Assemblea
dei circoli 2001 di Grosseto
Immense
aree industriali ed innumerevoli discariche abusive da bonificare. Centinaia di
miliardi pubblici stanziati per cofinanziare il risanamento imposto per legge
agli inquinatori. Ma di bonifiche portate a termine non se ne vede traccia. Qual
è il problema? Proviamo ad il punto della situazione, cercando di capire il
motivo per cui le bonifiche in Italia sono da troppo tempo in un “limbo” da
cui faticano ad uscire.
Il
quadro normativo in italia
In
materia di normativa sulle bonifiche dei siti contaminati l’Italia per una
volta ha smentito la sua “fama” di eterna ritardataria tra gli Stati
dell’Unione europea: risale, infatti, alla fine degli anni ’80 il primo
decreto sul tema. Il decreto ministeriale del 16/05/89 stanziò i primi
finanziamenti destinati alle Regioni, per permettere loro la pianificazione
degli interventi di bonifica, e rappresentò l’input per arrivare ad un primo
censimento dei siti inquinati. Sulla base di questa “anagrafe” dei siti da
bonificare alcune regioni, le più all’avanguardia, cominciarono nelle
operazioni di ripristino ambientale, senza poter contare peraltro su una legge
nazionale di riferimento che inquadrasse la tematica delle bonifiche.
Successivamente
fu l’articolo 17 del D.Lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997 a riprendere il problema
delle bonifiche. Il Decreto Ronchi stabilì gli obblighi di chi ha causato
l’inquinamento, in attuazione del sacrosanto
principio comunitario “Chi inquina paga”, e definì le competenze delle
amministrazioni locali, rimandando la definizione delle norme tecniche ad un
successivo decreto ministeriale di attuazione, che vide la luce però solo due
anni e mezzo dopo. Venne inoltre sancito che per casi di particolare interesse
nazionale si poteva prevedere il finanziamento pubblico ad interventi di
bonifica fino ad un massimo del 50% delle spese totali.
Ad
entrare nel merito di quest’ultima questione è stata la legge n. 426 del 9
dicembre 1998 (“Nuovi interventi in campo ambientale”). Viene preannunciato
un “Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti
inquinati” sulla base del lavoro congiunto del Ministero dell’Ambiente e
della Conferenza Stato - Regioni. Vengono inoltre stanziate diverse centinaia di
miliardi di lire per i primi “siti di interesse nazionale” individuati, e
cioè Porto Marghera (Venezia), Napoli orientale, Gela e Priolo, Manfredonia,
Brindisi, Taranto, Cengio e Saliceto, Piombino, Massa e Carrara, Casal
Monferrato, il litorale Domizio - Flegreo e l’Agro aversano, l’area di
Pitelli (La Spezia), Balangero e Pieve Vergonte.
Il
15 dicembre 1999 viene finalmente pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il Decreto
ministeriale 471/99, che definisce le norme tecniche sulle bonifiche, in
attuazione di quanto previsto nel Decreto Ronchi. Nel D.M. 471/99 viene fornita
una chiara definizione di sito inquinato, e cioè quando la concentrazione di
una o più sostanze inquinanti nel suolo o nelle acque di falda o superficiali
supera i valori di concentrazione limite accettabili stabiliti nell’allegato
al decreto, riferiti alle due categorie di siti individuate: ad uso verde e
residenziale e ad uso commerciale ed industriale.
Le
novità principali rispetto alla normativa precedente riguardano i seguenti
aspetti: il decreto affronta l’inquinamento di ogni tipo di sito,
indipendentemente dalla sua dimensione (riguarda quindi sia il piccolo
distributore di benzina che il polo petrolchimico di Porto Marghera), mentre
viene estesa la definizione di sito inquinato ad aree in cui sono insediate
industrie ancora in attività. Alle Regioni viene richiesto l’aggiornamento
dei censimenti regionali dei siti potenzialmente contaminati previsti dal
Decreto Ronchi, e, sulla base dei criteri definiti dall’Agenzia nazionale
protezione ambiente (Anpa), la definizione dell’Anagrafe dei siti da
bonificare.
Lo
scenario attuale e gli sviluppi futuri in Italia
Se
per quanto riguarda la normativa l’Italia ha dimostrato, anche se con un certo
ritardo, di potersi paragonare agli altri Paesi industrializzati, la stessa cosa
non si può assolutamente dire sul versante delle bonifiche effettivamente
realizzate. Eppure i siti inquinati in Italia su cui lavorare non mancano. Basti
pensare alle aree ad interesse nazionale già individuate con la legge 426/98,
ai siti censiti dalle Regioni oppure alle innumerevoli discariche abusive
rinvenute ogni anno dalle forze dell’ordine (di cui si può trovare una
raccapricciante cronistoria nell’annuale Rapporto Ecomafia di Legambiente).
Il meccanismo virtuoso che il Superfund ha innescato negli Stati Uniti, in termini di sviluppo di tecnologie, di metodologie di analisi e di formazione di figure professionali all’altezza, non ha assolutamente riguardato il nostro Paese. Se infatti negli Usa parte dei dollari raccolti nel Superfund sono stati investiti in attività di ricerca e sperimentazione di nuove tecnologie, l’Italia stenta fortemente a trovare risorse da destinare a centri di ricerca ed università specializzati nel settore, a scapito degli obiettivi di risanamento prefissati.
Lo stesso impianto normativo italiano mostra alcune carenze. Si pensi ad esempio all’autodenuncia delle aziende che operano su siti inquinati, prevista dal decreto ministeriale sulle bonifiche. La scadenza su tale questione, inizialmente prevista per il 16 gennaio 2000, fu posticipata al 31 marzo 2001 sotto le forti pressioni del mondo imprenditoriale. Se alcune delle motivazioni avanzate dagli imprenditori potevano avere un minimo di fondamento (si poneva il problema di mettere nel bilancio dello scorso anno i costi dell’intero intervento di risanamento, con rilevanti conseguenze di carattere finanziario), è apparso assolutamente fuori luogo risolvere il problema con una proroga “tout court”, senza intervenire sul problema che era stato sollevato.
Nel frattempo si sono registrate alcune timide ma importanti novità per le bonifiche di alcuni siti di interesse nazionale. Per quanto riguarda l’Acna, il commissariamento per la bonifica sembra finora andato nella giusta direzione. E’ stato firmato l’accordo di programma tra EniChem e Ministero dell’Ambiente per far partire il risanamento dell’Acna di Cengio. I 350 miliardi di investimenti previsti (300 a carico dell’EniChem e 50 a carico dello Stato) verranno spesi per prosciugare le lagune stracolme di rifiuti pericolosi, che, una volta essiccati, dovrebbero essere trasportati in treno e smaltiti in una miniera di salgemma in Germania, e per mettere in sicurezza altre montagne di rifiuti presenti nell’area industriale della Val Bormida. Anche se, vale la pena sottolinearlo, è del tutto evidente che la soluzione del risanamento dell’Acna di Cengio non potrà mai essere solo il trasporto su rotaia dei fanghi dei “lagoons” in Germania e di quant’altro ha inquinato la Val Bormida.
Per quanto riguarda Porto Marghera, tralasciando in questa sede l’esito vergognoso del primo grado del processo contro i dirigenti del petrolchimico, si può ricordare quanto segue. E’ stato siglato, tra Regione Veneto e Ministero dell’Ambiente, un atto integrativo all’accordo di programma firmato nell’ottobre ‘98 sulla chimica a Porto Marghera, che di fatto semplifica le procedure di risanamento ed armonizza quell’accordo di programma con il decreto ministeriale sulle bonifiche, approvato successivamente. Anche in questo caso almeno tre anni sono andati persi per vizi formali, mentre Marghera continua ad inquinare la laguna di Venezia.
Lascia sbalorditi inoltre la vicenda della transazione di 525 miliardi di lire tra Montedison e Ministero dell’ambiente, a cui si è ipotizzato possa seguire quella con Enichem di circa 400 miliardi di lire. Non perché questa cifra possa permettere o meno la bonifica di Porto Marghera, ma per il fatto che la transazione farà desistere il Ministero dal ricorrere in appello contro la sentenza assolutoria del processo su Porto Marghera, così come già dichiarato dalo steso ministro. Il quesito che ci poniamo è per certi versi banale: ma cosa centrano i miliardi che Montedison ed Enichem devono, ripetiamo devono, pagare per risanare i siti contaminati dalle loro attività produttive, con il ricorso in appello in un processo svoltosi soprattutto per determinare le responsabilità delle morti degli operai del petrolchimico? Il nostro quesito supponiamo sia destinato a rimanere senza risposta.
Ma
veniamo all’oggi. Oltre mille miliardi per i 40 siti di interesse nazionale.
E’ questo quanto previsto dal decreto del Ministero dell’ambiente che varerà,
appena ricevuto il benestare dalla Corte dei Conti, il Programma nazionale di
bonifica dei siti contaminati. Il decreto individua altre 23 aree contaminate da
risanare, che si aggiungono alle 17 già previste dalla legge 426/98 e dalla
legge finanziaria del 2001. Il programma prevede lo stanziamento di circa 600
miliardi di lire per il 2001, di 200 per il 2002 e di altrettanti miliardi di
lire per il 2003. Questi soldi, che andranno a cofinanziare gli interventi
imposti per legge a chi ha causato la contaminazione, saranno in primo luogo
destinati alla messa in sicurezza d’emergenza e alla caratterizzazione del
sito, e poi alle successive operazioni di bonifica o eventualmente di messa in
sicurezza permanente.
Nel
piano nazionale di risanamento sono presenti vecchie conoscenze, tanto per fare
due esempi il “tristemente noto” polo industriale di Porto Marghera (Ve) e
l’area del petrolchimico di Brindisi, ma anche una serie di new
entry, tra le altre l’inquinamento da cromo della Stoppani di Cogoleto
(Ge) e l’area del comune di Biancavilla (Ct), costruito praticamente con e
sull’amianto. Va segnalata infine l’individuazione di siti contaminati da
imponenti smaltimenti illeciti di rifiuti speciali e pericolosi, denunciati da
anni nei Rapporti ecomafia di Legambiente. In particolare il litorale domizio -
flegreo e l’agro aversano (Ce), le discariche di Pitelli (Sp), gli oltre 110
siti interessati da smaltimenti abusivi di rifiuti della provincia di Frosinone
e le aree del crotonese interessate dalla contaminazione da ferriti di zinco e
cromo.
Nonostante questi timidi segnali positivi e nonostante il Ministro dell’Ambiente stia per varare il Piano nazionale delle bonifiche, ancora non ci siamo. Le tecnologie per risanare i siti contaminati ci sono e vanno utilizzate al meglio. Si deve fare in modo, e questo vale per tutti i siti inquinati del nostro Paese per i quali è possibile intervenire, che le bonifiche siano “vere” bonifiche, perché una semplice messa in sicurezza, anche se permanente, non può bastare. Soprattutto a chi, come Legambiente, “in nome del popolo inquinato” non è mai stato disponibile a fare sconti a nessuno.
Tra la mancanza di fondi da destinare alla ricerca, le proroghe richieste dagli industriali e formalizzate dal Parlamento e le troppe lungaggini burocratiche relative agli interventi previsti, i siti contaminati sono ancora lì che aspettano di essere bonificati. Nel frattempo si continua a morire dell’inquinamento di suolo e falde acquifere. E non è la nostra associazione a sostenerlo. Sono i dati e i documenti periodicamente pubblicati da organi più che qualificati come l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Istituto superiore della sanità. C’è ancora tempo da perdere?
I 40 siti di interesse nazionale
Valle
d’Aosta
1.
Emarese - Aosta (inquinamento da amianto);
Piemonte
2.
Casal Monferrato (Alessandria) (produzione di manufatti di cemento -
amianto, presenza diffusa di coperture di edifici in eternit e di
“polverino” di amianto);
3.
Balangero (Torino) (area di estrazione, lavorazione e discariche di
amianto, vasche di decantazione fanghi);
4.
Pieve Vergonte (Verbania) (azienda chimica dove è stato prodotto, tra
l’altro, DDT);
5.
Basse di Stura - Torino (smaltimento abusivo di rifiuti industriali);
Piemonte
e Liguria
6.
Cengio (Savona) e Saliceto (Cuneo) (stabilimento ACNA C.O. per la
produzione di intermedi organici);
Liguria
7.
Pitelli (La Spezia) (discariche di rifiuti urbani, industriali e
pericolosi, carbonili, produzione di piombo, cantieristica navale);
8.
Cogoleto - Stoppani (Genova) (inquinamento da cromo);
Lombardia
9.
Sesto San Giovanni (Milano) (area siderurgica Falck);
10.
Pioltello Rodano (Milano) (industrie chimiche per la produzione di
solventi e acetati, industrie farmaceutiche);
11.
Bovisa - Milano (inquinamento da distillazione del carbone);
12.
Cerro al Lambro (Milano) (inquinamento da raffinazione di oli usati e
terre decoloranti esauste);
Trentino
Alto Adige
13.
Bolzano (ex produzione di magnesio e alluminio da bauxite);
14.
Trento nord (ex produzioni del comparto chimico e della distillazione del
catrame);
Veneto
15.
Venezia - Porto Marghera (aziende chimiche, petrolchimiche,
metallurgiche, meccaniche, cantieristica navale);
16.
Mardimago e Ceregnano - Rovigo (smaltimento abusivo di rifiuti
industriali, fluff);
Friuli
Venezia Giulia
17.
laguna di Grado (Gorizia) e Marano (Udine) (inquinamento da mercurio da
produzione cellulosa);
18.
Trieste (area portuale interessata da raffinerie e depositi di
idrocarburi);
Emilia
Romagna
19.
Fidenza (Parma) (produzione di fertilizzanti e industria petrolifera);
20.
comprensorio Sassuolo (Modena) - Scandiano (Reggio Emilia) (aree
industriali dismesse del comprensorio della ceramica);
Toscana
21.
Piombino (Livorno) (aziende siderurgiche, produzione di laminati e
tubazioni zincati);
22.
Massa e Carrara (aziende petrolchimiche, siderurgiche, farmaceutiche);
23.
Livorno (inquinamento da attività portuale);
Umbria
24.
Terni (attività del comparto siderurgico);
Marche
25.
Basso bacino del fiume Chienti (inquinamento da solventi dall’industria
calzaturiera);
Lazio
26.
provincia di Frosinone (abbandoni incontrollati di rifiuti anche speciali
e pericolosi);
Abruzzo
27.
fiumi Saline e Alento (abbandoni incontrollati di fanghi di depurazione e
rifiuti da produzione di solventi e vernici);
Molise
28.
Guglionesi II (Campobasso) (inquinamento da metalli pesanti per
smaltimento incontrollato di rifiuti industriali);
Campania
29.
Napoli orientale (aziende petrolchimiche e manifatturiere);
30.
Napoli Bagnoli - Coroglio (ex stabilimenti siderurgici e di produzione di
cemento e cemento - amianto, produzione di fertilizzanti);
31.
Litorale Domizio - Flegreo e Agro Aversano (Caserta) (presenza diffusa di
numerose discariche di rifiuti urbani e industriali);
Basilicata
32.
Tito (Potenza) (abbandoni incontrollati di fanghi di depurazione e
rifiuti da produzione di concimi, cemento - amianto e da attività siderurgica);
Puglia
33.
Manfredonia (Foggia) (produzione di fertilizzanti, fibre artificiali e
tecnopolimeri);
34.
Brindisi (stabilimento petrolchimico, industrie metallurgiche e
farmaceutiche);
35.
Taranto (raffineria, industria siderurgica e cementiera);
36.
Fibronit - Bari (inquinamento da amianto);
Calabria
37.
Crotone (abbandoni incontrollati di rifiuti da attività siderurgica e
chimica);
Sicilia
38.
Gela (Caltanissetta) e Priolo (Siracusa) (raffinerie, stabilimenti
petrolchimici, centri di stoccaggio oli, pipeline, produzione di cemento -
amianto);
39.
Biancavilla (Catania) (inquinamento da amianto);
Sardegna
40.
Sulcis Iglesiente Guspinese (enormi aree minerarie dismesse);