Cass. Sez. III n. 38196 del 26 ottobre 2021 (CC 23 set 2021)
Pres. Petruzzellis Est. Ramacci Ric. PM in proc. Allegri
Rifiuti.materie fecali costituite da deiezioni da allevamento di cani
L'art. 185, comma 1, lett. f) d.lgs. 152\06 esclude dal novero dei rifiuti le materie fecali, se non contemplate dal successivo comma 2, lettera b) (che richiama i sottoprodotti di origine animale). La disposizione pone sostanzialmente l'accento sulla provenienza dei materiali elencati (ivi comprese, dunque, le materie fecali) dall'attività agricola e sulla loro successiva utilizzazione sempre con riguardo a detta attività. Le deiezioni derivanti da attività di allevamento, vendita e pensione di cani non possono quindi essere classificate se non come rifiuti ed essere soggette alla relativa disciplina.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza del 14 aprile 2021 ha annullato il decreto emesso dal Pubblico Ministero il 16 marzo 2021 ed il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP presso il Tribunale di Reggio Emilia il 5 marzo 2021. Il primo provvedimento riguarda la sottoposizione a vincolo reale di documenti cartacei vari ed un telefono cellulare di proprietà ed in uso ad Ambra Allegri, mentre il decreto di sequestro preventivo riguarda i beni facenti parte di un allevamento abusivo e, segnatamente, un immobile ad uso stalla, sei box per il ricovero di cani nonché 18 esemplari di cane.
L’incolpazione provvisoria, riferita alla persona di Ambra Allegri, riguarda, al capo a), il reato di cui all'art. 137, comma 1 d.lgs. 152\2006 perché, in qualità di gestore di un allevamento abusivo di cani sito in Reggio Emilia, effettuava scarichi di acque reflue industriali e, al capo b), il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a) d.lgs. 152/2006 per avere, nelle medesime qualità, effettuato attività di raccolta di feci animali, urine e letame, comprese le lettiere usate ed effluenti raccolti separatamente e trattati fuori sito, stoccaggio e smaltimento (attraverso soggetti non autorizzati con spandimento illecito in terreni ad uso prettamente agricolo) in assenza delle prescritte autorizzazioni.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia, deducendo i motivi di seguito enunciati.
2. Premessa una descrizione degli esiti delle indagini, denuncia, con un primo motivo di ricorso, la violazione di legge, rappresentando che il Tribunale, nell’annullare il provvedimento di sequestro in relazione al reato di cui all'art. 137, comma 1 d.lgs. 152/2006, si sarebbe limitato a considerare la semplice definizione degli scarichi industriali riportata nell'art. 74, comma 1, lett. h) d.lgs. 152/2006, secondo cui le acque meteoriche di dilavamento sono espressamente escluse dal novero delle acque reflue industriali.
Osserva, a tale proposito, che tale lettura della richiamata disposizione normativa sarebbe smentita da quanto disposto dall'art. 113 dello stesso d.lgs. 152/2006, il quale demanda alle Regioni la disciplina della gestione delle acque meteoriche di dilavamento e l'eventuale loro classificazione come acque reflue industriali.
Aggiunge che, nel caso specifico, opererebbero le DGR 286/2005 e 1860/2006 con le quali la Regione Emilia Romagna ha disciplinato la gestione delle acque meteoriche di dilavamento e delle acque di lavaggio delle aree esterne, precisando che l'acqua meteorica di dilavamento, quando trasporta con sé i “residui” anche passivi presenti in aree destinate ad attività commerciali o di produzione di beni e relative pertinenze, perde l'originaria natura caratterizzandosi come acqua di scarico da assoggettarsi alla relativa disciplina, nonché che le acque inquinate da caratterizzarsi come acque di scarico industriali possono avere origine dal passaggio delle acque meteoriche su aree dedicate allo svolgimento di operazioni per loro natura tipicamente “sporcanti” ovvero su aree dedicate al deposito di materie prime o rifiuti.
Da ciò conseguirebbe, secondo il Pubblico Ministero ricorrente, che lo stoccaggio a cielo aperto di rifiuti costituiti da feci animali, urine e letame, depositati in un'area cortilizia su una platea costruita artigianalmente con cemento non impermeabilizzato ed esposti agli agenti atmosferici determinerebbe uno scarico di acque reflue industriali con recapito del suolo.
Tali reflui, aggiunge, comprendono anche le acque di lavaggio, provenienti dagli ambienti, dalle strutture e dagli animali, recapitanti liberamente sul suolo.
Per tali ragioni, osserva, le attività poste in essere avrebbero richiesto la specifica autorizzazione allo scarico.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge in relazione all’erronea qualificazione della condotta contestata come violazione dell'art. 256 d.lgs. 152/2006.
A tale proposito osserva che il Tribunale si sarebbe limitato, nell’escludere la sussistenza del fumus del reato, a rilevare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'indagata al momento del sopralluogo da parte della polizia giudiziaria circa la natura e la destinazione delle deiezioni animali accumulate nella concimaia, senza tuttavia considerare che tali dichiarazioni sarebbero irrilevanti a fronte della pacifica natura di rifiuto speciale delle deiezioni e della mancanza completa di documentazione relativa alla tracciabilità, quali formulari di identificazione, contatti con impianti di smaltimento, fatture di pagamento e presenza di strutture idonee allo stoccaggio.
Con un terzo motivo di ricorso rileva, infine, la mancanza di motivazione in relazione alle plurime argomentazioni sviluppate e richiamate nel provvedimento di sequestro dal GIP, relative alla totale assenza delle altre autorizzazioni necessarie per svolgere l'attività di allevamento, vendita e pensione di cani, quali l’iscrizione al Registro delle Imprese nella locale Camera di Commercio e l'apertura di partita IVA, la presentazione della dichiarazione di inizio attività e l'autorizzazione sanitaria all'apertura ed esercizio di industrie insalubri previo parere igienico sanitario dell’ASL territorialmente competente.
Insiste, pertanto, l'accoglimento del ricorso.
4. Il Procuratore Generale, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
2. Occorre precisare, per una migliore comprensione della vicenda, che dal ricorso e dall'ordinanza impugnata emerge che i fatti contestati sono stati accertati all'esito di un sopralluogo effettuato presso la struttura gestita dall’indagata, che veniva qualificata, in base al disposto della legge regionale dell'Emilia Romagna n. 5\2005, come allevamento o pensione di animali svolta con finalità di lucro ed in assenza di validi titoli abilitativi.
E’ risultato, inoltre, che l’indagata aveva detenuto e gestito alcune cucciolate di cani curandone la relativa vendita anche per conto di terzi.
Nell'ambito di tale attività, costei avrebbe smaltito le deiezioni di numerosi cani detenuti in allevamento mischiandole con quelle di due equini presenti nella struttura, con successivo spandimento nei campi per utilizzazione agronomica, mentre gli altri rifiuti provenienti dall'allevamento sarebbero stati gestiti con i rifiuti urbani domestici attraverso la raccolta differenziata.
Le deiezioni animali venivano raccolte e stoccate in una zona dell'area cortiliva del complesso su una platea costruita artigianalmente con cemento non impermeabilizzato in assenza di argini di contenimento e di un pozzo di raccolta dei liquami.
Le indagini consentivano di classificare i rifiuti con codice 02 06 01 “feci animali, urine e letame (comprese le lettiere usate), effluenti raccolti separatamente e trattati fuori sito”, ritenuti non suscettibili di utilizzazione agronomica in quanto materiali riconducibili alla categoria 1 e non anche alla categoria 2 per i quali l'art. 13 del Reg. CE 1069/2009 consente lo smaltimento mediante spandimento a terra.
Viene anche dato conto in ricorso che l'amministrazione comunale, in tempi diversi, aveva emesso un ordinanza di cessazione dell'attività abusiva di vendita ed allevamento di animali, un'ordinanza di restituzione in pristino per opere abusive eseguite su immobile ed un’ordinanza di demolizione di opere abusive e di ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi, tutte disattese dall’indagata.
3. Fatte tali premesse, deve rilevarsi che la ricostruzione dei fatti non è in contestazione e che, con riferimento al primo motivo di ricorso, il Tribunale ha escluso la sussistenza del fumus del reato di scarico in assenza di autorizzazione in relazione al fatto che, in sostanza, la mancanza di sevizi igienici propri dell’allevamento e di un impianto finalizzato alla raccolta dei reflui provenienti dal lavaggio dei cani non inciderebbero sull’ipotetica configurabilità del reato; che la mancanza di servizi igienici sarebbe incompatibile con scarichi non consentiti e che non vi sarebbe prova dell’attività di lavaggio dei cani. Inoltre, assume il Tribunale, in mancanza di impianti di scarico delle acque piovane la relativa diffusione sul terreno delle stesse non configurerebbe la contravvenzione per essere le acque meteoriche espressamente escluse dalla legge dal novero dei reflui industriali.
Il Pubblico Ministero ricorrente contesta tale lettura dell’art. 74, comma 1, lett. h) d.lgs. 152\06 per le ragioni indicate in premessa.
4. Osserva il Collegio che la questione della qualificazione delle acque meteoriche di dilavamento è stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi da parte della giurisprudenza di questa Corte e dei quali ha dato recentemente conto l’ultima pronuncia in materia (Sez. 3, n. 11128 del 24/2/2021, Azzalini, non ancora massimata) ove, considerando anche i contributi offerti dalla dottrina, si è chiarito l’ambito di applicazione dell’art. 113 d.lgs. 152\06 ed individuata la disciplina applicabile al di fuori delle ipotesi da esso disciplinate.
Nella richiamata decisione si è, in sintesi, affermato che l’art. 113, come emerge sopratutto dai diversi termini di volta in volta utilizzati, disciplina situazioni specifiche ed espressamente individuate, concernenti le acque meteoriche di dilavamento (commi 1 e 2), le acque di prima pioggia e di lavaggio (comma 3) e l’immissione diretta delle acque meteoriche nelle acque sotterranee (comma 4).
Da tale norma risulta anche, si è aggiunto, la netta distinzione tra le acque meteoriche di dilavamento in genere - che l’art. 113, commi 1 e 2 evidentemente presuppone non contaminate e che distingue a loro volta individuando quelle di cui al comma 1 in ragione delle modalità di provenienza e convogliamento - e quelle di prima pioggia e di lavaggio relativamente ai casi in cui, per il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici, si renda necessario il convogliamento ed il trattamento in impianti di depurazione.
Analizzando poi il problema di come valutare casi differenti che non rientrano nelle particolari previsioni dell’art. 113, la sentenza Azzalini esclude che, in mancanza dei presupposti per l’applicazione di tale disposizione o in assenza di specifiche disposizioni regionali, situazioni che possono anche determinare un serio pericolo di inquinamento debbano intendersi sottratte alle disposizioni del d.lgs. 152\06 e ciò non soltanto perché una simile soluzione interpretativa sarebbe irragionevole, ma anche perché l’art. 113, comma 2, come si è visto, esclude l’assoggettabilità alla disciplina generale di cui alla Parte Terza del decreto soltanto per le acque meteoriche diverse da quelle di cui al primo comma, che, in quanto tali, si presuppone mantengano la loro composizione originaria.
La sentenza ha quindi escluso che sia possibile qualificare le acque meteoriche di dilavamento come tali nel caso in cui vengano a contatto con sostanze inquinanti o pericolose, quando, cioè, non si è in presenza di un dilavamento conseguente ad un fenomeno meteorologico che, attraverso la normale azione di erosione di una superficie impermeabile, determini la commistione delle acque piovane con polveri, detriti normalmente presenti sul suolo.
Ciò perché, in tali casi, le acque di origine meteorica perdono la loro originaria consistenza divenendo sostanzialmente il mezzo attraverso il quale altre sostanze vengono veicolate verso un determinato corpo ricettore, un mero componente di un refluo di diversa natura oppure un elemento di diluizione di altre sostanze ma, certamente, non possono essere più considerate come semplici acque meteoriche di dilavamento.
Ai fini della classificazione quali acque reflue industriali, aggiunge la richiamata decisione, occorre considerare che i reflui costituiti da acque meteoriche ed altre sostanze ad esse mescolate attraverso il dilavamento non hanno alcuna attinenza col metabolismo umano e le attività domestiche, pur osservando come tale diversità non sia da sola sufficiente, perché l’art. 74, lett. h) tiene conto, ai fini della qualificazione delle acque reflue industriali, anche della loro provenienza (edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni) e delle modalità di convogliamento, essendo presente un riferimento espresso allo “scarico”, nozione che ha un significato specifico in tema di inquinamento idrico.
Conseguentemente, la sentenza ha ritenuto che, al di fuori delle specifiche ipotesi disciplinate dall’art. 113 d.lgs. 152\06 (sanzionate dall’art. 137, comma 9 d.lgs. 152\06), sussistendone i presupposti, saranno applicabili alle acque meteoriche di dilavamento la disciplina degli scarichi delle acque reflue industriali ovvero quella sui rifiuti liquidi.
5. Rinviando, per una più completa disamina dei riferimenti normativi e giurisprudenziali alla richiamata decisione, deve dunque rilevarsi che, avuto riguardo ai richiamati principi, la soluzione interpretativa offerta dal Tribunale e censurata dal Pubblico Ministero ricorrente è errata, perché, prescindendo da ogni altra considerazione, esclude a priori le acque meteoriche di dilavamento dal novero delle acque reflue industriali attraverso una lettura parziale delle disposizioni applicabili, le quali, ovviamente, vanno singolarmente considerate in relazione alla situazione di fatto desumibile dagli atti nella disponibilità del giudice del riesame e la cui valutazione non è consentita a questo giudice di legittimità.
Tale disamina, peraltro, non può neppure prescindere dalla disciplina regionale richiamata in ricorso e dai contenuti delle DGR 286\2005 e DGR 1860\2006.
In altre parole, l’ordinanza impugnata avrebbe dovuto considerare la natura dell’insediamento e dell’attività svolta in concreto, classificare i reflui ed individuare la disciplina concretamente applicabile che, nel caso di specie, considerando quanto indicato nel capo di incolpazione, riferito all’art. 137, comma 1 d.lgs. 152\06 e considerato il riferimento in ricorso ad uno scarico con recapito sul suolo, richiede in ogni caso la presenza di uno “scarico” così come definito dall’art. art. 74, lett. ff) d.lgs. 152\06 ed individuato dalla giurisprudenza di questa Corte richiamata dalla già citata sentenza Azzalini.
Si è in quell’occasione ricordato, infatti, che la disciplina delle acque è applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile, mentre in tutti gli altri casi, nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, si applica, invece, la disciplina sui rifiuti (v., ex pl., Sez. 3, n. 6998 del 22/11/2017 (dep. 2018), Martiniello, Rv. 272822; Sez. 3, n. 16623 del 8/4/2015, P.M. in proc. D'Aniello, Rv. 263354; Sez. 3, n. 22036 del 13/4/2010, Chianura, Rv. 247627).
Lo scarico, inoltre, non richiede la presenza di una «condotta» nel senso proprio del termine, costituita da tubazioni o altre specifiche attrezzature, sebbene vi sia comunque la necessità di un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore . È inoltre evidente che il concetto giuridico di scarico presuppone comunque che il collegamento tra insediamento e recapito finale sia stabile e predisposto proprio allo scopo di condurre i reflui dal luogo in cui vengono prodotti fino alla loro destinazione finale, senza interruzioni, ancorché determinate da casuali evenienze quali, ad esempio, la tracimazione da vasche di raccolta, che abbiano consentito ai reflui un ulteriore percorso (così Sez. 3, n. 16623 del 8/4/2015, P.M. in proc. D'Aniello, Rv. 263354, cit.).
Resta da osservare che nell’ordinanza impugnata, invero, viene fatto riferimento alla “mancanza di impianti di scarico delle acque piovane” il che presupporrebbe come già verificata la mancanza di un sistema stabile di convogliamento delle stesse, ma subito dopo si rinviene un riferimento alla “relativa diffusione sul terreno” che non consente di escludere a priori, come già detto, la sussistenza di uno scarico. Si tratta, quindi, di un dato insufficiente (così come quelli riferiti all’assenza di impianti di acqua corrente ed altri dati riferiti all’attività di lavaggio degli animali) ai fini della richiesta valutazione.
6. Quanto al secondo motivo di ricorso, occorre rilevare che il Tribunale, dopo aver affrontato la questione dell’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagata circa la natura e destinazione delle deiezioni presenti nella concimaia, assume che non vi sarebbero elementi atti a suffragare la sua destinazione alla raccolta delle deiezioni canine, mentre la raccolta di quelle provenienti dagli altri animali presenti (2 equini, 1 suino e 4 suinetti, secondo quanto riportato nell’ordinanza medesima) sarebbero “insuscettibili di censura penale”.
Osserva a tale proposito il Collegio che, come correttamente rilevato dal Pubblico Ministero ricorrente, la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagata è del tutto irrilevante di fronte all’assenza di documentazione utilizzabile ai fini della tracciabilità dei rifiuti, tali essendo, in ogni caso, le deiezioni presenti nella concimaia, ancorché provenienti da animali diversi dai cani.
Invero l'art. 185, comma 1, lett. f) d.lgs. 152\06 esclude dal novero dei rifiuti le materie fecali, se non contemplate dal successivo comma 2, lettera b) (che richiama i sottoprodotti di origine animale)
La disposizione pone sostanzialmente l'accento sulla provenienza dei materiali elencati (ivi comprese, dunque, le materie fecali) dall'attività agricola e sulla loro successiva utilizzazione sempre con riguardo a detta attività (Sez. 3, n. 37548 del 27/6/2013, Rattenuti, Rv. 257686).
Nel caso di specie, dunque, a prescindere dai riferimenti alla disciplina comunitaria, peraltro corretti, rinvenibili nel ricorso, appare evidente la natura di rifiuto delle deiezioni rinvenute, perché, in ragione dell’attività svolta nell’insediamento, descritta come di allevamento, vendita e pensione di cani, ed indipendentemente dal fatto che si trattasse di deiezioni canine o di altri animali, tali deiezioni non potevano essere classificate se non come rifiuti ed essere soggette, pertanto, alla relativa disciplina.
L’attività di gestione, descritta come raccolta, trattamento, stoccaggio e smaltimento, richiedeva specifici adempimenti in assenza dei quali detta gestione è illecita e sanzionabile ai sensi dell’art. 256, comma 1 d.lgs. 152\06.
Anche in questo caso, pertanto, la lettura della disposizione applicata offerta nell’ordinanza impugnata risulta errata.
7. Quanto sopra rilevato impone, conseguentemente, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale per nuovo esame, restando assorbito il terzo motivo di ricorso.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Reggio Emilia competente ai sensi dell’art. 324, comma 5, cod. proc. pen.
Così deciso in data 23/9/2021