Cass. Sez. III n. 36633 del 29 agosto 2019 (UP 11 lug 2019)
Pres. Ramacci Est. Mengoni Ric. Scavo
Beni culturali.Impossessamento illecito
Per l'impossessamento illecito di beni appartenenti allo Stato, non è necessario che i beni siano qualificati come tali da un formale provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche dell'oggetto, non essendo richiesto neppure un particolare pregio.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 3/10/2018, la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della pronuncia emessa il 1°/3/2017 dal locale Tribunale, rideterminava in tre mesi di reclusione e 250,00 euro di multa la pena inflitta a Rodolfo Scavo in ordine al delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 176, d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- inosservanza od erronea applicazione dell’art. 176 contestato, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna pur in assenza di prova circa la rilevanza archeologica dei beni in sequestro, mai accertata e sostenuta con il richiamo al vago concetto di “culturalità” degli stessi oggetti; quanto, poi, alle dichiarazioni della teste Vanaria, queste sarebbero state palesemente travisate, concernendo non i reperti di cui alla rubrica, ma altri, in precedenza consegnati dallo Scavo in modo spontaneo, con redazione del conseguente verbale. In sintesi, dunque, non vi sarebbe prova quanto alla rilevanza culturale dei beni in contestazione, non potendosi al riguardo richiamare la passione dell’imputato alla materia. Analoga censura (motivo n. 2) è poi mossa quanto al profilo soggettivo, nell’esame del quale la Corte non avrebbe valutato proprio la consegna puntuale e spontanea di altri reperti, da parte del ricorrente, in epoca precedente ai fatti in esame;
- inosservanza o erronea applicazione degli artt. 131-bis e 133 cod. pen. La sentenza avrebbe negato la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto con riferimento esclusivo ad un precedente penale – peraltro risalente al 2003 – che, di per sé, non avrebbe potuto costituire ostacolo all’applicazione dell’istituto, come da costante giurisprudenza sul tema;
- inosservanza o erronea applicazione dell’art. 81 cpv. cod. pen. La Corte di appello avrebbe applicato la continuazione tra le condotte di impossessamento pur difettando la prova che le stesse fossero state tenute in tempi diversi; nessun atto processuale, al riguardo, sarebbe stato citato;
- le stesse censure motivazionali, da ultimo, sono sollevate con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta solo parzialmente fondato.
Con riguardo alla prima censura, in punto di responsabilità, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
4. In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; dietro la parvenza di una violazione di legge o di un vizio motivazionale (anche in tema di travisamento della prova), infatti, lo stesso tende ad ottenere in questa sede una nuova e diversa lettura delle medesime emergenze istruttorie – soprattutto testimoniali – già esaminate dai Giudici del merito, invocandone una valutazione alternativa e più favorevole.
Il che, come appena richiamato, non è consentito.
A ciò si aggiunga che la Corte di appello – pronunciandosi proprio sulla stessa censura – ha steso una motivazione del tutto congrua e non manifestamente illogica, come tale dunque non censurabile.
5. In particolare, la sentenza ha in primo luogo richiamato il costante indirizzo di legittimità in forza del quale il reato di impossessamento illecito di beni culturali (art. 176 in esame) non richiede, quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, l'accertamento del cosiddetto interesse culturale, né che i medesimi siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, essendo sufficiente che la "culturalità" sia desumibile dalle caratteristiche del bene (tra le molte, Sez. 3, n. 2, n. 36111 del 18/7/2014, Medda, Rv. 260366; Sez. 3, n. 24344 del 15/5/2014, Rapisarda, Rv. 259305). Si sostiene, infatti, che la fattispecie in oggetto sanziona penalmente chiunque si impossessa di beni culturali indicati nell'art. 10 appartenenti allo Stato ai sensi dell'art. 91. E che, pur essendo vero che l'art. 10, comma 3, richiamato dall'art. 176, definisce beni culturali altresì le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico...particolarmente importante..., appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1 (vale a dire Stato, Regioni ed altri Enti pubblici o persone giuridiche), risulta chiaramente, dal testo normativo, che è richiesto un qualificato interesse archeologico, culturale, storico soltanto per i beni appartenenti a privati, ma non per quelli appartenenti allo Stato.
Va ribadito, quindi, l'indirizzo interpretativo, già formatosi sotto la vigenza dell'abrogato d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Sez. 3 200347922, Petroni, Rv. 226870; Sez. 3, 200145814, Cricelli, RV 220742; Sez. 3, n. 200142291, Ucciardello, Rv. 220626) ed anche con riferimento al d. lgs. n. 42 del 2004 (Sez. 3 n. 39109 del 2006, ric. Palombo), in forza del quale per l'impossessamento illecito di beni appartenenti allo Stato, non è necessario che i beni siano qualificati come tali da un formale provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche dell'oggetto, non essendo richiesto neppure un particolare pregio.
6. Tanto premesso in termini generali, la Corte di appello ha quindi concluso che, nel caso di specie (relativo a cerniere, chiodi, monete, punte freccia ed un vaso di ceramica), non risultava necessario alcun esame tecnico-strumentale per verificare l’autenticità dei reperti rinvenuti preso l’abitazione del ricorrente, peraltro soggetto appassionato della materia ed in possesso, quantomeno, di competenze minime per scorgere negli oggetti l’intrinseco “interesse culturale”. Quel che, peraltro, la sentenza ha poi sostenuto anche con prova testimoniale – quanto ad alcune monete – richiamando la deposizione della teste Vanaria, dettasi sicura dell’autenticità dei reperti, precisando che “alcune monete erano provenienti propriamente da Naxos e che tutte, in generale, erano di origini siciliote o magno greche e di certo valore storico archeologico.” E senza che, in termini contrari, si possa accedere al prospettato travisamento della prova, tale non risultando – anche dalla lettura dei verbali allegati al ricorso – con la dovuta evidenza; il riferimento ad altri beni in precedenza riconsegnati dallo Scavo, infatti, è intervenuto nella deposizione (ad opera del pubblico ministero, quindi del difensore) solo dopo che la teste si era espressa con piena sicurezza in ordine a quelli di cui al presente processo, risultando dunque irrilevante.
7. Quanto precede, inoltre, assume significato anche in relazione all’elemento soggettivo del reato, adeguatamente sostenuto in sentenza con riferimento al dolo generico richiesto dalla norma e ben individuato nel caso di specie; quel che, peraltro, non può certo esser superato dal richiamo fattuale, di cui al ricorso, al citato, precedente episodio di consegna spontanea di reperti, sempre ad opera del ricorrente, che nessuna incidenza può avere sulla vicenda in questione.
L’impugnazione in punto di responsabilità, pertanto, risulta infondata.
8. Con riguardo, poi, al diniego delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, questo è stato motivato con la presenza di un grave precedente penale, giudicato negativamente sia con riguardo alla condotta in esame (rectius: plurime condotte riunite in continuazione), sia alla prognosi su quelle future, che il Collegio di appello ha per ciò ritenuto non favorevole. Ebbene, trattasi di una motivazione adeguata e sufficiente, con la quale il Tribunale ha fatto buon governo del costante e condiviso indirizzo in forza del quale, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il Giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (per tutte, Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899).
9. Fondato, per contro, risulta poi il ricorso con riguardo alle doglianze in punto di continuazione e di causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Con riguardo alla prima, si osserva che la sentenza ne ha riconosciuto la sussistenza con argomento palesemente apodittico, ossia sul presupposto che “i reati contestati – proprio in ragione del fatto che ciascuno di essi inerisce al singolo bene prelevato – integrano distinte condotte delittuose volte alla realizzazione di un medesimo disegno criminoso”; in tal modo, dunque, facendo derivare dalla pluralità di oggetti ex se, anche in mancanza di qualunque altro elemento, una pluralità di condotte, senza dunque valutare l’eventuale identità del contesto (temporale e spaziale) del ritrovamento.
Parimenti viziata, poi, è la sentenza quanto alla citata causa di esclusione della punibilità, negata soltanto in ragione di un precedente penale. Quel che non è consentito dalla lettera dell’art. 131-bis cod. pen., che menziona l’art. 133 cod. pen. con riguardo al solo comma 1, non anche al successivo (che, in punto di capacità a delinquere del colpevole, richiama anche i precedenti penali e giudiziari), come peraltro già più volte affermato anche da questa Corte (tra le altre, Sez. 3, n. 35757 del 23/11/2016, Sacco, Rv. 270948).
Con riguardo esclusivo a tali due punti, dunque, si dispone l’annullamento della sentenza con rinvio; rigetto nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla applicabilità della continuazione e della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. e rinvia alla Corte di appello di Reggio Calabria. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, l’11 luglio 2019