il campo di applicazione in relazione al requisito del danno o pericolo concreto ed attuale di danno per le risorse protette.

L’art. 318-bis, a differenza di quanto previsto dall’art. 20 d.leg. n. 758/94, ha condizionato l’applicazione della procedura prescrizionale all’accertamento che la violazione non abbia cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.

Orbene, tranne rarissime eccezioni ( 2 ), le contravvenzioni presenti nel settore della tutela ambientale sono concepite dal legislatore come reati formali (e cioè di pura condotta), di pericolo presunto o astratto. L'anticipazione della tutela penale si fonda, infatti, sulla presunzione di offensività di talune condotte in cui viene individuata una generica attitudine a ledere il bene in una prospettiva futura e in sinergia con altre condotte analoghe. Si pensi, ad esempio, alla fattispecie che incrimina chi inizia ad installare impianti destinati ad immettere sostanze in atmosfera in assenza della prescritta autorizzazione o chi apre un nuovo scarico.

Perciò, in questo tipo di illecito, tutto ruota intorno alla condotta e non potrebbe essere diversamente perché non è essenziale per l’integrazione del reato la verificazione di un evento quale conseguenza della condotta umana, evento che nei reati di danno o di pericolo concreto rappresenta invece uno dei principali elementi costitutivi.

Il fatto che le contravvenzioni ambientali costituiscano reati formali o di pura condotta a causa dell’irrilevanza, per la loro consumazione, della verificazione di un evento quale effetto della condotta umana, non esclude che anche in queste fattispecie sia riscontrabile una modificazione della realtà materiale: infatti, aprire senza autorizzazione uno scarico idrico o un punto di emissione in atmosfera o attivare un impianto per smaltire rifiuti comporta pur sempre una più o meno rilevante e significativa trasformazione della realtà perchè lo scarico prima non esisteva, ora esiste, e via dicendo.

Però non tutte le modifiche sono da mettere sullo stesso piano: lo scarico idrico o l’emissione in atmosfera potrebbe avvenire sì illegalmente, ma attraverso un depuratore per cui, di fatto, il pregiudizio per il bene ambientale potrebbe essere minimo o del tutto inesistente. Altro esempio: nel caso dell’abbandono di rifiuti non è indifferente l’oggetto dell’abbandono e la sua quantità essendo diverso abbandonare un modesto carico di rifiuti inerti o lastre di eternit.

Di conseguenza, dato che in qualsiasi contravvenzione il fatto materiale integra necessariamente una sia pur minima alterazione della realtà, non si può identificare l’assenza di danno per il bene protetto, indispensabile per ammettere la procedura, con l’assenza di ogni alterazione o modificazione dello stato naturale delle cose perché, così opinando, la norma non sarebbe mai applicabile.

Specularmente, l’art. 318-bis non potrà applicarsi in presenza di un pregiudizio per l’ambiente così grave, vasto ed imponente da essere riconducibile ad uno degli eventi dei nuovi delitti contro l’ambiente (compromissione o deterioramento o disastro ambientale): in questo caso, infatti, non si potrebbe neppure ravvisare la contravvenzione in quanto cedente nel conflitto con la fattispecie delittuosa.

Perciò, al fine di escludere l’attivazione della procedura prescrizionale, è sufficiente accertare una compromissione delle risorse ambientali non così grave e significativa da raggiungere i livelli richiesti per l’integrazione dei cd. ecoreati.

All’organo di vigilanza spetta valutare caso per caso la reale gravità del fatto al fine di impartire o meno la prescrizione e ciò potrà creare non pochi problemi applicativi. Tuttavia, a rendere meno difficile questo compito, si osserva che, se si escludono dalla nuova disciplina le contravvenzioni punite cumulativamente con arresto e ammenda, al definitivo le contravvenzioni per cui risulta astrattamente possibile la prescrizione sono poche (e cioè: l’art. 29-quattuordecies, 1° comma, primo periodo, 3° comma, 5° comma; l’art. 137, 1° comma, 7° comma (nel caso di rifiuti non pericolosi), 9° comma, 10° comma, 12° comma e 14° comma; l’art. 256, 1° comma, lett. a), 2° comma (in riferimento al 1° comma, lett. a) ( 3 ), 4° comma (in riferimento al 1° comma, lett. a), 6° comma, primo periodo; l’art. 257, 1° comma; l’art. 261-bis, 8° comma primo periodo, 9° comma, 10°, comma, 11° comma; l’art. 279, 1°, 2°, 3°, 4° e 6° comma; l’art. 296, 1° comma, lett. a) sicchè dovrebbe essere più agevole per qualsiasi operatore valutare l’ammissibilità o meno della prescrizione.

Molto meno facile è l’analisi della norma con riferimento al parametro dell’assenza di pericolo concreto e attuale per l’ambiente.

L’espressione utilizzata dal legislatore ci riporta alla distinzione tra reati di pericolo astratto e concreto di cui si è già fatto cenno e al fatto che le contravvenzioni ambientali sono in linea di massima reati di pericolo astratto. Di conseguenza, dovrebbe essere del tutto raro l’accertamento di una violazione (peraltro, tra quelle comprese nell’elenco dianzi riportato) che comporti (all’atto del controllo da parte dell’organo di vigilanza) un pericolo attuale e concreto di danno per l’ambiente. E se per avventura si accertasse questa situazione, difficilmente sarà ravvisabile la fattispecie contravvenzionale: infatti, basta leggere l’art. 452-quinquies c.p. (Delitti colposi contro l'ambiente) per rendersi conto che l’ipotesi di cui trattasi potrebbe ricadere per l’appunto nella previsione del 2° comma di tale disposizione che stabilisce che «Se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente (e cioè taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452- quater: ndr) deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo».

Siamo perciò molto dubbiosi sul fatto che il requisito descritto dal legislatore (forse in modo un po’ improvvido) possa fungere da reale discrimine per decidere sull’ammissione o meno della procedura prescrizionale.

Un problema di coerenza tra norme emerge in due casi: il 3° comma dell’art. 318-ter, infatti, prevede che «Con la prescrizione l'organo accertatore può imporre specifiche misure atte a far cessare situazioni di pericolo ovvero la prosecuzione di attività potenzialmente pericolose» ( 4 ).

E’ evidente che se le descritte situazioni alludessero realmente ad un pericolo attuale e concreto, e cioè allo stesso requisito ostativo previsto dall’art. 318-bis, si dovrebbe concludere che non sarebbe neppure possibile impartire alcuna prescrizione.

Si può tuttavia tentare un’interpretazione che salvi la coerenza del sistema facendo leva sull’avverbio «potenzialmente» legato al termine «pericolose» (riferito evidentemente all’attività in corso di svolgimento): l’avverbio contrassegna, infatti, uno stato che non è ancora di pericolo effettivo ed immediato, ma che ha la possibilità di realizzarsi, passando ad una situazione di concreto pericolo. In questo modo, perciò, l’organo di vigilanza può impartire la prescrizione, perché manca il pericolo attuale e concreto e al tempo stesso, se la situazione è già in evoluzione verso questo stadio, può imporre le misure urgenti del caso.

Il secondo problema nasce dall’art. 318-septies, 3° comma, che, riproponendo l’art. 24, 3° comma, d.leg. n. 758/94, stabilisce che «l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione con modalità diverse da quelle indicate dall'organo di vigilanza sono valutati ai fini dell'applicazione dell'articolo 162- bis del codice penale».

Anche questa norma pare conciliarsi poco con quanto disposto nell’art. 318- bis. Ma a ben vedere le conseguenze dannose o pericolose derivanti dalla condotta del contravventore, suscettibili di eliminazione, non devono per forza consistere in situazioni di effettiva compromissione del bene tutelato e quindi si può, anche in questo caso, superare l’apparente contraddizione.

4. Finalità della prescrizione.

Il procedimento dell’art. 318-ter mira ad «eliminare» la contravvenzione accertata: il linguaggio non è certamente dei più raffinati, però, a discolpa del legislatore del 2015, va detto che la stessa locuzione compare nel d.leg. n. 758/94.

Appare comunque chiaro che, mediante la prescrizione, si interviene per ottenere la “regolarizzazione” della situazione di fatto che integra la contravvenzione accertata allo scopo di ripristinare la legalità violata attraverso un comportamento non solo «virtuoso», ma anche «esigibile» da parte del trasgressore.

Mette subito conto di sottolineare le differenze tra il settore della sicurezza sul lavoro, in cui la quasi totalità dei reati sono omissivi di carattere permanente, e il settore degli illeciti ambientali in cui non solo non sempre si registrano reati permanenti, ma, il più delle volte, il fatto tipico ha natura commissiva (solitamente il momento omissivo attiene al mancato possesso del titolo abilitativo). Senza dimenticare che le condotte materiali che integrano le contravvenzioni relative alla tutela delle condizioni lavorative si collocano, prevalentemente, in contesti di tipo «strutturale» (stabilimenti o cantieri, tanto per fare un esempio), in cui è dunque agevole effettuare il ri-controllo della situazione per verificare l’adempimento della prescrizione; invece, nel settore dei reati ambientali, e soprattutto in materia di gestione dei rifiuti, ci si può trovare di fronte ad attività di tipo «itinerante», come la raccolta e il trasporto, che possono perciò presentare non pochi problemi pratici.

Ciò posto, se la prescrizione mira ad eliminare la contravvenzione, non vi è dubbio che ci si debba trovare in presenza di un reato permanente o di un reato istantaneo da cui siano derivati effetti «rimuovibili» come si argomenta dall’art. 318-septies, 3° comma, in cui si parla delle conseguenze della contravvenzione eliminabili dall’autore del fatto. In ogni altro caso, quando non vi è nulla da regolarizzare né sotto il profilo della cessazione della condotta antigiuridica né sotto il profilo della rimozione di eventuali effetti permanenti l’istituto non è applicabile.

Altra questione è se si possa impartire una prescrizione nelle situazioni in cui sia materialmente o giuridicamente impossibile adempiere. Sotto il primo profilo, viene in evidenza l'ipotesi di spontanea ed autonoma eliminazione dell'illecito ad opera del contravventore (su cui torneremo in altro capitolo).

Sotto il secondo profilo, sono variegate le ipotesi in cui il contravventore non sia nella condizione di potere efficacemente eliminare l'illecito. Tra queste inseriamo le contravvenzioni che presentino come condotta costituiva il fatto di esercitare una certa attività in mancanza di titolo abilitativo.

Secondo un primo orientamento ( 5 ), si potrebbe ritenere che, ai fini della regolarizzazione, sia necessario che venga ottenuto il titolo abilitativo nel termine assegnato, con la precisazione che taluni ritengono che la prescrizione debba imporre al trasgressore solo la presentazione della relativa istanza, in considerazione del fatto che l’ottenimento del titolo non rientra nella disponibilità del trasgressore. Secondo un diverso orientamento si potrebbe ritenere che la prescrizione non possa consistere nell’ordine di richiedere/ottenere il titolo abilitativo, ma in specifiche misure atte a far cessare la situazione di pericolo o la prosecuzione dell’attività potenzialmente pericolosa.

Ebbene, qui entra in gioco l’esigibilità del comportamento ordinato. Infatti, il d.leg. n. 152/06 non punisce chi inizia lo svolgimento di un’attività senza presentare la richiesta di autorizzazione all'autorità competente, nel qual caso la prescrizione di inoltrare detta domanda potrebbe anche essere legittima; la normativa punisce chi, senza aver prima ottenuto l’autorizzazione, esercita un’attività pericolosa per l’ambiente e perciò non ha alcuna efficacia, al fine di regolarizzazione la situazione illegale, che l'organo accertatore prescriva di presentare l’istanza all'autorità competente perché tale fatto, per un verso, non fa cessare la consumazione del reato (salvo che contestualmente il soggetto non decida di interrompere spontaneamente l’attività) e, per altro verso, non fa venir meno gli effetti della condotta già realizzata.

Inoltre, come sa chiunque abbia pratica delle contravvenzioni relative alla sicurezza del lavoro (cfr. d.leg. n. 81/2008), in questo settore i comportamenti idonei a regolarizzare l’illecito rientrano nella totale sfera di azione e di controllo del datore di lavoro, mentre nel settore ambientale il rilascio del titolo abilitativo non dipende esclusivamente dal soggetto (che deve ovviamente richiedere il titolo), ma anche da un terzo e cioè dall’ente pubblico che delibera sull’accoglimento o sul rigetto della domanda. Pertanto, se l’obbligato non ha il potere di far cessare l’illecito ponendo in essere comportamenti virtuosi ed efficaci ( 6 ), il meccanismo estintivo di cui alla l. n. 68/15 non è, in linea astratta, nelle condizioni di poter operare.

5. Contenuto della prescrizione.

La prescrizione consiste in un atto (necessariamente scritto) emanato dall'organo di vigilanza con il quale si impartiscono le direttive per porre rimedio all'irregolarità riscontrata. Essa deve quindi indicare ( 7 ), nel modo più completo e specifico possibile, le operazioni da eseguire allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata.

Come non sono accettabili formule stereotipate o generiche, parimenti va osservato che il grado di specificazione della prescrizione, comprese dunque le modalità tecniche specifiche con cui raggiungere un certo risultato, dipende dalla natura della contravvenzione accertata (rispetto alla quale dovrebbe essere addirittura speculare). Peraltro, per garantire che la prescrizione non contenga modalità tecniche incompatibili con l’attività, nel cui ambito è stata commessa la contravvenzione, è prevista la cd. asseverazione della prescrizione ad opera di enti specializzati.

L’art 318-ter, 3° comma, stabilisce che l’organo accertatore, nello stesso momento in cui impartisce la prescrizione, possa «imporre specifiche misure atte far cessare situazioni di pericolo ovvero la prosecuzione di attività potenzialmente pericolose»: oltre a far presente che tale ordine non rappresenta l’unico contenuto dell’atto prescrittivo, ma si aggiunge all’indicazione dei comportamenti da tenere per «sanare» la situazione, è utile ricordare che secondo Cass. 1° aprile 2009, Santoro, Ced Cass., rv. 244079, l'ordine di cessazione dell'attività rientra tra quelle "specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro" che l'organo di vigilanza può imporre al contravventore.

La prescrizione deve contenere anche l'indicazione del termine entro cui il contravventore deve adempiere alla stessa: tale termine deve essere "tecnicamente" congruo. Recita infatti l’art. 318-ter che l'organo di vigilanza fissa per la regolarizzazione un termine non superiore al periodo di tempo tecnicamente necessario e che, in presenza di specifiche e documentate circostanze non imputabili al contravventore che determinino un ritardo nella regolarizzazione, il termine può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore, per un periodo non superiore a sei mesi, con provvedimento motivato che è comunicato immediatamente al pubblico ministero.

6. Obbligatorietà della prescrizione.

La prescrizione è un atto dovuto – beninteso, quando non ricorra il requisito del danno o del pericolo effettivo e concreto – oppure è discrezionale?

Tenendo conto dell’uso del verbo «impartisce» e dei principi generali in tema di imparzialità e legalità dell’azione dei pubblici poteri, la prescrizione dovrebbe considerarsi obbligatoria.

Tuttavia, tale conclusione non è così pacifica alla luce della giurisprudenza che si è formata sul d.leg. n. 758/94.

Invero, in Cass. 1° ottobre 1998, Ced Cass., rv. 212484, Curaba, si è stabilito che il giudice, prima di pronunciare sentenza di condanna, deve accertare che si siano regolarmente svolti tutti i passaggi della procedura introdotta dal d.leg. n. 758/94 ( 8 ); in Cass. 4 ottobre 2007, Ced Cass., rv. 238260, Di Santo, si è ribadito ( 9 ) che il giudice è tenuto ad accertare d'ufficio la completezza della procedura di estinzione prevista dal d.leg. n. 758/94, in quanto questa configura un'ipotesi di condizione di procedibilità dell'azione penale ( 10 ) e in Cass. 20 gennaio 2006, Ced Cass., rv. 233486, Panetta, sempre sul presupposto che la procedura prescrizionale costituisca una condizione di procedibilità dell’azione penale, si è sostenuto che sia legittima la concessione da parte del giudice del dibattimento, dopo la verifica della omessa comunicazione agli interessati della facoltà di provvedere al pagamento della sanzione amministrativa, di un termine per l'adempimento, sospendendo il processo, anche in assenza di richiesta del P.M. e in una fase di giudizio diversa da quella preliminare, poiché l'effetto estintivo dei reati previsto dalla procedura disciplinata dal d.leg. n. 758/94 è subordinato, oltre che all'adempimento tempestivo alle prescrizioni impartite dall'organo di vigilanza, anche al pagamento in sede amministrativa di una somma di denaro pari al quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa.

Senonchè, Cass. 6 giugno 2007, P.M. in c. Loi, Ced Cass., rv. 237199, ha respinto il ricorso del pubblico ministero che sosteneva che il giudice, avendo accertato l’omessa comunicazione al contravventore della facoltà di provvedere all’oblazione in sede amministrativa, avrebbe dovuto concedere un termine per il pagamento della sanzione in sede giudiziaria e ha concluso che « il mancato svolgimento, in tutti i suoi passaggi, della procedura amministrativa impedisce al pubblico ministero di richiedere il rinvio a giudizio ».

Successivamente, però, sono state pronunciate numerose sentenze che risolvono in senso diverso il problema: si possono citare Cass. 12 luglio 2010, Cionna, Ced Cass., rv. 248097, per cui l'omessa indicazione, ad opera dell'organo di vigilanza, delle prescrizioni di regolarizzazione in riferimento alla riscontrata violazione in materia di prevenzione infortuni e igiene del lavoro non impedisce la procedibilità dell'azione penale; Cass. 18 novembre 2010, Zecchino, Ced Cass., rv. 249566; Cass. 3 novembre 2011, n. 2691, Melchiorri, inedita; Cass. 21 aprile 2015, Rabitti, Ced Cass., rv. 263751.

Data la rilevanza del problema, vale la pena riportare alcuni stralci della sentenza Chionna: « La "regolarizzazione" di cui si è detto finora non consiste semplicemente nell'eliminazione della condotta penalmente rilevante, ove a carattere permanente, accertata dall'organo di vigilanza in sede ispettiva ovvero nella non reiterazione della stessa ove si tratti di una condotta ad effetto istantaneo o esaurita. Ciò è dovuto in ogni caso dal datore di lavoro…Non occorre alcuna prescrizione da parte dell'organo di vigilanza; va da sè che il contravventore deve far cessare la permanenza della sua condotta illecita ovvero non deve più reiterarla… La "regolarizzazione" alla quale fa riferimento il complesso normativo sopra citato è qualcosa di più; si tratta di prescrizioni di dettaglio…che rappresentano una modalità particolare di adempimento della prescrizione di legge, sanzionata penalmente. L'organo di vigilanza, in riferimento al caso che è stato oggetto dell'attività di vigilanza, può ritenere che le esigenze di sicurezza e di igiene del lavoro siano meglio soddisfatte con l'adozione di determinati accorgimenti che costituiscono una modalità specifica di adempimento della prescrizione di legge, ritenuta dall'organo di vigilanza più confacente al caso di specie. Il contravventore allora, che comunque deve adempiere alla generale prescrizione di legge, è chiamato ad adempiere ad una prescrizione ulteriore - quella singulatim impartitagli dall'organo di vigilanza - e questo aggravio della sua posizione, quale possibile conseguenza ulteriore del reato commesso, è bilanciato dalla misura premiale dell'oblazione in sede amministrativa del reato a condizioni più favorevoli dell'oblazione di cui agli artt. 162 e 162 bis c.p.. È ben possibile però che, secondo una valutazione rimessa all'organo di vigilanza, condizionata dalle particolarità del caso concreto, non ci siano misure specifiche da prescrivere e che quindi rimanga per il contravventore (egualmente da osservare) solo la prescrizione generale, quella prevista dalla legge e sanzionata penalmente. Come è anche possibile - secondo l'espressa previsione dell'art. 24, comma 3 - che l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione sia stata realizzata dal trasgressore con "modalità diverse da quelle indicate dall'organo di vigilanza", ma parimenti congrue e quindi equiparabili; in tal caso rimane non di meno la misura premiale dell'oblazione nell'importo ridotto al quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa… La conclusione di questo argomentare può quindi così sintetizzarsi: a) la prescrizione di regolarizzazione può - non necessariamente deve - essere impartita dall'organo di vigilanza il quale, vuoi inizialmente (ove sia quest'ultimo a comunicare la notizia di reato al P.M.), vuoi successivamente (ove sia il P.M., che abbia ricevuto la notizia di reato da altra fonte, ad investire l'organo di vigilanza), può determinarsi a non impartirne alcuna (perché, ad es., non c'è nulla da regolarizzare, o perché la regolarizzazione c'è già stata ed è congrua)…c) non c'è alcun "diritto" del contravventore a ricevere la prescrizione di regolarizzazione dall'organo di vigilanza con assegnazione del relativo termine per adempiere; egli è comunque tenuto a "regolarizzare" - ossia a rispettare le norme di prevenzione in materia di sicurezza e di igiene del lavoro - anche se alla prescrizione di legge non si aggiunga la prescrizione dell'organo di vigilanza di rispettarla adottando in particolare "specifiche misure"; ma in ogni caso egli, ove abbia "regolarizzato" adottando misure equiparabili a quelle che l'organo di vigilanza avrebbe potuto impartirgli con la prescrizione di regolarizzazione, può comunque chiedere al giudice di essere ammesso all'oblazione in misura ridotta, beneficio che non gli è precluso dal fatto che nessuna prescrizione di regolarizzazione gli sia stata impartita dall'organo di vigilanza (ciò in ragione di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 24, comma 3, di cui ora si viene a dire ».

Infine, dopo il richiamo all'interpretazione adeguatrice derivante dall’intervento della Corte costituzionale (di cui si parlerà nel prossimo capitolo), la C.S. ha così concluso: « la circostanza che l'organo di vigilanza, nel comunicare al P.M. la notizia di reato, non abbia impartito alcuna prescrizione di regolarizzazione all'imputato, mostrando così di determinarsi a non impartirne alcuna (ciò che può legittimamente fare, come sopra argomentato), non impedisce, nell'immediato, al trasgressore, proprio in ragione della constatazione dell'avvenuta regolarizzazione, di chiedere all'organo di vigilanza di essere comunque ammesso all'oblazione in sede amministrativa (ex art. 21, comma 2, cit.) ovvero non impedisce, successivamente, all'imputato di chiedere al giudice di essere ammesso all'oblazione ordinaria in sede giudiziaria nella stessa misura agevolata dell'oblazione in sede amministrativa. Nella specie quindi il fatto che nessuna prescrizione di regolarizzazione sia stata intimata dall'organo di vigilanza ai trasgressori non costituisce causa di improcedibilità dell'azione penale ».

Vedremo se anche nel settore dei reati ambientali la Corte di Cassazione propugnerà questa opzione. Resta comunque aperto il problema di quale rimedio possa utilizzare il contravventore che si dolga della mancata prescrizione propedeutica alla declaratoria di estinzione del reato. Seguendo il ragionamento della Cassazione, il privato non ha «diritto» a ricevere la prescrizione e quindi non può richiedere, in via formale, l’attivazione della procedura; l’unica strada è quella di procedere alla autonoma regolarizzazione dell’infrazione commessa e successivamente chiedere che l’organo di vigilanza ammetta l’oblazione in sede amministrativa oppure chiedere l’oblazione in sede penale.

Per completezza di informazione, con riferimento al settore della sicurezza sul lavoro, va detto che l’orientamento più risalente è stato ribadito più di recente da Cass. 15/09/2015, n. 37228, Eheim, Rv. 268050 (l'omessa fissazione da parte dell'organo di vigilanza di un termine per la regolarizzazione, come previsto dall'art. 20, comma primo, D.Lgs. 19 dicembre 1994 n. 758, è causa di improcedibilità dell'azione penale) e da Cass. 29 novembre 2016, n. 8706, Castellano.

7. Condotta illecita esaurita o assenza di conseguenze da rimuovere.

Abbiamo detto prima che l’organo di vigilanza non può impartire la prescrizione quando non vi è alcunchè da regolarizzare. Ciò può avvenire in situazioni diverse e un particolare rilievo ha il caso in cui il contravventore abbia regolarizzato la violazione prima che l’organo di vigilanza accerti il reato.

La questione è stata oggetto di un incidente di costituzionalità che ha avuto ad oggetto l’art. 24, comma 1, d. leg. n. 758/94 "nella parte in cui non prevede che possano essere ammessi alla definizione in via amministrativa con conseguente dichiarazione di estinzione del reato coloro i quali abbiano regolarizzato la violazione prima che l’autorità di vigilanza abbia impartito la prescrizione", o "abbiano regolarizzato la violazione nonostante l’organo di vigilanza abbia omesso di impartire la prescrizione, ovvero l’abbia impartita senza osservare le forme legislativamente richieste".

Ad avviso del giudice rimettente, in queste situazioni la norma censurata violava l’art. 3 Cost.: infatti, era privo di ogni razionale giustificazione riservare al contravventore, che avesse spontaneamente e autonomamente regolarizzato la violazione prima che l’organo di vigilanza avesse impartito la prescrizione, ovvero quando tale organo fosse intervenuto, ma avesse omesso di impartire le prescrizioni o le avesse impartite senza osservare le forme stabilite dalla legge, un trattamento deteriore rispetto alla posizione di chi avesse tenuto il medesimo comportamento a seguito dell’apposita prescrizione dell’organo di vigilanza.

La Corte costituzionale ha deciso la questione con sentenza 18 febbraio 1998, n. 19. Dopo aver convenuto sul fatto che, se nelle situazioni in esame fosse effettivamente preclusa la possibilità di definizione amministrativa dell’illecito, si determinerebbe una irragionevole e deteriore disparità di trattamento nei confronti del contravventore che abbia spontaneamente regolarizzato la violazione, ha ritenuto che non vi fosse alcun ostacolo ad una interpretazione sistematica e teleologica capace di ricondurre le situazioni oggetto dell’incidente nell’alveo della procedura volta ad ammettere il contravventore, sostanzialmente adempiente, alla definizione in via amministrativa e alla conseguente estinzione del reato.

Si legge in sentenza che « Appare infatti che le "lacune" segnalate dal giudice rimettente dipendono da una difettosa formulazione tecnica della normativa in esame, derivante dall’obiettiva difficoltà di prevedere in astratto tutte le possibili situazioni equipollenti a quelle espressamente disciplinate dalla legge, e, in quanto tali, non sono dovute ad una consapevole scelta di politica legislativa. Pertanto, è senz’altro possibile un’applicazione della disciplina in base alla quale, in caso di notizia di reato acquisita da un’autorità di polizia giudiziaria diversa dall’organo di vigilanza e di spontanea regolarizzazione da parte del contravventore, l’organo di vigilanza sia autorizzato ad impartire "ora per allora" la prescrizione prevista dall’art. 20, ovvero, ed a maggior ragione, a ratificare nelle forme dovute prescrizioni irritualmente impartite, nonchè a verificare l’avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e ad ammettere il contravventore al pagamento della somma determinata a norma dell’art. 21, commi 1 e 2, sì che l’autore dell’illecito, previo pagamento della somma stabilita, possa usufruire dell’estinzione del reato disciplinata dall’art. 24 ».

In coerenza con tale statuizione, Cass. 1° febbraio 2005, Ced Cass., rv. 231217, Pesciaroli, ha stabilito che, quando l'organo di vigilanza non abbia impartito al contravventore alcuna prescrizione per la già avvenuta spontanea regolarizzazione, il procedimento penale non subisce alcuna sospensione, in quanto il contravventore può chiedere comunque di essere ammesso all'oblazione in sede amministrativa nei termini previsti dall'art. 21 d.leg. n. 758/94, ovvero può, in seguito, avvalersi dell'oblazione in sede giudiziaria, ai sensi dell'art. 162 bis c.p. in combinato disposto con l’art. 24 citato decreto.

Non vi è alcun motivo per opinare che questo principio non debba trovare applicazione anche nel nostro settore: pertanto, se l’illecito o le sue conseguenze dannose o pericolose sono venute meno grazie ad un comportamento volontario dell'autore, anche successivo al momento di consumazione del reato, l’organo di vigilanza, mediante il meccanismo c.d. «ora per allora» può ammettere il contravventore al pagamento in sede amministrativa affinché possa usufruire della causa di estinzione del reato.

Per mera completezza, va detto che è stata sollevata altra questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, comma 2, d.leg. n. 758/94, nella parte in cui non prevede l'obbligo dell'organo di vigilanza di ammettere obbligatoriamente il contravventore al pagamento dell’oblazione anche nel caso in cui non sia impartita alcuna prescrizione per la materiale impossibilità della sua emanazione (perché si tratta di «reato già consumato e non ottemperabile» o perché è comunque venuta meno la situazione antigiuridica che aveva dato origine alla violazione contestata).

La Corte costituzionale con ordinanza n. 416 del 10 dicembre 1998 ( 11 ) ha dichiarato la questione manifestamente infondata osservando che le censure di legittimità si basavano sull'erroneo presupposto che, ove si tratti di reato per cui sia «ontologicamente» impossibile impartire qualsiasi prescrizione per eliminare le conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione accertata, la natura del reato costituisca elemento idoneo ad incidere in termini di irragionevolezza e di ingiustificata disparità di trattamento sulla disciplina del decreto legislativo n. 758 del 1994; che l'obiettiva diversità della struttura dei diversi reati, quale risulta dagli elementi costitutivi della fattispecie, e, conseguentemente, il momento in cui si realizzano la commissione e la consumazione del reato stesso, nonchè la natura istantanea o permanente del reato, appartengono a scelte del legislatore, che nella costruzione delle fattispecie incriminatrici traduce le proprie opzioni di politica criminale, ovvero sono imposte dalla stessa natura degli obblighi e dei comportamenti di cui si vuole assicurare l'osservanza mediante il ricorso alla sanzione penale.

In questa prospettiva, torniamo alla sentenza n. 37228, Eheim, cit., che ha affermato che, in materia di contravvenzioni alle norme sulla sicurezza e sull'igiene del lavoro e alle violazioni di ogni altra norma in materia di lavoro e di legislazione sociale, stante l’apposito richiamo contenuto nell'art. 15, comma primo, D.Lgs. 23 aprile 2004 n. 124, l'estinzione in via amministrativa del reato, come previsto dall'art. 20, comma primo, D.Lgs. 19 dicembre 1994 n. 758, è consentita anche quando l’illecito non sia suscettibile di regolarizzazione da parte del contravventore.

Si legge infatti in sentenza che «l'art. 15 del D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124 si pone come norma in un certo senso modificativa, con l'aggiunta, riferita al 3° comma del menzionato art. 15 che la procedura prevista dall'articolo stesso si applica anche: a) nelle ipotesi in cui la fattispecie è a condotta esaurita, ovvero; b) nelle ipotesi in cui il trasgressore abbia autonomamente provveduto all'adempimento degli obblighi di legge sanzionati precedentemente all'emanazione della prescrizione».

Su questa premessa, la Corte opina che «Ciò comporta inevitabilmente il superamento di quell'orientamento giurisprudenziale che aveva ritenuto non applicabile la procedura di estinzione delle contravvenzioni di cui agli artt. 20 del D.Lgs. n. 758 del 1994, nelle ipotesi di reati istantanei già perfezionatisi (così Sez. 3^, 4.11.2005 n. 47228, Greco, Rv. 233190) ovvero nei casi in cui l'organo di vigilanza non abbia impartito al contravventore alcuna prescrizione per la già avvenuta spontanea regolarizzazione (così Sez. 3^, 1.2.2005 n. 9474, Pesciaroli, Rv. 231217)».

La conclusione non ci convince. In primo luogo, giova riportare il testo dell’art. 15, comma 3, D.Lgs. n. 124/2004: «La procedura di cui al presente articolo (e cioè quella prevista dal D.Lgs. n. 758 del 1994: ndr) si applica anche nelle ipotesi in cui la fattispecie e' a condotta esaurita, ovvero nelle ipotesi in cui il trasgressore abbia autonomamente provveduto all'adempimento degli obblighi di legge sanzionati precedentemente all'emanazione della prescrizione».

A ben vedere, il problema riguarda solo il significato della congiunzione “ovvero” che compare nella norma: è utilizzata con valore esplicativo, e cioè per introdurre un equivalente, o con valore alternativo?

Secondo la Cassazione, che riporta il testo dell’articolo con le lettere a) e b) che non sono presenti nella disposizione, l’ovvero ha chiaramente valore alternativo, nel senso che, oltre ai casi in cui trasgressore abbia già regolarizzato l’infrazione prima della prescrizione da parte dell’organo di vigilanza, la procedura estintiva si applicherebbe anche ai reati non suscettibili di regolarizzazione (spontanea o «provocata»).

A nostro parere, il significato corretto della congiunzione è invece il primo su enunciato, vale a dire che la procedura estintiva si applica alle fattispecie cosiddette a condotta esaurita che comprendono i casi (e solo questi) in cui il trasgressore abbia autonomamente provveduto a far cessare l’illecito prima della scoperta del medesimo da parte dell’organo di vigilanza o prima che quest’ultimo impartisca l’apposita prescrizione. Insomma, il meccanismo estintivo è sempre collegato ad un comportamento virtuoso del trasgressore attuato prima dell’intervento dell’organo di vigilanza.

La particolare tenuità del fatto

Come emerge sia dai lavori preparatori sia dalla struttura del decreto n. 28 del 2015, la finalità della nuova causa di non punibilità non è solo quella deflattiva (altrimenti si sarebbe intervenuti con un intervento di depenalizzazione basato sul limite edittale della pena), ma è anche quella di attuare il principio di proporzione e meritevolezza della sanzione penale, nel senso che le condotte ritenute in concreto «non gravi» non giustificano il dispendio di risorse e l’applicazione della pena.

Questi due obiettivi coesistono nelle intenzioni del legislatore e solo la prassi ci confermerà se vi sarà la tendenza a sopravvalutare l’esigenza di alleggerimento del carico giudiziario. A questo proposito, va notato che l’applicazione rigorosa di tutti i criteri direttivi del nuovo istituto volto a verificare «caso per caso» se il fatto sia di particolare tenuità mal si concilia con l’esigenza di pura deflazione dei processi.

La normativa risulta astrattamente applicabile a tutte le contravvenzioni, comprese quelle poste a tutela dei cd. interessi collettivi (sicurezza ed igiene sul lavoro, alimenti, edilizia, ambiente et similia). Era infatti ragionevole pensare, fin dall’entrata in vigore del decreto n. 28, che il medesimo fosse applicabile anche ai reati di pericolo presunto o astratto (categoria cui appartengono quasi tutte le contravvenzioni sopra ricordate): al riguardo, basti ricordare la giurisprudenza che si è espressa sulla relazione tra il principio di offensività ex at. 49 cp e i reati di questo genere.

I residui dubbi sono però stati fugati dalle sezioni unite n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266589 che ha concluso che la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131- bis cod. pen., in quanto configurabile - in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma - ad ogni fattispecie criminosa, è configurabile anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo, in astratto, incompatibile, con il giudizio di particolare tenuità, la presenza di soglie di punibilità all'interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo.

La vera sfida è come valutare di volta in volta la soglia di «bassa offensività» della fattispecie.

In questa ottica, va chiarito che, nell’applicare l’istituto, non si deve confondere il fatto concreto, che deve rivestire connotati di particolare tenuità, con il fatto tipico descritto nella norma penale. La spinta a muoversi in questa direzione può essere infatti rappresentata dalla constatazione che ordinariamente le contravvenzioni sono deputate a reprimere i cd. reati «bagatellari».

Tanto per fare un esempio, non vi è dubbio che la mancata esposizione del cartello dei lavori edilizi è un fatto di modesto rilievo anche in funzione della tutela anticipata del bene costituito dalla salvaguardia del territorio. E non vi è ancora alcun dubbio che il legislatore abbia operato una precisa scelta di campo reprimendo questo fatto come contravvenzione punita con la sola ammenda. Sicchè, la decisione di prosciogliere l’autore dell’illecito non può basarsi sulla sola circostanza che il reato è punito in modo lieve, ma dovrà concentrarsi su altri elementi della fattispecie concreta, come, per esemplificare, per quanto tempo sia durata la violazione oppure se comunque la P.A. era in condizione di acquisire aliunde le informazioni richieste tramite l’apposizione del cartello.

E’ agevole a questo punto osservare che, mentre nei delitti (pensiamo a quelli contro le persona o contro il patrimonio) la valutazione in chiave di particolare tenuità del fatto può condurre anche ad esiti diversificati a seconda che si analizzino le modalità della condotta e l’entità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa, nelle contravvenzioni che integrano reati di pericolo presunto i due indici non possono che coesistere nel senso che la punibilità è esclusa quando la condotta abbia caratteristiche tali da rendere veramente esiguo o ridotto l’ambito dell’offesa al bene protetto.

E’ infatti opportuno rammentare che in questa categoria di illeciti il pericolo astratto o presunto per il bene tutelato non è altro che lo «specchio» della condotta.

Ecco perché è centrale, per applicare la causa di non punibilità, la valorizzazione di tutti gli elementi della condotta capaci di dimostrare in concreto la particolare tenuità del fatto (ovviamente, senza dimenticare l’ulteriore requisito della non abitualità del comportamento).

Sono dunque essenziali gli indici di cui al n. 1 dell’art. 133 c.p. attinenti al profilo oggettivo della condotta (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell'azione) e quelli di cui al n. 3 attinenti al profilo soggettivo (intensità del dolo o dal grado della colpa).

Per quanto già detto, gli indici di cui al n. 2 (gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato) non possono trovare applicazione in questo percorso valutativo perché le contravvenzioni, a parte rarissime eccezioni, prescindono completamente dal danno o dal pericolo concretamente cagionato ad una persona offesa dal reato che, peraltro, non si identifica neppure in un determinato soggetto in quanto, come è noto, gli interessi tutelati da questa tipologia di reato sono intestati alla collettività rappresentata dalle varie articolazioni dello Stato e della Pubblica amministrazione.

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che la gran parte dei reati ambientali siano volti a garantire un controllo preventivo da parte della P.A. sulle attività pericolose: pertanto il bene tutelato dalla norma penale è l'interesse dell'amministrazione competente a monitorare e controllare preventivamente la funzionalità e potenzialità inquinante degli impianti nuovi e di quelli già esistenti.

In alcuni casi, come lo scarico o l’emissione con sostanze inquinanti superiori ai limiti di legge, il bene protetto è direttamente il corpo ambientale in cui si verifica l’immissione illecita.

Anche in questo gruppo di reati, la particolare tenuità del fatto richiede l’individuazione di tratti o aspetti della condotta posta in essere che rivelino una oggettiva modesta entità dell’episodio che si riflette sul correlativo basso livello di offesa all’interesse giuridico tutelato dalle norme incriminatrici.

In questa prospettiva, applicando i criteri dell’art. 131 bis cp in relazione ad esempio al reato consistente nell'avvio di un'attività senza autorizzazione, nell'effettuazione di uno scarico o nell’emissione in atmosfera in assenza di autorizzazione o nella violazione delle prescrizioni dovrà, come sempre, essere considerato il caso concreto, valutando, ad esempio, la tipologia dello scarico o della emissione, la provenienza dello stesso (se produttiva oppure no, se ricollegabile ad una impresa di notevoli dimensioni oppure no), la quantità e qualità di sostanze immesse in ambiente, il tempo dell’attività abusivamente svolta, la rispondenza sostanziale dell’impianto ai requisiti che avrebbero consentito il rilascio dell’autorizzazione, la gravità della colpa (anche in relazione alle misure antiinquinamento omesse), il ruolo soggettivo dell’agente.

Anche per il reato di scarico o emissione non rispettosi dei parametri di accettabilità previsti, non si può escludere che l’individuazione di particolari indici relativi alla condotta (ad esempio qualità e volume dello scarico o della emissione, tipologia dell’impianto, adozione di tutte le misure di prevenzione) possa condurre a ritenere l’applicabilità della causa di non punibilità.

Con riferimento al settore dei rifiuti, ricordiamo che alcune fattispecie criminose non rientrano entro i limiti di pena indicati dall'art.131-bis:

- il delitto di cui all’art. 256- bis 1° comma, seconda parte e 2°comma, d.leg. n. 152/06 con riferimento alla combustione di rifiuti pericolosi;

- il delitto di cui all’art. 260 d.leg. n. 152/06;

- il delitto di gestione di rifiuti pericolosi di cui all’art. 6, 1° comma, lett. d) n. 2, l. n. 210/2008;

- il delitto di discarica abusiva di rifiuti pericolosi di cui all’art. 6, 1° comma, lett. e), l. n. 210/2008.

Naturalmente, valgono anche per le contravvenzioni che ricadono nella sfera di applicazione dell’art. 131 bis i ragionamenti svolti in precedenza: andranno perciò valutate le specificità del caso concreto con particolare riguardo agli elementi della condotta: dal punto di vista oggettivo ad esempio si terrà conto della natura e qualità dei rifiuti (quelli pericolosi dovrebbero essere tout court esclusi dall’applicazione dell’art. 131 bis cp); quantità movimentata; durata della condotta; grado e livello dell’organizzazione; eventuali iniziative volte non solo a regolarizzare la propria posizione, ma anche a riparare i danni cagionati o bonificare l’ambiente.

Dal punto di vista soggettivo, andrà valutata la sussistenza del dolo, ma soprattutto della colpa e la sua intensità con riferimento al grado di professionalità dell’agente.

Dopo aver esaminato le possibili criticità che si possono riscontrare sotto il profilo del rispetto del criterio che l'offesa è di particolare tenuità considerate le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, dedichiamo la nostra attenzione al requisito secondo cui il comportamento dell’agente deve “risultare” non abituale.

In primo luogo, la normativa non contiene alcuna definizione né del termine comportamento né del concetto di abitualità. In secondo luogo, perché il concetto può essere inteso con rifermento alla struttura della condotta posta in essere (cd. abitualità interna o intrinseca) oppure con rifermento al fatto se il reato per il quale si procede sia occasionale oppure no (cd. abitualità esterna o estrinseca).

Rispetto al concetto di «occasionalità» utilizzato dal d.P.R. 448/1988 e dal d.lgs. 274/2000, il decreto n. 28 fa leva sulla «non abitualità».

Di per sé, tale nozione potrebbe comprendere anche un comportamento non meramente occasionale o isolato e difatti nella relazione di accompagnamento al decreto si legge «che la presenza di un precedente giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti».

Orbene, una sentenza (Cass. 22 ottobre 2008, Rv. 241805) ha stabilito che, nella valutazione in ordine alla messa alla prova, si deve tenere conto di molteplici elementi, ma è essenziale la valutazione se il fatto contestato sia da considerare un episodio del tutto occasionale e non, invece, rivelatore di un sistema di vita, che faccia escludere un giudizio prognostico positivo sull'evoluzione della personalità del minore verso modelli socialmente adeguati.

Successivamente, altra decisione (Cass. 13 luglio 2010, rv. 248267) ha sostenuto – senza nessuna particolare motivazione – che l’occasionalità indica, invece, la mancanza di reiterazione di condotte penalmente rilevanti.

Di segno contrario è infine altra sentenza (Cass. 25 maggio 2011, rv. 250734) secondo cui, ai fini della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, il requisito della occasionalità del fatto indica un comportamento non necessariamente unico, né coincidente con lo stato di incensuratezza dell’imputato, richiedendo la verifica della natura delle condotte pregresse e, di conseguenza, della ripetitività dei medesimi comportamenti illeciti (in applicazione di tale principio, la suprema corte ha annullato con rinvio una sentenza di condanna per un furto di cialde di caffè di modesta entità).

Ne deriva che, se la Cassazione ha già inteso il termine occasionalità come non coincidente con «unicità», a maggior ragione l’espressione «non abitualità» deve essere intesa nel senso che il presupposto della causa di non punibilità non sia affatto l’incensuratezza del soggetto; anzi, è legittimo opinare che la realizzazione di un reato, anche della stessa indole rispetto a quello per cui si procede, in linea astratta potrebbe non essere ostativo ai nostri fini.

Pertanto, nulla esclude che un soggetto condannato per un delitto contro la persona possa beneficiare della causa di non punibilità in relazione al furto di un oggetto di minimo valore. Viceversa, un soggetto incensurato potrebbe aver realizzato una serie di condotte con tratti di serialità tali da dar pensare ad un vero e proprio modus vivendi.

In sostanza, il concetto di «abitualità» rimanda alla reiterazione di condotte criminose sintomatiche di un atteggiamento del soggetto orientato ad agire in contrasto con la legalità.

A nostro avviso, non ci si può basare solo sulle risultanze del certificato del casellario giudiziale, ma devono essere presi in considerazione i precedenti penali, compresi i procedimenti pendenti a carico dell’agente, e i precedenti giudiziari, e cioè ogni altra pronuncia che qualifichi la personalità del soggetto nell’ottica dell’art. 133, comma 2, del Cp,

Non dimentichiamo l’indicazione che proviene dalle sez. un. Tushaj, cit. per cui «Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 131 bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l'autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame. (In motivazione, la Corte ha chiarito che, ai fini della valutazione del presupposto indicato, il giudice può fare riferimento non solo alle condanne irrevocabili ed agli illeciti sottoposti alla sua cognizione - nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui- ma anche ai reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131 bis cod. pen.). ».

Va ricordato che si è ormai affermato l’orientamento per cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione o in presenza di una pluralità di abusi posti in essere dall'imputato oggetto di contestazione in un giudizio unitario.

Ad esempio, in materia edilizia, la Cassazione (8 novembre 2016, n. 50767, Schettino) ha convalidato la motivazione dei giudici di merito che avevano escluso la particolare tenuità tenuto conto della realizzazione di una serie di manufatti, sia pure di modeste dimensioni, destinati ad incidere non soltanto sull'assetto del territorio ma anche sull'aspetto paesaggistico ed ambientale. Si è precisato, che «ad escludere in radice la particolare tenuità, milita il rilievo per cui il ricorrente ha violato più disposizioni della legge penale, commettendo plurime violazioni della normativa urbanistica, antisismica ed in materia di cemento armato. Sul punto, si osserva, deve darsi continuità all'orientamento secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi", come nel caso di specie), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (v., da ultimo: Sez. 5, n. 26813 del 28/06/2016, Grosoli, Rv. 267262)».

Una questione da approfondire è rappresentata dal 1° comma dell’art. 131 bis cp che prescrive che il comportamento del soggetto deve risultare non abituale e dal 3° comma che ha specificato che «Il comportamento è abituale nel caso…in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate».

Questa disposizione è chiara nella sua finalità e cioè quella per cui se il comportamento costituente il fatto tipico del reato contestato è integrato da una condotta latu sensu ripetitiva, non è ammessa l’applicazione della causa di non punibilità. Infatti, la richiesta “non abitualità”, intesa come medio-bassa capacità a delinquere a norma dell’art. 133, 2° comma, c.p., solitamente è incompatibile con una condotta criminosa che si snoda nel tempo ovvero con un atteggiamento del soggetto che non infrange la legge in un singolo momento, ma per una durata apprezzabile, compromettendo il bene giuridico oggetto della tutela penale.

Non dimentichiamo che questa disposizione è stata inserita nel testo finale su specifica sollecitazione della commissione Giustizia della Camera dei Deputati che ha ritenuto che la causa di non punibilità postuli intrinsecamente l’occasionalità del comportamento tanto che, in forza dell’effettiva ratio della legge delega, dovevano «restare estranee all’istituto della non punibilità per particolare tenuità tutte le fattispecie di reato che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate (v., ad esempio, gli articoli 572 e 612-bis del codice penale)».

Orbene, come è noto, nel settore ambientale – ma anche in altri settori in cui sono implicati interessi collettivi - solitamente siamo in presenza di reati permanenti o abituali. Infatti, aprire uno scarico inquinante, iniziare un’attività rumorosa, effettuare lo smaltimento di rifiuti o realizzare e gestire una discarica, provocare emissioni moleste, costruire un manufatto, mettere in vendita alimenti alterati, e tantissimi altri casi che si potrebbero elencare, sono condotte caratterizzate dal fatto che l’offesa al bene giuridico si protrae nel tempo per effetto della persistente condotta volontaria del soggetto agente che può farla cessare in qualsiasi momento.

Sul punto, Cass. 8/10/2015, n. 47039, P.M. in proc. Derossi, Rv. 265448, ha preso posizione affermando che «In tema di particolare tenuità del fatto, il reato permanente, in quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla reiterazione, della condotta, non è riconducibile nell'alveo del comportamento abituale che preclude l'applicazione di cui all'art. 131-bis cod. pen., anche se importa una attenta valutazione con riferimento alla configurabilità della particolare tenuità dell'offesa, la cui sussistenza è tanto più difficilmente rilevabile quanto più a lungo si sia protratta la permanenza. (Fattispecie relativa a reati edilizi e paesaggistici)».

Nello stesso senso, Cass. 8/10/2015, n. 50215, Sarli, Rv. 265435, ha sostenuto che «il reato permanente (nel cui ambito rientrano le contravvenzioni relative agli abusi edilizi) non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio di cui all’articolo 131-bis del Cp, sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi sia cessata la permanenza. In ogni caso, comunque, fin quando la permanenza non sia cessata, l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto sarebbe preclusa in ragione della perdurante compressione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, per effetto della condotta posta in essere dall’autore del reato, non potendosi definire tenue, secondo i criteri di cui all’articolo 133, comma 1, del Cp, un’offesa all’interesse penalmente tutelato che continua a protrarsi nel tempo (la Corte ha chiarito che l’eliminazione dell’opera abusiva, attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della permanenza, può consentire l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis del Cp).

Infine, anche Cass. 30/03/2016, n, 30383, Mazzoccoli, Rv. 267589, ha ribadito che in tema di reati permanenti, è preclusa l'applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finchè la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto della condotta delittuosa» (in motivazione si legge «Nel caso in esame, essendo cessata la permanenza del reato, che avrebbe impedito l'astratta configurabilità della causa di non punibilità ed avendo la sentenza impugnata espresso una valutazione di "modestia oggettiva del fatto", va disposto l'annullamento per l'omessa motivazione sul punto, con rinvio al giudice del merito per la valutazione della ricorrenza dei presupposti).

Pertanto, il reato permanente (o abituale) in corso di realizzazione al momento del giudizio non dovrebbe essere suscettibile di valutazione positiva sotto il profilo della particolare tenuità del fatto, non foss’altro perché l’offesa al bene giuridico perdura ininterrotta. Un giudizio diverso può essere espresso quando si accerta che il reato sia cessato soprattutto nel caso in cui l’interruzione della condotta criminosa sia stata volontaria o sia avvenuta la riparazione del danno.

Prima di chiudere sull’argomento, ci pare opportuno puntare l’attenzione sul fatto che il 3° comma dell'art. 131 bis cp è formulato in modo ambiguo perché utilizza, separati dalla congiunzione "e" e non dalla "o", tre termini, «plurime, abituali e reiterate», che in effetti indicano lo stesso concetto, e cioè quello della ripetizione della condotta.

Invero, ritenere necessaria la contemporanea sussistenza delle tre specificazioni della condotta a causa dell’uso della "e" anziché della "o" ci pare veramente insostenibile. A parte che non si saprebbe neppure quale significato diverso assegnare ai tre aggettivi 12 , se la ratio della norma è quella di escludere dal nuovo beneficio chi tiene una reiterata condotta contraria alla legge, è logico pensare che lo stesso concetto sia stato espresso in modo ridondante senza che tale fatto abbia alcuna rilevanza sul piano interpretativo.

Sul punto, citiamo Cass. 10 maggio 2016, n. 33597, Pm in proc. Laforè Bresciani (in un caso di attività abusiva di raccolta di rottami ferrosi prodotti da terzi) ha stabilito che ove l’attività sia effettuata reiteratamente (o «serialmente») anche se riguardi quantità modeste di rifiuti, non è applicabile la speciale causa di non punibilità introdotta dall’art. 131-bis c.p. atteso che osta a tale qualificazione l’abitualità della condotta.

La stessa opinione si scorge in Cass. 11 ottobre 2016, n. 48315, Quaranta, relativa al reato di cui all’articolo 659 del Cp, in cui si è ritenuto correttamente motivato il diniego della invocata causa di punibilità in ragione della condotta “continuata e reiterata” di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone tenuta dall’imputata, tale da escludere il requisito della non abitualità del comportamento.

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Ecco una breve rassegna della giurisprudenza – per lo più inedita - formatasi in materia.

Cass. 8/10/2015, n. 47039, P.M. in proc. Derossi, Rv. 265450: ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo - data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive - costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento.

Cass. 9 marzo 2016, n. 28710, Medina (in tema di raccolta di rifiuti speciali pericolosi e non, senza osservare le prescrizioni) ha sostenuto che non è sufficiente per qualificare il fatto come di particolare tenuità, la circostanza che il giudice abbia riconosciuto all’imputato una speciale attenuante, laddove l’imputato venga condannato ad una pena-base che, ancorché attenuata, è più elevata del minimo edittale, tenuto conto che l'art. 131-bis cod. pen. può trovare applicazione solo qualora, in virtù del principio di proporzionalità, la pena in concreto applicabile risulterebbe inferiore al minimo edittale, determinato tenendo conto delle eventuali circostanze attenuanti.

Cass. 10/03/2016, n. 19111, Mancuso, Rv. 266586: Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo - data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive - costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso la ricorrenza della speciale causa di non punibilità nel caso di concorrente violazione di legge urbanistica, antisismica e in materia di conglomerato in cemento armato).

Cass. 21 luglio 2016, n. 55287, Cipriani (in tema di trasporto di rifiuti pericolosi e non pericolosi) ha escluso la particolare tenuità del fatto se il soggetto è autore di più violazioni dell'art. 256 D.lgs. n. 152/2006 con la conseguenza che la condotta è abituale e non può ritenersi episodica od occasionale (nella specie, il responsabile tecnico di una società aveva concorso, con l’amministratore unico, nella realizzazione di un deposito incontrollato di rifiuti non pericolosi e nell’inosservanza di plurime prescrizioni autorizzative).

Cass. 28 aprile 2016, n. 6870, Fontana (in tema di attività illegale di gestione di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi) ha rilevato che, trattandosi di illecito contestato come reato continuato (in tal senso è univoca la non disattesa rubrica elevata a carico del prevenuto la quale, oltre ad richiamare espressamente all'art. 81, cpv, cod. pen., descrive il fatto addebitato all'imputato come commesso "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso"), esso era ontologicamente esulante, senza bisogno di una motivazione sul punto, dalla fattispecie di cui all'art. 131-bis cod. pen.

Cass. 7 luglio 2016, n. 5237, Napoli, (in un caso di riconosciuta responsabilità di un armatore per omesso od inadeguato controllo sulla attività svolta per suo conto a bordo di una nave da pesca (i prodotti pescati venivano trattati con additivi chimici non consentiti) ha escluso la particolare tenuità del fatto considerando che, con una condotta potenzialmente assai pericolosa per la salute pubblica, l'imputato aveva distribuito per il consumo gamberetti contenenti solfiti in misura di 428 mg/kg, notevolmente superiore al limite (da 150 a 200 mg/kg) consentito in funzione della grandezza del pezzo di gambero dal d.M. 27 febbraio 1996 n. 209: da ciò conseguiva la potenziale pericolosità per la salute pubblica della condotta posta in essere dall'imputato, per le possibili ripercussioni sulla salute di un numero indeterminato di consumatori, con la conseguenza che deve essere esclusa l'esiguità del pericolo derivante dal reato commesso dall'imputato, e con essa anche l'esclusione della punibilità per la particolate tenuità del fatto.

Cass 29 settembre 2016, n. 5606, De Pascalis (in tema di normativa sulla sicurezza sul lavoro) ha escluso la particolare tenuità del fatto, in considerazione della natura della fattispecie, di pericolo presunto sostenendo che la successiva regolarizzazione del cantiere, attraverso l'adempimento delle prescrizioni indicate dai funzionari della Direzione territoriale del lavoro, attiene alla condotta dell'imputato successiva alla consumazione del reato, perfezionatosi con l'omissione e la conseguente esposizione a pericolo dei lavoratori, e non riguarda, dunque, l'entità del pericolo conseguente alla condotta, e non rileva, quindi, nella valutazione delle condizioni richieste per la configurabilità della suddetta causa di esclusione della punibilità: tale circostanza è stata, invece, correttamente considerata nella valutazione globale del fatto, della personalità dell'imputato e della sua condotta successiva alla consumazione del reato, ai sensi dell'art. 133 cod. pen., al fine della determinazione della pena.

Cass. 14 settembre 2016, n. 50751, Olivo, ha stabilito che la speciale causa di non punibilità è applicabile anche alla contravvenzione di cui all'art. 256, comma 1, lett. a) D.Igs. n. 152/2006 (contestata in relazione al trasporto di rifiuti da demolizione edile senza il prescritto formulario di identificazione dei rifiuti e senza l'iscrizione all'apposito Albo Gestori Ambientali). Infatti, anche con riferimento a tale fattispecie è possibile riscontrare un complesso di elementi connotanti la specifica vicenda nella sua dimensione storico-fattuale tali da fare apprezzare come in concreto particolarmente tenue la condotta penalmente rilevante non essendo affatto indifferente, ad esempio, che la condotta in questione afferisca o meno ad una attività di gestione di imponenti quantità di rifiuti realizzata con caratteristiche professionali o che l'agente l'abbia svolta o meno con carattere di continuità o, ancora, che si sia immediatamente attivato o meno per ristabilire l'ordine giuridico violato attraverso il conferimento del materiale in discarica.

Cass. 11/10/2016, n. 48318, P.M. in proc. Halilovic: in tema di gestione dei rifiuti, quando la condotta non si concretizza in un episodio isolato, bensì in comportamenti reiterati nel tempo, è da escludere il necessario requisito della «non abitualità» della condotta richiesto dall'art.131-bis cod. pen. per l'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Cass. 19/10/2016, n. 4187, Crudeli (in un caso di effettuazione di operazioni di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti speciali, è stata sollecitata l'applicazione dell'art. 131-bis del cod. pen., asserendo che il comportamento tenuto non era stato sistematico né abituale) ha annullato con rinvio al giudice di merito al fine di verificare se, in concreto, ricorressero effettivamente i requisiti di applicabilità dell'istituto, considerato quanto peraltro già rilevato dalla sentenza impugnata circa la "modesta offensività" del fatto.

Cass. 18/11/2016, n. 6027, Mazzarol, in un caso in cui si procedeva per i reati di cui agli artt. 256, comma 2, e 256, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 nonché 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha rigettato la richiesta di applicazione della particolare tenuità del fatto perché nulla era stato prospettato in ricorso quanto alle caratteristiche concrete del fatto e a nulla potendo evidentemente rilevare la operata, solo successivamente al fatto, bonifica, posto che la applicazione dell'art. 133 cod. pen., quale norma di valutazione dei presupposti legittimanti il giudizio di particolare tenuità, è stata espressamente circoscritta dall'art. 131 bis cit. al solo comma 1 con chiara esclusione dell'apprezzabilità di condotte post delictum.

Cass. 15 dicembre 2016, n. 56217, Granato, (in tema di smaltimento di rifiuti non pericolosi, quali vecchi mobili ed oggetti di arredamento, dandovi fuoco) ha osservato che il Tribunale, pur non pronunciandosi in termini espliciti, aveva di fatto escluso la particolare tenuità del fatto alla luce della condotta perpetrata dal Granato, emersa pacificamente in termini di non lieve gravità; in particolare, la sentenza ha sottolineato che, all'interno di un terreno antistante la stazione ferroviaria di Reggio Calabria, erano state rilevate fiamme con emissione di densi fumi neri, poi ricondotte al comportamento del ricorrente, lì intento a bruciare suppellettili di vario genere, in uno con materiali di plastica e ferro. Una condotta, quindi, foriera di pericolo per l'incolumità pubblica, a cagione sia dei fumi che stava procurando, sia delle potenzialità espansive delle fiamme, peraltro in zona abitata e frequentata, attesa l'immediata vicinanza della stazione ferroviaria. L'assenza dei presupposti di cui alla norma è stata desunta anche dal trattamento sanzionatorio non contenuto nei minimi edittali.

Cass. 15/12/2016, n. 5745, Vinci, (in tema di deposito incontrollato di rifiuti) ha osservato che dalla sentenza impugnata emergeva che quella "modestia oggettiva del fatto" su cui (a parte l'incensuratezza, che però nulla incide sull'elemento oggettivo) si fondava la richiesta del ricorrente di applicazione dell'articolo 131 bis c.p., non atteneva alla condotta dell'imputato, bensì alla successiva bonifica del sito.

Cass. 15/12/2016, n. 5747, Turchio, in un caso di trasporto e accatastamento di lastre di cemento-amianto tipo eternit, parzialmente frantumate, ha osservato che era evidente la non applicabilità della norma nel caso di specie, dato che i rifiuti in questione sono tra i più pericolosi in assoluto, come è noto e come si intende dal fatto che proprio per tale "particolare pericolosità del materiale trasportato e depositato" sono state negate le attenuanti generiche.

Cass. 12/01/2017, n. 7164, Pizzarelli, (in un caso di utilizzo in agricoltura di fanghi da depurazione in violazione delle prescrizioni dell'autorizzazione che ne imponevano l'interramento subito dopo la loro applicazione sul terreno) ha escluso l’applicazione dell’art. 131 bis cp rilevando che la pena irrogata si collocava ben al di sopra del minimo edittale, a maggior ragione se in conseguenza della (e nonostante la) concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Cass. 12/01/2017, n. 12162, Andras (in fattispecie di trasporto illegale di propri rifiuti non pericolosi, circa 1.000 Kg di calcinacci e cemento indurito), premesso che l'assenza dei presupposti per l'applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita, ha rilevato che il Giudice dì merito, nel valutare la condotta contestata agli imputati, ha implicitamente escluso la sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'invocata causa di non punibilità, dando espressamente conto della sussistenza di plurimi elementi ostativi. In particolare, il Tribunale, pur concedendo agli imputati le attenuanti generiche, ha considerato la gravità del reato richiamando espressamente gli indici di cui all'art. 133 cod.pen. e indicato una pena base in misura superiore al minimo edittale.

Cass, 21 febbraio 2017, n. 12388, Casagrande Alberto e Vittorio (in un caso di violazione dell'art. 257, comma 1) ha escluso l’applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., in quanto il giudice di merito aveva posto in evidenza il grado della colpa ed il pericolo arrecato alla salubrità del territorio, la pena applicata non si discostava particolarmente del minimo edittale e gli aumenti per la continuazione erano contenuti.

1 Per avere un quadro generale delle questioni e delle risposte ricavabili dalle indicazioni e dalle direttive emesse dalle Procure della Repubblica, si può consultare il documento «Indirizzi per l’applicazione della procedura di estinzione delle contravvenzioni ambientali ex parte vi-bis d.lgs. 152/2006» elaborato il 29 novembre 2016 dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente.

2 V. ad esempio la contravvenzione punita dall’art. 733 c.p. ( Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale) o dall’art. 734 c.p. (Distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto) che richiedono l’effettivo danneggiamento dei beni e delle aree sottoposte a protezione.

3 Si noti che del tutto irrazionalmente la legge non è applicabile alle omologhe contravvenzioni previste dall’art. 6 l. n. 210/08 (contenente le misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti).

4 La norma compare, in termini pressocchè analoghi, nell’art. 20, 3° comma, d.leg. n. 758/94.

5 Secondo il documento citato in nota 1).

6 Resta inteso che potrebbe decidere di interrompere la condotta antigiuridica, ma tale opzione deriva direttamente dal comando della legge e non deve essere perciò contenuta in uno specifico atto prescrizionale.

7 Non dimentichiamo che il contravventore potrebbe regolarizzare senza ottemperare formalmente alla prescrizione, ricorrendo cioè a modalità diverse, ma pur sempre efficaci. In tal caso non potrà accedere all'oblazione amministrativa, ma solo a quella penale ai sensi dell’art. 162 bis c.p.

8 Ovvero che l'organo di vigilanza abbia impartito al contravventore una apposita prescrizione fissando il termine necessario per la regolarizzazione; che l'organo di vigilanza non oltre sessanta giorni dalla scadenza di tale termine abbia verificato che la violazione sia stata eliminata secondo le modalità e nei termini prescritti; che in caso positivo l'organo di vigilanza abbia invitato il contravventore al pagamento della sanzione amministrativa nel termine di trenta giorni; che si sia comunicato al P.M., entro novanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l'inadempimento alla prescrizione stessa ovvero, entro centoventi giorni dal medesimo termine, che il contravventore sebbene abbia adempiuto alla prescrizione, non ha effettuato il pagamento della sanzione.

9 Nella fattispecie, a fronte della mancata ammissione dell'imputato al pagamento della sanzione amministrativa, la Corte ha annullato la sentenza di merito con rinvio al P.M. onde farsi luogo alla definizione dell'iter amministrativo relativo.

10 In argomento, v. anche Cass. 24 ottobre 2007, Ced Cass., rv. 238453, Rossini, secondo cui ai fini dell'estinzione delle violazioni contravvenzionali è rilevante la prova della notificazione dell'invito al pagamento rivolto al contravventore dall'organo di vigilanza, in quanto il preventivo esperimento della procedura di definizione amministrativa costituisce condizione di procedibilità dell'azione penale.

11 Analoga decisione è stata adottata con ord. n. 205 del 24 maggio 1999.

12 Si tenga conto che «abituale» è l’unico vocabolo che rinvia a istituti già conosciuti del diritto sostanziale (il reato abituale, l’abitualità del delinquere), mentre sia plurime che reiterate sono termini dalle connotazioni poco tecniche.