Cass. Sez. III n. 15965 del 27 maggio 2020 (CC 11 feb 2020)
Pres. Di Nicola Est. Andronio Ric. Santarelli
Ecodelitti.Confisca di cui all’art 452-undecies cod. pen.
E’ diversa la funzione riconducibile alla confisca di cui all’art 452-undecies cod. pen., rispetto a quella discendente dalla violazione delle disposizioni contravvenzionali. La confisca ex art. 452-undecies cod. pen., presenta, infatti, profili peculiari, in quanto caratterizzata non tanto da una funzione punitivo-sanzionatoria, bensì da una funzione risarcitoria-ripristinatoria, laddove, invece, la confisca ex art. 260-ter D.lgs. n. 152 del 2006 integra una misura di sanzionatoria, con funzione eminentemente repressiva.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 17 settembre 2019, il Tribunale di Frosinone ha rigettato l’appello cautelare proposto dal difensore dell’imputato avverso il provvedimento emesso dallo stesso Tribunale di Frosinone, con il quale era stata rigettata la richiesta di restituzione dell’autotreno di proprietà della “Gemitrans s.r.l.”, di cui l’imputato era direttore tecnico, sottoposto a sequestro in relazione al reato contravvenzionale di cui all’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006, per avere trasportato rifiuti speciali pericolosi e non, in assenza delle necessarie autorizzazioni.
2. Avverso l’ordinanza l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, articolando un unico motivo di gravame, con il quale si deducono la violazione dell’art. 452-undecies cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto non estensibile l’istituto premiale contemplato dall’ultimo comma della suddetta disposizione alle fattispecie contravvenzionali in materia ambientale.
In particolare, riproponendo le doglianze già articolate nell’atto d’appello, la difesa evidenzia che l’impossibilità di estendere l’ipotesi di esclusione della confisca – prevista dall’art. 452-undecies, quarto comma, cod. pen. in relazione a talune fattispecie delittuose contemplate dal codice penale (artt. 452-bis, 452-quater, 452-sexies, 452-septies e 452-octies) – alle fattispecie contravvenzionali disciplinate dal codice dell’ambiente, contrasterebbe con il principio di uguaglianza formale e sostanziale, costituzionalmente tutelato dall’art. 3, in quanto consentirebbe di sottoporre a trattamento differenziato situazioni analoghe in presenza di identici presupposti, rappresentati dalla bonifica o dal ripristino dello stato dei luoghi. Del tutto illogico sarebbe, secondo la tesi difensiva, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale per dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con l’atto di appello. Le tre argomentazioni seguite dallo stesso Tribunale, basate sulla diversità delle condotte disciplinate, rispettivamente, nel codice penale e nel codice dell’ambiente, nonché sulla diversità degli interessi in esse tutelati e la diversa finalità cui risponde l’istituto della confisca nei due ambiti, si prestano, a parere della difesa, a rilevanti obiezioni. Sotto il primo profilo, si sostiene, in particolare, che l’unico tratto distintivo tra le condotte attiene alla qualificazione giuridica delle fattispecie astratte nelle quali esse sono descritte – qualificazione che rispecchia il carattere più o meno grave della previsione normativa – che conduce alla ripartizione tra delitti disciplinati dal codice penale e contravvenzioni contenute nel codice dell’ambiente. Tuttavia, il fatto che il legislatore non abbia previsto tout court la confisca per tutte le fattispecie incriminatrici disciplinate dal codice penale, ma ne abbia circoscritto l’applicazione ai casi di violazione di norme codicistiche la cui condotta sia in grado di causare un pregiudizio serio e irreversibile all’integrità ambientale, escludendo ab origine dall’alveo applicativo dell’istituto i delitti colposi di cui agli art. 452-ter e 452-quinquies cod. pen., indipendentemente dal compimento di qualunque di attività bonifica, dimostrerebbe che il criterio impiegato per stabilire i casi cui è applicabile la confisca è quello della gravità del reato commesso. La correttezza di tale assunto si ricaverebbe interpretando a contrario i principi sanciti in talune pronunce della Corte di cassazione (Sez. 3, n. 18774 del 29/02/2012; Sez. 3, n. 35879 del 25/06/2008 e Sez. 3, n. 4746 del 12/12/2007). Pertanto, per la difesa, sarebbe irrazionale la previsione di un’ipotesi di esclusione della confisca il cui ambito applicativo sia limitato alle fattispecie delittuose codicistiche e non sia suscettibile di essere esteso alle ipotesi contravvenzionali contemplate dal codice dell’ambiente, ab origine meno gravi. Non sussisterebbe, inoltre, l’affermata diversità degli interessi tutelati dalle norme incriminatrici e contravvenzionali, potendosi individuare l’ambiente quale unico bene giuridico tutelato in tutte le fattispecie, quale che sia la loro natura. Priva di rilievo si ritiene, parimenti, l’ultima argomentazione adottata dal Tribunale, secondo la quale la confisca che discende dalla violazione dell’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006, risponde a una finalità squisitamente sanzionatoria e di “rappresaglia nei confronti dell’autore del reato”, in quando ha ad oggetto il mezzo necessario per la commissione del reato stesso e mira, tramite la privazione di esso, a scongiurare il rischio di recidivanza; laddove, invece, il vincolo derivante dalla confisca ex art. 452-undecies cod. pen., persegue il diverso scopo di fornire all’amministrazione i mezzi adeguati per procedere alla bonifica dello stato dei luoghi. Al riguardo, partendo dall’assunto per il quale in ambedue le ipotesi si tratta di confisca obbligatoria ex art. 240, secondo comma, cod. pen., la difesa osserva che anche la confisca di cui all’art. 452-undecies cod. pen. risponde ad una funzione punitiva non diversa da quella descritta per la violazione dell’art. 256 del t.u. sull’ambiente, in quanto anch’essa è incentrata sull’espropriazione del bene utilizzato per la commissione del reato, a nulla rilevando la destinazione del bene sottoposto a vincolo. L’analogia di funzioni tra le due ipotesi di confisca sarebbe agevolmente ricavabile dalla stessa formulazione letterale dell’art. 452-undecies, cod. pen., che non lascia spazio ad ambiguità, dal momento che oggetto della confisca secondo tale disposizione sono «le cose che costituiscono il prodotto, il profitto del reato e quelle che servirono a commetterlo»; laddove, invece, a voler seguire la tesi cui ha aderito il giudice relativa alla funzione “ripristinatoria” della confisca ex art. 452-undecies cod. pen., il legislatore avrebbe dovuto limitare l’apposizione del vincolo ai soli beni coinvolti nel compimento dell’attività di bonifica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. La questione prospettata dalla difesa coinvolge la legittimità costituzionale della fattispecie di cui all’art. 452-undecies cod. pen., nella parte in cui non prevede che l’istituto della confisca possa essere disapplicato, in caso di messa in sicurezza, attività di bonifica e ripristino dello stato dei luoghi, anche in relazione alla violazione ambientale di cui all’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006. In estrema sintesi, sarebbe irragionevole la scelta del legislatore di precludere all’autore del reato contravvenzionale che abbia posto in essere l’attività riparatoria, di beneficiare di tale causa di esclusione della confisca, sia in ragione del fatto che le fattispecie contravvenzionali sono da considerarsi per loro natura meno gravi delle ipotesi delittuose codicistiche, sia perché dovrebbe ritenersi unica e unitaria la funzione della confisca, che persegue in ogni caso una finalità sanzionatoria volta a punire l’autore del reato, indipendentemente dalla destinazione dei beni confiscati.
1.2. La questione deve ritenersi manifestamente infondata, potendosi escludere che l’omessa previsione di un’ipotesi di disapplicazione della confisca in relazione alle fattispecie contravvenzionali contemplate del codice dell’ambiente comporti la violazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale costituzionalmente garantito. Risulta dirimente, invero, il criterio – ben evidenziato dal giudice nel provvedimento impugnato – della diversa finalità dell’istituto della confisca ex art. 452-undecies cod. pen., rispetto a quello contemplato dell’art. 260-ter, ultimo comma, del d.lgs. n. 152 del 2006, applicata all’imputato, che impedisce, a rigore, di considerare analoghe tali situazioni.
In punto di diritto, appaiono necessarie talune precisazioni di carattere generale. Con legge n. 68 del 2015, il legislatore ha introdotto nel codice penale un nuovo titolo VI-bis, al fine di rafforzare la tutela apprestata al bene giuridico ambiente dalle fattispecie contravvenzionali previste dal Codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152 del 2006). Tra le innovazioni apportate dalla novella, vi è l’introduzione di un’ipotesi di confisca obbligatoria all’art. 452-undecies cod. pen. il quale prevede che, in caso di condanna o patteggiamento per i reati di inquinamento ambientale (art. 452-bis cod. pen.), disastro ambientale (art. 452-quater cod. pen.), traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452-sexies cod. pen.), impedimento del controllo (art. 452-septies cod. pen.) nonché per i reati associativi finalizzati alla commissione dei nuovi reati ambientali previsti dal titolo VI-bis, il giudice debba sempre ordinare la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commetterlo (o di beni di valore equivalente, laddove quella diretta non sia possibile), salvo che i beni appartengano a terzi estranei al reato. Secondo quanto prevede il terzo comma della norma, i beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all’uso per la bonifica dei luoghi. Quale effetto premiante il comportamento rispristinatorio tenuto dal soggetto post delictum, è disposto all’ultimo comma della medesima disposizione, che l’istituto della confisca non trova applicazione nei casi in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dei luoghi. La confisca in materia ambientale non rappresenta, tuttavia, una novità della legge n. 68 del 2015, essendo già presenti nel d.lgs. n. 152 del 2006 alcune ipotesi di confisca per specifici reati ambientali dello stesso testo unico. Nella specie, l’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006, contestato all’odierno imputato, incrimina l’attività di gestione non autorizzata dei rifiuti posta in essere mediante le condotte raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti, infliggendo la sanzione penale alternativa dell’ammenda o dell’arresto, nel caso di rifiuti non pericolosi, o congiuntamente nel caso di rifiuti pericolosi. Ai fini che qui interessano, l’art. 260-ter, ultimo comma, del d.lgs. n. 152 del 2006 dispone che «Il fermo di cui al comma 1 e la confisca di cui al comma 4 conseguono obbligatoriamente anche all’accertamento delle violazioni di cui al comma 1 dell’art. 256», e il richiamato comma 4 prevede, appunto, in caso di trasporto non autorizzato di rifiuti pericolosi «la confisca del veicolo e di qualunque altro mezzo utilizzato per il trasporto del rifiuto».
Orbene, come già anticipato, può concludersi che la lamentata diversità di trattamento risulta in realtà pienamente legittima in considerazione dalla diversa funzione riconducibile alla confisca di cui all’art 452-undecies cod. pen., rispetto a quella discendente dalla violazione delle disposizioni contravvenzionali. La confisca ex art. 452-undecies cod. pen., presenta, infatti, profili peculiari, in quanto caratterizzata non tanto da una funzione punitivo-sanzionatoria, bensì da una funzione risarcitoria-ripristinatoria, laddove, invece, la confisca ex art. 260-ter D.lgs. n. 152 del 2006 integra una misura di sanzionatoria, con funzione eminentemente repressiva. Militano a favore di tale orientamento ragioni legate all’interpretazione letterale delle citate disposizioni. Infatti, il terzo comma dell’art 452-undecies cod. pen., prevedendo che i beni confiscati siano messi “nella disponibilità” della pubblica amministrazione, vincola la destinazione dei beni confiscati o dei proventi incamerati esclusivamente alla bonifica dei luoghi, mentre un’analoga previsione non si rinviene nelle norme che disciplinano la confisca per la violazione delle disposizioni previste dal codice dell’ambiente. E l’attività di bonifica, per tale intendendosi l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, sottosuolo o acque sotterrane, è di consueto molto onerosa per il soggetto tenuto a compierla ed in ogni caso per l’amministrazione, nella cui disponibilità devono essere posti i beni assoggettati a vincolo. Non è un caso, dunque, che il legislatore abbia subordinato la disapplicazione della confisca allo svolgimento dell’attività di bonifica e abbia riservato tale istituto premiale ai soli delitti in grado di produrre sull’ambiente effetti disastrosi e talvolta irreversibili; mentre ha lasciato fuori dall’ambito applicativo della norma le ipotesi colpose, generalmente incapaci di produrre un effetto inquinante di tale nocività. Infatti, se l’applicazione della confisca svolge di consueto una funzione deterrente, che disincentiva dal porre in essere azioni delittuose di rilevante gravità, l’effetto positivo rappresentato dall’eliminazione della confisca risulta pienamente giustificabile in un’ottica di effettività della tutela penale e di ottimizzazione delle risorse pubbliche, nella misura in cui, a seguito della realizzazione del fatto di reato, incentiva il suo autore a procedere alla bonifica o al risanamento dello stato dei luoghi per godere del beneficio. Deve, inoltre, rilevarsi che l’omessa previsione, nell’ambito delle fattispecie contravvenzionali, di un’ipotesi di disapplicazione della confisca analoga a quella prevista dall’art. 452-undecies cod. pen., è controbilanciata dalla previsione di un particolare meccanismo di estinzione del reato – modellato sul meccanismo della prescrizione in materia di sicurezza sul lavoro – il cui ambito applicativo è circoscritto alle sole fattispecie contravvenzionali. La legge n. 68 del 2015, con l’art. 1, comma 9, è infatti intervenuta anche sul d.lgs. n. 152 del 2006, introducendo una parte VI-bis recante la “Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale” che contempla, agli artt. 318-bis e ss. una procedura di estinzione del rato, la cui operatività è subordinata all’adempimento, da parte del responsabile della violazione, di una serie di prescrizioni tendenti al risanamento dell’integrità ambientale, oltre che al pagamento di una somma di denaro. In particolare, essa opera a seguito della verifica circa l’esito fausto delle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza al contravventore ai fini dell’eliminazione della contravvenzione, nonché del pagamento della sanzione amministrativa. La più recente giurisprudenza ha chiarito che tali disposizioni trovano applicazione tanto rispetto alle condotte esaurite, per tali intendendosi intendere quelle prive di conseguenze dannose o pericolose per le quali risulti inutile o impossibile impartire prescrizioni al contravventore, tanto con riferimento alle ipotesi in cui il contravventore abbia spontaneamente e volontariamente regolarizzato l’illecito commesso. In ogni caso, come dispone l’art. 318-bis, il loro ambito applicativo è limitato «alle sole ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste dal presente decreto che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette» (Sez. 3, n. 36405 del 18/04/2019, Rv. 276681).
2. Per le ragioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, oltre accessori di legge.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a), del d.p.c.m. 8 marzo 2020.
Così deciso in Roma, il 11/02/2020