Cass. Sez. III n. 24680 del 8 giugno 2023 (UP 17 mag 2023)
Pres. Ramacci Rel. Galanti Ric. Francioso
Rifiuti.Qualificazione di un materiale come rifiuto

La qualifica di rifiuto deve essere dedotta da dati obiettivi, non dalla scelta personale del detentore che de­cide che quel bene non gli è più di nessuna utilità. Sono elementi obiettivi, ad esempio, l’oggettività dei materiali in questione, la loro eterogeneità, non rispondente a ragionevoli criteri merceologici, e le condizioni in cui gli stessi sono detenuti, così come le circostanze e le modalità con le quali l’originario produttore se ne era disfat­to. Non rileva, poi, il fatto che un bene sia ancora cedibile a titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque la natura di rifiuto.

RITENUTO IN FATTO

    1. Con sentenza emessa in data 06/06/2022, il Tribunale di Brindisi condannava Rocco Francioso alla pena di euro 5.000 di ammenda in ordine al reato di cui all’articolo 256, comma 2, d. lgs. 152/2006, accertato in Ceglie Messapica il 15/11/2017.

    2. Avverso tale sentenza l’imputato propone, tramite il proprio difensore di fiducia, ricorso per cassazione.
Lamenta, con l’unico motivo di impugnazione, la nullità della sentenza per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato contestato.
Censura, in particolare, come erroneamente il Tribunale abbia omesso di ricondurre il materiale in imputazione, qualificato dal giudice come «rifiuti», alla nozione di «sottoprodotto», essendo la destinazione al riutilizzo emersa dalla deposizione del teste Biondi.
Contesta, inoltre, il ricorrente, l’affermazione secondo cui graverebbe sull’interessato l’onere di provare la destinazione al riutilizzo, così realizzandosi in realtà una, non consentita, inversione dell’onere della prova.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
In primo luogo, il Collegio evidenzia come, pur avendo censurato il vizio di motivazione, in realtà il ricorrente lo articola come violazione di legge, lamentando una erronea interpretazione della normativa sui sottoprodotti da parte della Corte territoriale, circostanza che già di per sé destinerebbe il ricorso all’inammissibilità per difetto di specificità.

2. Ad ogni buon conto, entrando nel merito della questione proposta, il ricorrente in primo luogo contesta che nel caso di specie i materiali di cui in rubrica possano considerarsi rifiuti.
La Corte, sul punto, rileva che l’articolo 183 del d. lgs. n. 152/2006 defi­nisce come rifiuti «le sostanze o gli oggetti che derivano da attività umane o da ci­cli naturali, di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».
Come è stato sottolineato in dottrina, si tratta di una definizione che non si caratterizza per la individuazione di elementi intrinseci di determinati oggetti o sostanze che, se presenti, ne determinano l’attribuzione della qualificazione di rifiuto, quanto, piuttosto, di una definizione di tipo «funzionale», essendo rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo.
La corte di Giustizia dell’Unione euro­pea ha più volte sottolineato (Sez. 2^, 14 ottobre 2020, sentenza resa nella causa n. C‑629/19) come l’espressione «disfarsi» vada interpretata alla luce dell’obiettivo della direttiva 2008/98 che, ai sensi del suo considerando 6, consiste nel «ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei ri­fiuti per la salute umana e l’ambiente», nonché dell’articolo 191, paragrafo 2, TFUE, a tenore del quale la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed «è fondata, in particolare, sui principi della precauzione e dell’a­zione preventiva».
Ne consegue, secondo la Corte europea, che «il termine “disfarsi” e dunque la nozione di “rifiuto”, ai sensi dell’articolo 3, punto 1, della Direttiva 2008/98, non possono essere interpretati in modo restrittivo. Sicché, dalle disposizioni di detta Di­rettiva risulta inoltre che il termine «disfarsi» comprende, al contempo, il “recupero” e lo “smaltimento” di una sostanza o di un oggetto ai sensi dell’articolo 3, punti 15 e 19, di tale Direttiva. Più in particolare, l’esistenza di un “rifiuto” ai sensi della di­rettiva 2008/98 va accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto dell’obiettivo di tale direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia».
Per la Corte di Giustizia UE, pertanto, la nozione di rifiuto («waste») va intesa in modo ampio e non restrittivo, sì da non pregiudicare gli obiettivi di riduzione dei rifiuti e del loro impatto sulla salute e sull’ambiente.
Questa Corte (Sez. 3, n. 3299 del 19/07/2017, dep. 2018, Masi, n.m.), dal canto suo, ha ribadito che la qualifica di rifiuto «deve essere dedotta da dati obiettivi, non dalla scelta personale del detentore che de­cide che quel bene non gli è più di nessuna utilità. Sono elementi obiettivi, ad esempio, l’oggettività dei materiali in questione, la loro eterogeneità, non rispondente a ragionevoli criteri merceologici, e le condizioni in cui gli stessi sono detenuti, così come le circostanze e le modalità con le quali l’originario produttore se ne era disfat­to. Non rileva, poi, il fatto che un bene sia ancora cedibile a titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque la natura di rifiuto».
Sul punto, Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schepis, n.m., ha affermato che «in tema di rifiuti, la definizione dell’art. 183, comma 1, lett. a), D.lgs. n. 152 del 2006, a termini della quale costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi, esige - in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di interpretare l’azione di disfarsi alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell’ambiente secondo i principi di precauzione e prevenzione - che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l’agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eli­minazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Sez. 3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino, Rv. 269912)».
Analogamente, sul versante della giustizia amministrativa, TAR Piemonte, Sez. 2^, n. 1303 del 4/12/2017, ha affermato che la nozione di rifiuto va «desunta dalle modalità oggettive di deposito dei materiali, a prescindere dalla prova dell’effettiva intenzione del detentore di disfarsi del materiale e persino dalla reale possibilità di reimpiego dei materiali nel ciclo produttivo».
Al successivo par. 4 si analizzerà come la sentenza impugnata abbia desunto la qualifica di rifiuto degli materiali in contestazione e se in tale processo logico abbia fatto buon governo dei sopra esposti principi.

3. Quanto alla disciplina dei «sottoprodotti», di cui il ricorrente richiede l’applicazione, come noto, ai sensi dell’articolo 184-bis d. lgs. n. 152/2006, perché una sostanza possa qualificarsi come sottoprodotto occorre la concomitante presenza di una serie di requisiti e condizioni, e in particolare:
a. la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b. è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c. la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d. l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
    In mancanza di una sola di dette condizioni, il residuo deve considerarsi un rifiuto (Sez. 3, n. 47085 del 4/11/2008, Maiorana, n.m.).
    3.1. Sul versante dell’onere della prova, la giurisprudenza consolidata della Corte ha precisato che trattandosi di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, «l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione (Sez. 3, n. 38950 del 26/06/2017, Roncada, n.m.; Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Sacco, Rv. 272428 – 01; Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336 – 01; Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari, Rv. 262129 – 01; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385 - 01; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, n.m.; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504 - 01).
Tale giurisprudenza è una applicazione dell’indirizzo consolidato secondo cui (v. Sez. 3, n. 20410 del 08/02/2018, Boccaccio, Rv. 273221 - 01) il principio di inversione dell’onere della prova «specificamente riferito al deposito tem­poraneo, è peraltro applicabile in tutti i casi in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l’applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali».
In tal senso, già Sez. 3, sentenza n. 47262 dell’8/09/2016, Marinelli, n.m., aveva precisato che il principio dell’inversione dell’onere della prova corri­sponde ad un «principio generale già applicato in giurisprudenza: in tema di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 152/2006 (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5504 del 12 gennaio 2016, Lazzarini), di deposito temporaneo di rifiuti (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 29084 del14 maggio 2015, Favazzo), di terre e rocce da scavo (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 16078 del 10 marzo 2015, Fortunato), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 3943 del 17 dicembre 2014, Aloisio), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 3202 del 2 ottobre 2014, Giaccari; Sez. III, n. 41836 del 30 settembre 2008, Ca­stellano), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, prevista dall’art. 258 comma 15 del d. lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 6107 del 17 gennaio 2014, Minghini), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali, Sez. III, n. 35138 del 18 giugno 2009, Bastone)».
Il principio è stato successivamente ribadito anche da Sez. 3, n. 3598 del 23/10/2018, dep. 2019, Fortuna, n.m..
3.2. Tale prova, che grava sull’interessato, non può essere fornita (Sez. 3, n. 41607 del 6/07/2017, Garlando, n.m.) mediante mera testimonianza (come avvenuto nel caso di specie in riferimento al teste Biondi Nicola), atteso che l’art. 184-bis D.lgs. 152/06 richiede «condizioni specifiche che devono essere adeguatamente documentate anche e soprattutto sotto il profilo prettamente tecnico, involgendo, come è noto, le caratteristiche del ciclo di produzione, il successivo reimpiego, eventuali successivi trattamenti, la presenza di caratteristiche atte a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e l’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana», e che «incombe sull’interessato, anche successivamente alla modifica dell’art. 183, comma 1, lett. p), l’onere di fornire la prova della destinazione del materiale ad ulteriore utilizzo, con certezza e non come mera eventualità».

4. Scendendo in concreto, il provvedimento impugnato evidenzia, sia pure sinteticamente, come il materiale risultasse abbandonato sul terreno «alla rinfusa» ed esposto alle intemperie (pag. 3), accertamento fattuale insindacabile in sede di legittimità.
Come correttamente evidenziato dal Procuratore generale, del resto, la Corte di appello motiva logicamente sul punto, saldando in maniera logica le fonti di prova, principalmente le dichiarazioni del teste Zongoli Elisei ed i rilievi fotografici.  
Né, dal canto suo, il ricorrente è stato in grado di dimostrare la sussistenza dei presupposti affinché tale materiale potesse essere qualificato in termini di sottoprodotto.

5. Il ricorso è pertanto manifestamente infondato in quanto non si confronta con la costante giurisprudenza della Corte.
Sul punto, il Collegio richiama Sez. 2,  n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave, Rv. 276916 – 01: «il ricorso per cassazione che deduca inosservanza od erronea applicazione di legge è inammissibile per manifesta infondatezza ove sia connotato da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, come accade allorché si invochi una norma inesistente nell'ordinamento o si disconosca l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge, ovvero ancora si riproponga una questione già costantemente decisa dalla Corte di cassazione in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi; mentre il ricorso che deduca vizi di motivazione - ove consentiti e dotati della necessaria specificità ex art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. - è inammissibile per manifesta infondatezza se muove censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali, come avviene nel caso in cui si attribuisca alla motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello reale».

6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
    Così deciso il 17/05/2023.