Presidente: Lupo E. Estensore: Franco A. Relatore: Franco A. Imputato: Boschetti. P.M. Ciampoli L. (Conf.)
(Rigetta, Trib. Ferrara, 8 Maggio 2004)
ACQUE - Tutela dall'inquinamento - Scarichi di reflui da allevamento di bestiame - Natura - Reflui industriali - Assimilabilità ai reflui domestici - Condizioni.
In materia di inquinamento, le acque reflue provenienti da una attività di allevamento di bestiame vanno considerate, ai fini della disciplina degli scarichi, quali acque reflue industriali, atteso che la loro assimilazione alle acque reflue domestiche è subordinata alla prova della esistenza delle condizioni individuate dall'art. 28 del citato decreto n. 152, ovvero della connessione tra allevamento e terreno agricolo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati: Camera di consiglio
Dott. LUPO Ernesto - Presidente - del 17/11/2005
Dott. PETTI Ciro - Consigliere - SENTENZA
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - N. 1272
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - N. 21035/2005
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Boschetti Maurizia, nata a Cesenatico il 15 ottobre 1958;
avverso l'ordinanza emessa l'8 maggio 2004 dal giudice dell'esecuzione
del tribunale di Ferrara;
udita nella udienza in Camera di consiglio del 17 novembre 2005 la
relazione fatta dal Consigliere Dott. Amedeo Franco;
lette le conclusioni del Procuratore generale con le quali chiede il
rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 3 luglio 1989 - divenuta irrevocabile - il pretore di
Ferrara, sezione distaccata di Codigoro, dichiarò Boschetti
Maurizia, quale legale rappresentante della s.a.s. Agricola Lamberta,
colpevole del reato di cui alla L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 21,
comma 1 e 3, per avere effettuato lo scarico in acque superficiali
delle acque di lavaggio dei capannoni sedi di allevamento avicolo in
assenza della prescritta autorizzazione e con parametri di COD, azoto
ammoniacale, coliformi totali, coliformi fecali, streptococchi fecali
superiori alla tabella A) allegata alla L. n. 319 del 1976, e la
condannò alla pena di mesi uno e giorni dieci di arresto e
lire tre milioni di ammenda, con la sospensione condizionale della pena
e la non menzione e con la incapacità a contrattare con la
pubblica amministrazione per un anno.
Con istanza del 27 gennaio 2004 la Boschetti chiese al giudice
dell'esecuzione di revocare la predetta condanna in quanto i fatti non
costituivano più reato per effetto della entrata in vigore
del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 54, comma 2, dal momento che si
trattava di reflui provenienti da azienda agricola, assimilabili a
quelli domestici.
Il giudice dell'esecuzione del tribunale di Ferrara, con ordinanza
dell'8 maggio 2004, revocò la suddetta sentenza del 3 luglio
1989 limitatamente alla violazione della L. 10 maggio 1976, n. 319,
art. 21, comma 2, perché il fatto non è
più previsto dalla legge come reato, mentre respinse la
richiesta di revoca in relazione al reato di cui alla L. 10 maggio
1976, n. 319, art. 21, comma 1, in ordine al quale determinò
la pena in lire un milione di ammenda. Osservò il giudice
dell'esecuzione:
a) che sussisteva continuità normativa tra la L. 10 maggio
1976, n. 319, art. 21, comma 1, e il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152,
art. 59, comma 1, perché lo scarico di acque reflue
industriali senza autorizzazione costituisce ancora reato;
b) che anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 11 maggio 1999, n.
152, va considerata di tipo produttivo, con applicabilità
della normativa sugli scarichi industriali, l'attività di
allevamento di bestiame, perché essa può essere
assimilata a quella agricola solo in via eccezionale quando
è dimostrato che essa si svolga in connessione con la
coltivazione della terra e questa sia in grado di smaltire naturalmente
il carico inquinante;
c) che non potevano esservi dubbi sul fatto che un allevamento di
200.000 polli all'anno, come quello in questione, costituiva una
attività di tipo commerciale industriale;
d) che non poteva ritenersi che l'azienda rientrasse nell'ambito del
D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28, lett. b), (i cui reflui sono
assimilabili a quelli domestici) perché nella motivazione
della sentenza passata in giudicato non si rinveniva l'esistenza di una
connessione del terreno agricolo con le attività di
allevamento, ossia che l'azienda disponesse di almeno un ettaro di
terreno agricolo funzionalmente connesso alle attività di
allevamento per ogni 340 Kg. di azoto presenti negli effluenti prodotti
in un anno;
e) che il giudice dell'esecuzione non poteva compiere una valutazione
sulla sussistenza delle condizioni cui è subordinata la
produzione dell'effetto abrogativo, eseguendo accertamenti non compiuti
dal giudice della cognizione.
La Boschetti propone ricorso per Cassazione deducendo:
a) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 673 cod. proc. pen. e
D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28. Osserva preliminarmente che la
decisione su una richiesta di revoca ai sensi dell'art. 673 cod. proc.
pen. deve basarsi primariamente sul contenuto del capo di imputazione,
nel quale nella specie si parlava solo di scarico da allevamento di
bestiame (avicolo) per il quale oggi non è richiesta alcuna
autorizzazione a meno che non si tratti di allevamento che abbia
particolari connotazioni. Per la nuova legge infatti sono scarichi
domestici anche quelli provenienti da una azienda agricola. Nella
sentenza passata in giudicato il pretore aveva definito "civile" lo
scarico in questione, escludendo che esso potesse considerarsi
industriale (aveva invero ritenuto che fosse necessaria la
autorizzazione, sebbene fosse uno scarico civile, solo
perché i reflui erano allora considerati gravemente
inquinanti). Ora, il giudice dell'esecuzione non può
formulare un nuovo giudizio sul fatto o dare al fatto una diversa
qualificazione giuridica rispetto a quanto risulta dal giudicato.
Pertanto, poiché nella sentenza passata in giudicato era
affermato che non si trattava di uno scarico industriale, ma di uno
scarico civile, il giudice dell'esecuzione non poteva invece ritenere
che si trattasse di scarico industriale a cause delle grosse dimensioni
dell'azienda. D'altra parte, nella sentenza passata in giudicato non
è contenuta alcuna affermazione che consentisse di
assimilare l'azienda in questione ad una industria.
b) mancanza o manifesta illogicità della motivazione che ha
portato ad una erronea valutazione di quanto scritto nella sentenza
passata in giudicato con disapplicazione degli art. 674 cod. proc. pen.
e D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28. Richiama, sotto il profilo
del vizio di motivazione, le censure svolte col primo motivo. c)
mancanza di motivazione in relazione all'art. 163 cod. pen.
(sospensione condizionale della pena) ed al D.Lgs. 11 maggio 1999, n.
152, art. 59, comma 1. Osserva che il giudice nulla ha chiarito circa
la sospensione condizionale della pena e l'incapacità a
contrattare con la pubblica amministrazione. Deve ritenersi che sul
punto la revoca sia stata disposta implicitamente, perché la
pena definitivamente irrogata non è stata esplicitamente
sospesa e perché l'incapacità a contrattare non
è prevista dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 59, comma
1. Per la ipotesi che così non fosse chiede che sia escluso
un beneficio non richiesto ed una pena accessoria non più
irrogabile.
Nell'imminenza della udienza in Camera di consiglio la ricorrente ha
depositato memoria di replica alla requisitoria del Procuratore
generale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo ed il secondo motivo - che possono esser congiuntamente
esaminati - sono infondati. Essi infatti si basano su due assunti che
sono però entrambi inesatti.
Il primo assunto è costituito dalla affermazione che, sulla
base della disciplina introdotta dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, i
reflui provenienti da un allevamento di bestiame dovrebbero di per
sè considerarsi reflui domestici, a meno che non vi sia la
prova - che nella specie non emergerebbe dalla sentenza di condanna -
che sussistono le condizioni per qualificarli reflui industriali. La
regola normativa, però, è quella contraria.
Va ricordato che, nella vigenza della L. 10 maggio 1976, n. 319 -
tenuto conto che, in seguito dell'entrata in vigore del D.L. 17 marzo
1995, n. 79, convertito nella L. 17 maggio 1995, n. 172, l'apertura o
la effettuazione di scarichi civili sul suolo o nel sottosuolo senza la
prescritta autorizzazione non costituiva più reato e che, in
forza di quanto stabilito dal D.L. 10 agosto 1976, n. 544, art. 1
quater u.c., convertito con modificazioni nella L. 8 ottobre 1976, n.
690, le imprese agricole di cui all'art. 2135 cod. civ. erano
considerate insediamenti civili - la giurisprudenza di questa Corte
Suprema era costantemente orientata nel senso che l'allevamento di
bestiame non costituisse espressione dell'impresa agricola
(legislativamente considerata insediamento civile) ma rientrasse nella
nozione di insediamento produttivo quando nel rapporto terra- animali,
con riferimento alla previsione dell'art. 2135 cod. civ., comma 2, non
fosse la prima ad avere ruolo e funzione preponderanti. Era stata
dunque ritenuta essenziale, affinché si avesse impresa
agricola (e conseguentemente insediamento civile) la "connessione
funzionale dell'allevamento con la coltivazione della terra" e, tra i
criteri di individuazione di tale connessione si era fatto riferimento
a quelli (del rapporto tra spazio disponibile e numero dei capi di
bestiame; della proporzione tra il terreno coltivato ed il peso vivo
degli animali allevati; della destinazione all'allevamento dei due
terzi del prodotto strettamente agricolo del fondo) indicati dalla
Delib. 8 maggio 1980 del Comitato interministeriale di cui alla
medesima L. n. 319 del 1976, art. 3. Si affermava altresì
che tali criteri costituivano, comunque, parametri non esclusivi di
riferimento, rimanendo fondamentale - per determinare la natura
agricola dell'allevamento di bestiame - la prevalenza
dell'attività di coltivazione della terra e la
complementarietà ad essa funzionale dell'allevamento (che
non doveva rappresentare, in sostanza, l'attività
principale). Con l'entrata in vigore del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152
(che ha espressamente abrogato la L. n. 319 del 1976, la L. n. 690 del
1976 e la L. n. 172 del 1995) è stata sostituita la
precedente distinzione tra insediamenti produttivi e civili (che
presupponeva una diversa qualità delle acque di scarico in
relazione alla provenienza) con quella tra:
- "acque reflue industriali", nozione ricomprendente "qualsiasi tipo di
acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono
attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle
acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento";
- ed "acque reflue domestiche o di reti fognarie" (per le quali
è stata esclusa la sanzione penale in mancanza
dell'autorizzazione), intendendosi per "acque reflue domestiche" quelle
"provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e
derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da
attività domestiche" e per "reti fognarie" ogni "sistema di
condotta per la raccolta ed il coinvolgimento delle acque reflue
urbane".
Si è passati, dunque, dalla precedente distinzione di
disciplina per tipi di insediamento ad una distinzione per tipi di
acque di scarico. Sulla base di questa distinzione, pertanto, i reflui
degli allevamenti di bestiame, di per sè, poiché
non rientrano sicuramente tra le acque reflue domestiche ne' fra quelle
meteoriche di dilavamento, vanno qualificati come acque reflue
industriali, ai sensi del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 2, lett.
h). Per i detti scarichi degli allevamenti di bestiame è
stata tuttavia prevista una eccezione, in quanto il successivo art. 20
decreto cit., comma 7, dispone che - fatto salvo quanto previsto
dall'art. 38 decr. cit.. (in materia di utilizzazione agronomica degli
effluenti di allevamento zootecnico) e dalle diverse normative
regionali - ai fini della disciplina degli scarichi e delle
autorizzazioni sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque
reflue "provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame che
dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente
connesso con le attività di allevamento e di coltivazione
del fondo, per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti
di allevamento prodotti in un anno da computare secondo le
modalità di calcolo stabilite alla tabella 6 dell'allegato
5".
Ne consegue che, in tema di tutela delle acque dall'inquinamento, le
acque reflue provenienti da una attività di allevamento del
bestiame vanno considerate, ai fini della disciplina degli scarichi e
delle autorizzazioni, come acque reflue industriali, e che solo
eccezionalmente possono essere assimilate, ai detti fini, alle acque
reflue domestiche qualora sia dimostrata la presenza delle suddette
condizioni indicate dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28, comma
7, lett. b), (ossia quando vi sia la prova della connessione del
terreno agricolo con le attività di allevamento, consistente
nel fatto che l'impresa di allevamento disponga di almeno un ettaro di
terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di
allevamento e di coltivazione del fondo, per ogni 340 chilogrammi di
azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti in un anno da
computare secondo le modalità di calcolo stabilite alla
tabella 6 dell'allegato 5), mentre, in mancanza della prova della
presenza di queste caratteristiche dovranno applicarsi le regole
stabilite per le acque reflue industriali.
Nel caso di specie il giudice dell'esecuzione ha rilevato che la
presenza di tali condizioni, da cui dipendeva la applicazione della
disciplina eccezionale e derogatoria, non risultava dalla sentenza
passata in giudicato (in base alla quale doveva anzi presumersi che
tali condizioni non sussistessero, trattandosi di un allevamento di
200.000 polli all'anno) ed ha quindi esattamente osservato che in sede
esecutiva era precluso al giudice eseguire accertamenti non compiuti
dal giudice della cognizione al fine di verificare aliunde la eventuale
sussistenza delle condizioni in questione. Del tutto esattamente,
quindi, l'ordinanza impugnata ha ritenuto che, non emergendo dalla
sentenza di condanna la presenza dei presupposti che, sulla base della
nuova disciplina, avrebbero permesso in via eccezionale ai reflui da
allevamento di bestiame in questione di essere assimilati alle acque
reflue domestiche, il fatto continuava a costituire reato anche sulla
base della legge sopravvenuta. Il secondo assunto su cui si basa il
primo motivo è costituito dalla affermazione che, con la
sentenza passata in giudicato, il giudice della cognizione avrebbe
qualificato lo scarico in questione come scarico "civile", con la
conseguenza che il giudice dell'esecuzione sarebbe ormai vincolato a
questa qualificazione giuridica del fatto e dovrebbe quindi ritenere
che allo scarico stesso non sarebbero comunque applicabili le regole
relative agli scarichi industriali con la conseguenza che il fatto non
sarebbe più previsto come reato dalla nuova legge.
Anche questo assunto è però inesatto per diverse
ragioni. Innanzitutto, come rileva esattamente il Procuratore generale
nella sua requisitoria scritta, è "vero che, interpretando
secondo una certa ottica la normativa statale all'epoca vigente, la
sentenza di condanna fa rientrare l'insediamento in oggetto nella
categoria degli insediamenti civili, ma è altresì
vero che, alla luce della normativa regionale, integrativa di quella
statale, la medesima sentenza fa rientrare l'insediamento in esame
nell'ambito di operatività della norma penale
incriminatrice". Quello che conta, quindi, è che la sentenza
passata in giudicato ha ritenuto sussistente la condotta criminosa e
quindi la oggettività materiale del reato, la quale, per il
principio della continuità normativa, non è
cambiata, perché la condotta in esame, così come
è stata ritenuta col giudicato costituire reato sotto la
vecchia legge, continua a costituire reato anche sotto la nuova.
Ma, anche a prescindere da queste considerazioni, l'assunto della
ricorrente è infondato perché, anche ammesso che
la sentenza di condanna abbia compiuto una qualificazione del tipo di
insediamento come insediamento "civile" (anche se poi ha applicato la
norma incriminatrice per gli scarichi industriali) è
evidente che questa qualificazione era effettuata alla stregua delle
disposizioni della L. 10 maggio 1976, n. 319, e potrebbe comunque avere
valore ed efficacia esclusivamente ai fini delle dette disposizioni,
mentre nessun valore la qualificazione stessa potrebbe operare sulla
base ed ai fini delle sopravvenute disposizioni del D.Lgs. 11 maggio
1999, n. 152, che ha stabilito una nuova e differente classificazione e
distinzione tra i diversi tipi di scarichi, di acque reflue e di
insediamenti. Tanto è vero che, come si è dianzi
ricordato, la vecchia normativa distingueva tra insediamento produttivo
ed insediamento civile, mentre la nuova disciplina distingue tra acque
reflue industriali ed acque reflue domestiche, dando una definizione
delle acque reflue domestiche più restrittiva di quella che
precedentemente era applicabile agli insediamenti civili, e per
converso adottando una nozione più ampia di acque reflue
industriali. Anche a voler aderire alla tesi della ricorrente, quindi,
potrebbe tutt'al più ritenersi che sia passata in giudicato
(ma così non è) una qualificazione dello scarico
in questione come scarico da "insediamento civile", ma ciò
non sarebbe comunque sufficiente perché il fatto non sia
più previsto come reato, occorrendo a tal fine che si tratti
non già di uno scarico "civile", bensì di uno
scarico di "acque reflue domestiche" (o ad esse assimilato),
qualificazione questa che non era, e non poteva essere, contenuta nella
sentenza irrevocabile. La realtà quindi è che
quello che conta è in ogni caso la qualificazione dello
scarico secondo la nuova disciplina, classificazione che nella specie
ovviamente non poteva essere stata fatta dal giudice della cognizione.
Da qui l'irrilevanza, ai fini che interessano, delle qualificazioni
eventualmente contenute nella sentenza di condanna. Per quanto riguarda
il terzo motivo va invece osservato quanto segue. Quanto alla pena
accessoria della incapacità a contrattare con la pubblica
amministrazione, essa era prevista esclusivamente per il reato di cui
alla L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 21, comma 3, e non anche per
quello di cui all'art. 21, comma 1, così come non
è ora più prevista dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n.
152, art. 59. E difatti, la sentenza di condanna del pretore di
Ferrara, sezione distaccata di Codigoro, del 3 luglio 1989 aveva
espressamente applicato la pena accessoria unicamente in relazione al
reato di cui all'art. 21 cit., comma 3. Con l'ordinanza impugnata, il
giudice dell'esecuzione ha revocato la condanna per il reato di cui
alla L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 21, comma 3, ed ha revocato anche
le relative pene, precisando la pena per il residuo reato di cui alla
L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 21, comma 1.
È quindi di tutta evidenza che il giudice dell'esecuzione
con l'ordinanza impugnata ha revocato, oltre alla pena detentiva e
quella pecuniaria inflitte per il reato revocato, anche la pena
accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione (anch'essa inflitta esclusivamente per il reato
revocato), anche se della pena accessoria non è stata fatta
esplicita menzione nel dispositivo della ordinanza impugnata.
Fatta questa precisazione, il motivo di ricorso relativo alla pena
accessoria va rigettato, perché in realtà detta
pena è già stata revocata dalla ordinanza
impugnata.
Non può invece giungersi alla stessa conclusione per quanto
riguarda la sospensione condizionale della pena. Con la sentenza di
condanna, infatti, alla Boschetti furono concessi sia il beneficio
della sospensione condizionale sia quello della non menzione. Non
può quindi ritenersi che il giudice dell'esecuzione abbia
implicitamente revocato il primo beneficio mantenendo il secondo e,
d'altra parte, la stessa ricorrente non sostiene ne' chiede in alcun
modo che l'ordinanza impugnata debba essere interpretata nel senso
della revoca implicita anche del beneficio della non menzione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che devono essere condivise
le considerazioni svolte del Procuratore generale e considerare non
censurabile in questa sede la decisione del giudice della esecuzione di
non revocare il beneficio della sospensione condizionale della pena
concesso dal giudice della cognizione. Nè vi è
contrasto con la requisitoria fatta dal Procuratore generale in un
altro procedimento e riportata con la memoria di replica,
perché in quel caso il giudice dell'esecuzione - che
peraltro giudicava in sede di rinvio - aveva rigettato una richiesta di
esclusione della già concessa sospensione, richiesta che era
stata espressamente proposta dalla parte con l'istanza di riesame,
mentre nel caso in esame non risulta che la Boschetti abbia mai
richiesto al giudice dell'esecuzione l'eliminazione del solo beneficio
della sospensione condizionale della pena per il caso di accoglimento
parziale della sua domanda di revoca della sentenza di condanna. Non
può quindi censurarsi in sede di legittimità
l'operato del giudice dell'esecuzione per non avere questi (quand'anche
si ritenga che ciò rientrasse nei suoi poteri) provveduto
d'ufficio ad eliminare un beneficio concesso dal giudice della
cognizione.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna
della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di
Cassazione, il 17 novembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2006