Consiglio di Stato, Sez. V, n. 688, del 10 febbraio 2015
Rifiuti.Legittimità ordinanza per piano di caratterizzazione su area sulla quale erano stoccati residui della lavorazione dell’acciaio
Va sottolineato che le analisi sui campioni di acqua avevano accertato un considerevole superamento dei limiti di concentrazione di ferro nelle acque della falda (1.720 mcg/l, contro il valore massimo di 200 mcg/l consentito). Ebbene, solo questa circostanza, unitamente alla presenza di residui dell’attività produttiva svolta dell’acciaieria nelle vicinanze di fonti sorgive, rappresenta un elemento sufficiente a fondare il provvedimento impugnato. E’ infatti evidente che, a prescindere dalla loro qualificazione come rifiuti o materie prime secondarie, la presenza di residui della lavorazione dell’acciaio nelle vicinanze di sorgenti d’acqua (scorie non trasformate delle industrie dell’acciaio), unitamente al riscontro di elevati valori di contaminazione di quest’ultima, forniscono un quadro indiziario sufficientemente grave e preciso per ritenere che il sito sia esposto a pericoli di inquinamento. (segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00688/2015REG.PROV.COLL.
N. 05824/2005 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5824 del 2005, proposto dal Comune di Verona, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni R. Caineri e Marcello Clarich, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, viale Liegi, n. 32;
contro
La s.p.a. Riva Acciaio, rappresentata e difesa dagli avvocati Giovanni Sala e Luigi Manzi, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, Via Federico Confalonieri, n. 5;
nei confronti di
Regione Veneto;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Veneto, Sez. III, n. 1372/2004, resa tra le parti, concernente un’ordinanza di diffida a predisporre un piano di caratterizzazione di un’area sulla quale erano stoccati residui della lavorazione dell’acciaio;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la memoria difensiva della s.p.a. Riva Acciaio;
Viste le memorie difensive e tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 novembre 2014 il Cons. Fabio Franconiero e uditi per le parti l’avvocato Chiara Carli, su delega dell’avvocato Clarich, e l’avvocato G. Calderara, su delega dell’avvocato Luigi Manzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, il TAR Veneto ha accolto l’impugnativa n. 529 del 2002 proposta dalla s.p.a. Riva Acciaio nei confronti dell’ordinanza dirigenziale in data 14 febbraio 2002, n. 136, con il quale il Comune di Verona, constatato il superamento dei limiti stabiliti dal d.m. n. 471/1999 (“Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni e integrazioni”), a causa della presenza di zinco nel terreno e di ferro nell’acqua della sottostante falda dell’area in cui è situato lo stabilimento industriale della società ricorrente (in località “Boschetto”), ed utilizzata come deposito di rifiuti provenienti dalla produzione dell’acciaio, aveva ordinato a quest’ultima di procedere alla caratterizzazione del sito ai fini della successiva bonifica dell’area, ai sensi dell’art. 17 del citato d.lgs. n. 22/1997 (“Attuazione delle direttive 91/56/CEE sui rifiuti, 91/698/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”).
2. All’esito della verificazione esperita, il giudice di primo grado accertava, in primo luogo, che la zona in cui l’insediamento produttivo è situato aveva perso la destinazione a verde pubblico, invece rilevata nel provvedimento impugnato, «essendo decaduti, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 1187/68, i vincoli strumentali e quelli preordinati all’esproprio ivi originariamente insistenti, risulta attualmente zona “bianca” ».
Conseguentemente, il TAR riteneva non superati i livelli di contaminazione da zinco «eccedenti i limiti previsti per le zone che non abbiano – come non ha quella di specie – destinazione urbanistica a verde pubblico», vale a dire i valori stabiliti nell’allegato 1, tabella A, del citato d.m. n. 471 del 1999.
Il TAR giudicava erronea anche la riconducibilità causale dell’eccesso di ferro nelle acque di falda al sito industriale della ricorrente, facendo proprie le conclusioni del verificatore, secondo il quale «non è possibile mettere in diretta relazione con la ristretta area di indagine la presenza di ferro in valori superiori ai limiti tabellari (DM n. 471/99, allegato 1, tabella acque sotterranee) ».
3. Il Comune di Verona ha proposto appello, nel quale contesta tutte le sopra riportate statuizioni del giudice di primo grado.
4. La s.p.a. Riva Acciaio si è costituita in resistenza, articolando le proprie difese.
5 All’udienza del 12 novembre 2014, la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. In fatto, il Collegio osserva quanto segue:
- l’ordinanza impugnata col ricorso di primo grado trae origine da un’indagine riguardante l’acciaieria gestita dalla società appellata, condotta della Procura della Repubblica di Verona nel 2001, i cui accertamenti sono stati compendiati nella “relazione tecnica dell'indagine ambientale” inviata al Comune odierno appellante, recante l’invito ad attivare la procedura oggetto del presente giudizio;
- nella relazione veniva segnalata la presenza di una discarica abusiva di rifiuti «costituiti da polveri di abbattimento fumi (…) miscelati con le scorie di acciaieria e stoccati definitivamente anche nelle zone di risorgiva del fossato Morandina, ricoprendo l'area di risorgiva e ponendo a contatto i rifiuti conia falda acquifera nella zona»;
- in tale documento si dava anche atto dei campionamenti sui rifiuti effettuati dall’ARPA, dai quali si accertava «la presenza degli inquinanti tipici delle polveri di abbattimento dei fumidi acciaieria, quali ad esempio: piombo, rame, cadmio, zinco, nichel, manganese, cromo, calcio, magnesio, diossine, IPA (idrocarburi policiclici aromatici) », ipotizzandosi che questi rifiuti fossero all’origine dell’inquinamento della sottostante falda acquifera;
- quindi, su richiesta del Comune, la stessa ARPA effettuava in data 2 ottobre 2001 alcuni campionamenti dei pozzi di controllo della falda sottostante all’area, con i quali si constava il superamento dei limiti previsti dal d.m. n. 471 del 1999 per le sostanze contaminanti manganese e ferro; analoghe evidenze emergevano dai campionamenti effettuati il 16 novembre 2001, anche sul terreno, questa volta per ordine della Procura, i cui esiti venivano trasmessi al Comune;
- più precisamente, i valori di concentrazione del ferro nell’acqua riscontrati erano di 1.720 mcg/l e 287 mg/kg di zinco nel terreno, a fronte di limiti, stabiliti ai sensi del citato d.m. n. 471, di 200 mcg/l di ferro e di 150 mg/kg di zinco, per i suoli «a uso verde pubblico, privato o residenziale», ai sensi della tabella A, allegato 1, del medesimo regolamento;
2. Su questi presupposti si fonda il provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Più precisamente, l’ordinanza del Comune di Verona:
a) dà atto della presenza nell’area in località “Boschetto”, di pertinenza dell’impianto industriale, di un deposito sul suolo di «rifiuti provenienti dalla produzione dell'acciaio, scorie provenienti dalla fusione in forni elettrici (scorie di fusione 10 09 03)»;
b) richiama i risultati delle analisi sui campioni prelevati dall’ARPA il 16 novembre 2001, con i risultati poc’anzi esposti;
c) specifica che il campionamento del terreno «sembra essere stato effettuato in zona classificata, secondo il vigente strumento urbanistico, 19 Verde pubblico ed è pertanto da applicarsi la Tabella l-A dell'allegato 1 del D.M. 471/99, che prevede determinati limiti di accettabilità per i siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale»;
d) espone le conclusioni tratte dai presupposti fattuali in questione nei seguenti termini: «Ritenuto opportuno, a fini conoscitivi e per valutare compiutamente la integrazione dei presupposti di applicabilità del DM 25 ottobre 1999 n. 471, richiedere alla Società un piano di caratterizzazione ex art. 2 del medesimo decreto»;
e) adotta quindi l’ordine in conformità a tutto quanto sopra.
3. Osserva al riguardo la Sezione che l’ordinanza impugnata in primo grado si fonda sull’art. 17, commi 2 e 3, d.lgs. n. 22 del 1997, il primo dei quali prevede l’obbligo - a carico del soggetto cui sia imputabile il superamento dei «limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti», ai sensi del precedente comma 1, lett. a), «ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi» - di procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale; mentre il successivo comma demanda alla competente autorità di diffidare la realizzazione di tali interventi.
Ai fini del presente giudizio assumono rilievo anche le definizioni contenute nel regolamento attuativo (d.m. n. 471 del 1999) e precisamente, quelle di «sito inquinato» e «sito potenzialmente inquinato» [art. 2, comma 1, lett. b e c], a mente delle quali si intende, rispettivamente, quello che:
a) «presenta livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l'ambiente naturale o costruito. Ai fini del presente decreto è inquinato il sito nel quale anche uno solo dei valori di concentrazione delle sostanze inquinanti nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque sotterranee o nelle acque superficiali risulta superiore ai valori di concentrazione limite accettabili stabiliti dal presente regolamento»;
b) e quello «nel quale, a causa di specifiche attività antropiche pregresse o in atto, sussiste la possibilità che nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque superficiali o nelle acque sotterranee siano presenti sostanze contaminanti in concentrazioni tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l'ambiente naturale o costruito».
Su questi presupposti si fonda il potere di emettere le «ordinanze» di cui al successivo art. 8. Tale disposizione regolamentare, infatti, demanda alle autorità preposte, nei casi di accertata «situazione di pericolo di inquinamento o la presenza di siti nei quali i livelli di inquinamento sono superiori ai valori di concentrazione limite accettabili di cui all'Allegato 1», di diffidare «con propria ordinanza» i soggetti responsabili «ad adottare i necessari interventi di messa in sicurezza d'emergenza, di bonifica e ripristino ambientale ai sensi del presente regolamento».
4. Con riguardo all’ordinanza del Comune di Verona impugnata, la società Riva acciaio aveva contestato nel ricorso di primo grado che:
a) per il valore di concentrazione dello zinco nel terreno potesse applicarsi il limite relativo alle aree a destinazione a «verde pubblico o privato», previsto dalla tabella A, allegato 1, al d.m. n. 471 del 1999 e presupposto nel provvedimento, anziché quello pari 1.500 mg/kg, previsto dalla medesima tabella per le aree a destinazione commerciale o industriale;
b) i campioni di acqua prelevati dall’ARPA, ad una quota di 1,5 metri di profondità, si riferissero ad acque ‘sotterranee’, anziché ad acque ‘superficiali’, per i quali sono applicabili i valori previsti dalla normativa in materia di scarichi industriali.
5. Come accennato nella parte in fatto, il TAR, all’esito della verificazione esperita, ha accolto tutte le censure dedotte dalla società ricorrente in primo grado, ritenendo applicabili – e dunque rispettati - i limiti di concentrazione di zinco nei terreni previsti dalla citata tabella per le aree a destinazione commerciale o industriale, ed escludendo che il superamento dei valori di ferro nella sottostante falda acquifera siano riconducibili all’acciaieria.
6. Tanto precisato, l’appello è fondato in tutte le censure nelle quali esso si articola.
Contrariamente a quanto ha rilevato il giudice di primo grado, l’ordinanza impugnata si fonda - in modo del tutto legittimo, in virtù del principio di precauzione in materia ambientale (introdotto con il trattato di Maastricht e ora sancito dall’art. 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea), ai sensi della normativa sopra esaminata - su una situazione di «pericolo di inquinamento» adeguatamente ricostruita nelle sue premesse di fatto, sulla cui base l’amministrazione ha coerentemente ordinato di effettuare l’adempimento prodromico ai successivi (ed eventuali) interventi di bonifica, e cioè la caratterizzazione dell’area potenzialmente inquinata.
7. Va infatti sottolineato che le analisi sui campioni di acqua avevano accertato un considerevole superamento dei limiti di concentrazione di ferro nelle acque della falda (1.720 mcg/l, contro il valore massimo di 200 mcg/l consentito).
Ebbene, solo questa circostanza, unitamente alla presenza di residui dell’attività produttiva svolta dell’acciaieria nelle vicinanze di fonti sorgive, rappresenta un elemento sufficiente a fondare il provvedimento impugnato. E’ infatti evidente che, a prescindere dalla loro qualificazione come rifiuti o materie prime secondarie (per rispondere ai rilievi della società odierna appellata), la presenza di residui della lavorazione dell’acciaio nelle vicinanze di sorgenti d’acqua (scorie non trasformate delle industrie dell’acciaio, secondo la stessa società Riva Acciaio), unitamente al riscontro di elevati valori di contaminazione di quest’ultima, forniscono un quadro indiziario sufficientemente grave e preciso per ritenere che il sito sia esposto a pericoli di inquinamento.
Diversamente da quanto sostiene la società appellata, inoltre, è irrilevante il fatto che nell’ordinanza non si faccia alcun riferimento espresso al pericolo di inquinamento, essendo sufficiente che questa situazione sia adeguatamente comprovata in base ai presupposti fattuali indicati nella motivazione del provvedimento, come appunto è avvenuto nel caso di specie.
8. Come poi dedotto dal Comune di Verona, la sentenza del TAR risulta viziata per ultrapetizione, nella parte in cui essa ha ritenuto mancante un nesso di causalità tra il deposito dei residui in questione e la contaminazione dell’acqua della sottostante falda.
Non era questo il motivo dedotto dalla Riva Acciaio nel proprio ricorso, ma quello, di diverso tenore, concernente l’applicabilità della normativa in materia di scarichi industriali.
Tale censura (anche richiamata in questa sede dalla società appellata), tuttavia, non è fondata, perché ai sensi dell’art. 74, comma 1, lett. l), del d.lg. n. 152 del 2006 sono definite ‘acque sotterranee’ «tutte quelle che si trovano al di sotto della superficie del suolo, nella zona di saturazione e in diretto contatto con il suolo e il sottosuolo» (lett. l); mentre per acque di scarico vanno intese «tutte le acque reflue provenienti da uno scarico» (lett. gg), essendo pacifico che nella specie quelle oggetto di analisi, al di là della metodologia dei prelievi seguita, non sono riconducibili a questa seconda ipotesi, essendo state prelevate dai tecnici dell’ARPA ad una profondità di 1,5 metri.
9. Nell’escludere il nesso di causalità in questione, inoltre, il TAR ha fatto proprie le non condivisibili conclusioni del verificatore.
In contrasto con queste ultime, lo stesso ausiliario del giudice di primo grado ha infatti accertato il superamento del limite di concentrazione di ferro nella ristretta area in relazione alla quale ha effettuato i campionamenti, oltre ad una «generale situazione di sofferenza della falda», a causa della presenza di minerali inquinanti in misura superiore ad i limiti previsti dal più volte citato d.m. n. 471 del 1999, e cioè manganese, piombo ed alluminio. I campionamenti di ferro effettuati dal verificatore hanno inoltre consentito di accertare il superamento del limite di concentrazione previsto per tale minerale «nella prima campagna di indagini», tanto a monte quanto a valle dell’area dell’estensione di 3.000 mq oggetto di indagine, in misura di 700 e 500 mcg/l, oltre che per manganese ed alluminio (pag. 25 della relazione).
Nella seconda tornata di campionamenti, il superamento del limite per quanto riguarda il ferro è stato rilevato in un solo caso e per valori inferiori a quelli iniziali (250 mcg/l), oltre alla contemporanea presenza degli altri contaminanti di cui sopra.
10. La spiegazione di queste oscillazioni, anche rispetto agli accertamenti dell’ARPA, è stata peraltro fornita dallo stesso verificatore, in modo del tutto plausibile, con il movimento della falda acquifera, oltre che con la nota ed eccezionale ondata di siccità che ha caratterizzato l’estate del 2003, in cui sono stati compiuti i campionamenti dell’ausiliario (pag. 27 della relazione).
Peraltro, ciò ad avviso del Collegio è indice del fatto che è assai discutibile rinnovare in sede contenziosa gli accertamenti tecnici compiuti in sede amministrativa.
11. Se dunque l’ordinanza impugnata si fonda legittimamente sul pericolo di inquinamento conseguente al notevole superamento dei limiti di concentrazione di ferro nell’acqua, lo stesso provvedimento risulta legittimo anche nella parte in cui ha preso le misure conseguenti al superamento del limite relativo alla presenza dello zinco nel terreno.
Infatti, contrariamente a quanto sostiene l’odierna appellata e quanto ritenuto dal giudice di primo grado, l’area in questione non può essere ritenuta zona “a destinazione commerciale o industriale” ai sensi della più volte citata tabella A, allegato 1, al d.m. n. 471/1999.
12. Innanzitutto, nemmeno la società Riva Acciaio contesta che l’area in questione era stata tipizzata a verde pubblico, a servizio della realizzazione di una strada pubblica, in luogo della precedente destinazione industriale precedentemente impressa alla zona.
Sennonché, una volta rimasta inattuata quest’ultima previsione e una volta dunque decaduto il relativo vincolo preordinato all’esproprio, non è condivisibile sotto il profilo giuridico la tesi della società odierna appellata, fatta proprio dal TAR, secondo cui la destinazione a ‘verde’ sarebbe venuta meno, a seguito della inefficacia sopravvenuta – per decorso del quinquennio - dei vincoli di inedificabilità, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 1187 del 1968 (vigente all’epoca dei fatti e formalmente abrogato, in quanto il suo contenuto è stato trasfuso con modificazioni nell’art. 9, comma 2, t.u. espropriazioni, di cui al d.P.R. n. 327 del 2001).
Come ha infatti di recente rilevato questa Sezione (sentenza n. 5074 del 14 ottobre 2014), «una previsione dello strumento urbanistico può ad un tempo comportare sia un vincolo preordinato all’esproprio (che decade col decorso del termine di cinque anni, quando non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera), sia la conformazione della proprietà privata» e ciò avviene tipicamente anche attraverso la destinazione “a verde pubblico o privato” di un’area.
Con questa duplicità di funzioni e contenuti, la potestà di pianificazione territoriale ad un tempo si correla, ed anzi funge da necessario presupposto per la realizzazione di un parco pubblico ed il conseguente esercizio del potere di espropriazione di suoli privati, ma, contemporaneamente, determina anche una conformazione a tempo indeterminato del regime giuridico di questi ultimi.
Quindi, mentre la prima funzione – espressa dal vincolo preordinato all’esproprio - è necessariamente delimitata nel tempo (ex art. 2 l. n. 1187/1968; ora art. 9, comma 2, t.u. espropri), la seconda esplica la propria efficacia a tempo indeterminato, come qualsivoglia destinazione urbanistica a carattere conformativo, in quanto, una volta venuto meno il vincolo espropriativo, il proprietario utilizzare l’area così come espressamente previsto nello strumento urbanistico (a quest’ultimo riguardo, per le aree a verde, si veda, ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 26 agosto 2014, n. 4287, 23 aprile 2013, n. 2254, 7 novembre 2012, n. 5666, 28 dicembre 2012, n. 6700, 22 giugno 2011, n. 3797, 10 giugno 2010, n. 3700; Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4472, 11 giugno 2013, n. 3234, 13 aprile 2012, n. 2116).
Non è pertanto sostenibile la tesi che correla al regime di “area bianca” della zona la reviviscenza della precedente destinazione industriale, la quale condurrebbe a ritenere abrogata la conformazione dell’area legittimamente impressa dall’autorità comunale.
13. Peraltro, al fine della verifica se – per la verifica dei limiti riguardanti le sostanze inquinanti - un fondo rientri nell’una o nell’altra categoria prevista nell’allegato 1 della tabella A del decreto ministeriale del 1999 (cioè nel “verde pubblico o privato” ovvero nell’area commerciale o industriale), si deve tenere conto della specifica ratio del medesimo decreto e della disposizione di legge su cui esso si fonda.
Sotto tale profilo, risulta evidente che il decreto ministeriale – con un ‘criterio escludente’ - ha fatto riferimento al “verde pubblico o privato” con riferimento alle zone non industriali o commerciali: nell’ambito del “verde pubblico o privato” rientrano dunque anche le aree agricole nonché quelle nelle quali non può esservi più la realizzazione di un parco pubblico (per la decadenza del vincolo preordinato all’esproprio, salva la sua reiterazione), ma vi è la perdurante destinazione a verde.
In altri termini, e per quanto rileva nel presente giudizio, la decadenza del vincolo preordinato all’esproprio – ai fini della applicazione del decreto ministeriale n. 471 del 1999 - non comporta il passaggio di un’area da una categoria (“verde pubblico o privato” all’altra “zona commerciale o industriale”).
Conseguentemente, l’ordinanza impugnata in primo grado ha legittimamente utilizzato quale elemento alla base della ritenuta situazione di pericolo di inquinamento anche il superamento dei limiti di concentrazione dello zinco.
14. Da ultimo, si rileva che i procedimenti di indagine avviati nei confronti dell’odierna appellata ed i relativi esiti, documentati dal Comune in vista dell’udienza di discussione, non hanno alcun rilievo ai fini del presente giudizio, attenendo a fatti e ad accertamenti svolti in epoca successiva a quella dei fatti di causa.
15. In conclusione, l’appello deve essere accolto, sicché, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado n. 529 del 2002 di Riva Acciaio s.p.a.
Le spese del doppio grado del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. All’appellata soccombente devono inoltre essere poste definitivamente a carico le spese relative alla verificazione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 5824 del 2005, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, respinge il ricorso di primo grado della Riva Acciaio s.p.a. (n. 529/2002).
Condanna la Riva Acciaio s.p.a. a rifondere al Comune di Verona le spese del doppio grado di giudizio, liquidate complessivamente in € 14.000,00, oltre agli accessori di legge. Pone definitivamente a carico della medesima società appellata il compenso del verificatore nominato in primo grado.
Dispone che l’appellata restituisca al Comune di Verona il contributo unificato effettivamente versato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Carlo Saltelli, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Raffaele Prosperi, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/02/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)