Cass. Sez. III Sent. n. 36502 del 3112006 (Ud. 21/9/2006 )
Presidente: Teresi A. Estensore: Lombardi AM. Imputato: Ranzuglia.
(Rigetta, App. Ancona, 24 Novembre 2005)
ACQUE - Testo unico delle leggi sulle opere idrauliche R.D. 523 del 1904 - Divieti di cui all'art. 96 Comma primo lett. f) - Reato di pericolo - Ragioni.

Il reato di cui all'artt. 96 sub f) del R.D. 25 luglio 1904 n. 523 che vieta le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località ed, in mancanza di esse, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi, ha natura di reato di pericolo sicchè, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. TERESI Alfredo - Presidente - del 21/09/2006
Dott. MIRANDA Vincenzo - Consigliere - SENTENZA
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - N. 1436
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere - N. 5080/2006
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Avv. LEONARDI Alberto, difensore di fiducia di RANZUGLIA Remo, n. a Treia il 29.4.1948;
avverso la sentenza in data 24.11.2005 della Corte di Appello di Ancona, con la quale a conferma di quella del Tribunale di Camerino in data 24.2.2004, venne condannato alla pena di giorni dodici di arresto ed Euro 50,00 di ammenda, pena sospesa, quale colpevole del reato di cui al R.D. 25 luglio 1904, n. 523, artt. 93 e 96, alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 374, all. F, in relazione al R.D. 28 maggio 1931, n. 601, art. 1;
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in Pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. LOMBARDI Alfredo Maria;
Udito il P.M., in persona del Sost. Procuratore Generale Dott. CONSOLO Santi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Ancona ha confermato la pronuncia di colpevolezza di Ranzuglia Remo in ordine al reato di cui al R.D. 25 luglio 1904, n 523, artt. 93 e 96, alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 374, all. F, in relazione al R.D. 28 maggio 1931, n. 601, art. 1, ascrittagli, perché, quale legale rappresentante della ditta Sicit S.P.A., effettuava lavori di movimento terra per una lunghezza di mt. 47, nonché il prolungamento di muri di sostegno in cemento armato ad una distanza inferiore ai mt. 10 dalla sponda destra del corso d'acqua denominato Fosso S. Andrea, trattandosi di opere non eseguibili in modo assoluto.
La Corte territoriale ha rigettato i motivi di gravame con i quali l'appellante aveva dedotto di essere in possesso di un'autorizzazione in sanatoria per l'esecuzione di difese spondiali lungo il Fosso S. Andrea, nonché l'esistenza di una servitù di passaggio su una striscia di terreno latistante il corso d'acqua, per il cui recupero erano stati eseguiti i lavori, ed, infine, che gli interventi avevano determinato un miglioramento delle difese spondiali, chiedendone la verificazione mediante un accertamento peritale.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell'imputato, che la denuncia con due motivi di gravame.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione del R.D. 25 luglio 1904, n. 523, art. 57 e art. 58, comma 2.
Si osserva che le disposizioni citate "mentre assoggettano al controllo della P.A. i progetti per la modificazione degli argini e per costruzioni e modificazioni di altre opere, di qualsiasi genere, che possano direttamente o indirettamente influire sul regime dei corsi d'acqua ecc..., consentono un'eccezione per le opere eseguite dai privati per semplice difesa aderente alle sponde dei loro beni, che non alterano in alcun modo il regime dell'alveo". Si deduce, quindi, che tali principi di diritto sono stati puntualmente applicati da questa Suprema Corte nella pronuncia del 12.5.1994 n. 5633, con la quale si è affermata la non punibilità di una condotta carente di idoneità a recare pregiudizio all'interesse protetto dalla norma, mentre nel caso in esame i giudici di merito non hanno tenuto conto del fatto che i lavori eseguiti costituivano opera migliorativa della difesa spondiale.
Con il secondo mezzo di annullamento si denuncia, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), la mancata ammissione, senza adeguata motivazione, di un accertamento peritale tendente a comprovare la natura di opere migliorative e di difesa spondiale da ravvisarsi nell'intervento posto in essere dall'imputato sull'argine del Fosso S. Andrea.
Il ricorso non è fondato.
Rileva preliminarmente la Corte che con ordinanza emessa in udienza è stata disposta la trattazione del processo, malgrado la dichiarazione del difensore, trasmessa a mezzo fax, di adesione alla astensione dalle udienze essendo imminente la prescrizione del reato, destinata a verificarsi entro il termine indicato nell'art. 4 n. 1 lett. a) del Codice di autoregolamentazione adottato dalla Commissione di Garanzia in data 4.7.2002, con la conseguenza che nel caso in esame non è consentita l'astensione.
Osserva la Corte in ordine al primo motivo di gravame che la sentenza citata dal ricorrente si riferisce alla fattispecie di cui al R.D. 25 luglio 1904, n. 523, art. 96, comma 1, lett. g), ai sensi del cui disposto è sanzionata l'esecuzione di "qualunque opera o fatto che possa alterare lo stato la forma, le dimensioni, la resistenza e la convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori come sopra, e manufatti attinenti".
Si tratta con tutta evidenza di un'ipotesi di reato di danno, sicché la giurisprudenza citata dal ricorrente non ha fatto altro che evidenziare la necessità di un concreto accertamento del danno arrecato agli argini e loro accessori, dovendosi escludere la sussistenza del reato ogniqualvolta l'esecuzione delle opere non abbia alterato in alcun modo il regime del corso d'acqua. La sentenza impugnata ha, invece, affermato la colpevolezza dell'imputato per la diversa fattispecie contravvenzionale di cui al R.D. 25 luglio 1904, n. 523, art. 96, comma 1, lett. f), ai sensi del cui disposto sono vietate in modo assoluto "le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi.
Si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, essendo puniti comportamenti ritenuti dal legislatore potenzialmente lesivi dell'assetto idrogeologico del territorio e, quindi, del corrispondente interesse pubblico, sicché la fattispecie contravvenzionale viene integrata dalla mera commissione dei fatti vietati dalla norma.
Orbene, la esecuzione delle opere di cui alla contestazione nella specie ha costituito oggetto di puntuale accertamento nella sede di merito, mentre non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia altresì recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde, risultando peraltro evidente per l'entità di tali opere la loro potenziale offensività.
Il rigetto del primo motivo di gravame si palesa assorbente delle censure formulate con il secondo, risultando alla luce di quanto esposto la irrilevanza dell'accertamento peritale richiesto al fine di escludere la colpevolezza dell'imputato.
A proposito di tale motivo di gravame, peraltro, si deve anche osservare che la perizia non costituisce mezzo di prova nella disponibilità delle parti, sicché la mancata ammissione della stessa non è, in ogni caso, censurabile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d).
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al rigetto dell'impugnazione segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 21 settembre 2006. Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2006