Consiglio di Stato Sez. IV n. 5761 del 8 ottobre 2018
Rifiuti.Natura giuridica dell’ordinanza ex art. 242 dlv 152/06

L’ordinanza disciplinata dall’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006, che l’Amministrazione può emanare a carico del soggetto che sia riconosciuto responsabile della contaminazione, non ha finalità sanzionatoria di una condotta pregressa, ma natura riparatoria e ripristinatoria in relazione ad un evento di (ancora) attuale inquinamento


Pubblicato il 08/10/2018

N. 05761/2018REG.PROV.COLL.

N. 04542/2017 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4542 del 2017, proposto da Solvay s.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Mario Sanino, Fabio Cintioli e Dario Bolognesi, con domicilio eletto presso lo studio Fabio Cintioli in Roma, via Vittoria Colonna 32;

contro

Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna – A.R.P.A.E., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Aristide Police e Patrizia Onorato, con domicilio eletto presso lo studio Aristide Police in Roma, via di Villa Sacchetti 11;

nei confronti

Comune di Ferrara, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Fiorentino, Barbara Montini, Edoardo Nannetti e Matilde Indelli, con domicilio eletto presso lo studio Guido Fiorentino in Roma, via Tibullo 10;
Provincia di Ferrara, Sefim s.r.l., Edil Program s.r.l., non costituiti in giudizio;

e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Federchimica, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Giuseppe Morbidelli, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Maresciallo Pilsudski 118;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna – Sede di Bologna, Sezione Seconda, n. 125 del 15 febbraio 2017, resa tra le parti, concernente ordinanza di bonifica ambientale.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna – A.R.P.A.E. e del Comune di Ferrara;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 maggio 2018 il Cons. Luca Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Bolognesi, Sanino, Cintioli, Police, Onorato, Morbidelli e Fiorentino;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ordinanza prot. n. 1356 del 9 maggio 2016 l’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna – A.R.P.A.E. (di seguito Agenzia) ha ordinato a Solvay s.a., quale assunto responsabile della contaminazione dell’area denominata “Quadrante Est” in Comune di Ferrara, di porre in essere le attività di cui all’art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006, proseguendo le iniziative previste nel Piano di caratterizzazione già approvato ovvero presentandone uno nuovo.

1.1. Nell’ordinanza, in particolare, si sostiene che nell’area del “Quadrante Est”, in passato utilizzata come cava di argilla, insistono due siti che, nel corso degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, sarebbero stati impiegati come discarica per rifiuti urbani; nel corso della relativa bonifica, tuttavia, i siti e le sottostanti falde sarebbero risultati contaminati da composti organoclorurati che si ritiene derivare da percolati di scarti di lavorazione (cosiddette “peci clorurate”) del vicino impianto Solvay ivi abusivamente rilasciati.

1.2. Le osservazioni procedimentali svolte da Solvay s.a., secondo cui lo sversamento sarebbe avvenuto previo accordo con il Comune, non sono state ritenute comprovate; parimenti, è stata stimata infondata l’ulteriore osservazione di Solvay, ad avviso della quale all’epoca non vigeva una disciplina per lo smaltimento dei rifiuti delle lavorazioni industriali, sì che da un lato il conferimento in loco degli scarti di produzione industriale sarebbe stato legittimo, dall’altro sarebbe comunque inapplicabile la disciplina del d.lgs. n 152 del 2006, che disporrebbe solo pro futuro.

1.3. Infine, la base istruttoria del provvedimento, costituita da un’indagine isotopica eseguita dall’Università di Ferrara, è stata giudicata, contrariamente ai rilievi di Solvay, idonea a sostenere il provvedimento da un punto di vista tecnico-scientifico.

2. Solvay ha radicato ricorso avanti il T.a.r. per l’Emilia-Romagna, che lo ha rigettato con la sentenza in epigrafe indicata.

3. Solvay ha, quindi, interposto appello, affidato alle seguenti censure:

- l’inquinamento deriverebbe, in realtà, non dal conferimento di rifiuti industriali operato da parte di Solvay nel corso degli anni sessanta del secolo scorso, ma dalla carente gestione della discarica da parte del proprietario, ossia il Comune di Ferrara, che non avrebbe impedito i percolamenti e le infiltrazioni causati dai rifiuti ivi versati; peraltro, non solo le leggi all’epoca vigenti non conoscevano la distinzione fra rifiuto urbano e rifiuto industriale, ma, per di più, la discarica de qua “era destinata a ricevere rifiuti di qualsiasi specie”;

- competeva all’Amministrazione dimostrare che il versamento di rifiuti da parte di Solvay fosse stato furtivo, abusivo o, comunque, improprio; peraltro, il conferimento sarebbe stato operato con la piena conoscenza dell’Ente locale, che lo avrebbe addirittura incentivato per finalità di disinfestazione; del resto, l’accesso alla discarica dalla strada pubblica sarebbe stato chiuso da un cancello e lo sversamento dei rifiuti sarebbe stato controllato;

- dalle indagini isotopiche sarebbe emerso che i percolati inquinanti deriverebbero non specificamente da peci clorurate, ma da residui di lavorazioni industriali a base di metano, metodologia produttiva all’epoca adottata da molti stabilimenti chimici anche della zona;

- le norme del d.lgs. n. 152 del 2006 non potrebbero applicarsi a fenomeni di inquinamento avvenuti prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto.

4. Si sono costituiti il Comune di Ferrara e l’Agenzia; è intervenuta ad adiuvandum Federchimica.

4.1. In particolare, il Comune ha sostenuto che la discarica fosse destinata inizialmente a materiale edile di risulta e, quindi, anche a rifiuti solidi urbani, ma mai a rifiuti industriali; del resto, l’allora vigente regolamento di igiene comunale, risalente al 1914, avrebbe impedito “il disperdimento … dei residui industriali ingombranti o pericolosi … sia per mezzo di pozzi assorbenti, sia con depositi sulla superficie del suolo”.

4.1.1. Di converso, non potrebbe essere addossata alle Amministrazioni la prova negativa circa il fatto che non vi fosse alcun assenso comunale allo sversamento.

4.1.2. Inoltre, la richiesta rivolta a suo tempo dal Comune alla Solvay di fornire prodotti per la disinfestazione della discarica atterrebbe a materiali ben diversi dalle peci clorurate.

4.1.3. Oltretutto, il vicino sito ove all’epoca sorgeva lo stabilimento Solvay sarebbe risultato contaminato da sostanze con composizione isotopica impoverita analoga a quella che connota i composti reperiti nella discarica.

4.1.4. Infine, l’accesso alla discarica non sarebbe stato controllato e la recinzione ivi apposta sarebbe stata finalizzata unicamente ad impedire danni alla proprietà circostante.

4.1.5. Sulla base di tali argomentazioni il Comune ritiene legittima l’individuazione in Solvay del soggetto responsabile dell’inquinamento.

4.2. L’Agenzia, dal canto suo, ha sostenuto in punto di fatto: che la discarica sarebbe stata destinata esclusivamente allo scarico di “rifiuti urbani, inerti ed immondizie”; che ivi sarebbero state reperite sostanze contaminanti con composizione isotopica impoverita riconducibili esclusivamente ai processi produttivi posti in essere nel vicino impianto chimico di Solvay; che, di converso, Solvay non avrebbe fornito alcuna prova circa l’assunto consenso comunale allo sversamento in loco degli scarti di lavorazione del proprio stabilimento; che l’accesso alla discarica ed il conseguente sversamento dei rifiuti non sarebbe stato controllato; che i prodotti chimici che il Comune aveva previsto venissero utilizzati nella discarica per finalità insetticide sarebbero stati ben diversi dagli scarti di lavorazione.

4.2.1. In punto di normativa applicabile, inoltre, l’Agenzia ha sostenuto che la disciplina recata dal d.lgs. n. 152 del 2006 possa essere utilmente richiamata nella specie, posto che l’ordinanza di bonifica ambientale ivi prevista non veicolerebbe una sanzione, ma imporrebbe un’attività puramente riparatoria di un danno tuttora presente: esulerebbero, pertanto, profili di indebita retroattività.

4.2.2. L’Agenzia ritiene, pertanto, che l’ordinanza gravata sia conforme a legge e fondi le proprie conclusioni su una presunzione assistita da indizi gravi, precisi e concordanti, tanto più che il nesso di causalità sarebbe affidato, in subiecta materia, al principio del “più probabile che non”, altresì definibile come della “preponderanza dell’evidenza”.

4.3. L’interveniente Federchimica ha lamentato l’enucleazione, da parte del T.a.r., di una nuova forma di responsabilità da contaminazione in tesi priva di base legale, posto che l’inquinamento del sito deriverebbe dal percolato, dunque da un evento diverso e successivo rispetto al conferimento di rifiuti e che spettava al Comune, quale proprietario e gestore della discarica, prevenire.

4.4. Alla camera di consiglio del 14 settembre 2017 il ricorso è stato rinviato al merito su richiesta delle parti.

4.5. Il ricorso è, quindi, stato discusso alla pubblica udienza del 3 maggio 2018, in vista delle quale tutte le parti hanno versato in atti difese scritte.

5. Il ricorso non è fondato.

6. La complessità della materia e la voluminosità delle produzioni documentali delle parti, oltretutto in gran parte risalenti, impongono al Collegio, al fine di rispettare il dovere di sinteticità e, soprattutto, di chiarezza di cui all’art. 3 c.p.a., di focalizzare la trattazione sui soli elementi decisivi ai fini della delibazione della controversia.

7. Ciò premesso in chiave metodologica, nel merito il Collegio osserva che il punto centrale e più problematico della vicenda è costituito dalla tipologia dei materiali conferibili in discarica.

8. La questione richiede una sistematica, correlata ed unitaria considerazione della documentazione in atti.

9. La nota prot. n. 5415 del 29 maggio 1951 della Divisione lavori pubblici del Comune di Ferrara rappresentava che, a seguito della necessità di chiudere “il deposito rottami fuori Porta Po, ormai completamente esaurito”, erano state indicate “altre località”, tra cui una “nella proprietà dell’ex Fornace Masotti” (ossia quella di causa): si sollecitavano, pertanto, gli uffici competenti a “dare un comunicato alla stampa … onde informare … che le macerie dovranno essere indirizzate ai nuovi depositi”.

9.1. Tale atto trova, peraltro, la sua premessa nella nota prot. n. 8558 della medesima Divisione lavori pubblici del 21 settembre 1950, nella quale si evidenziava che, a seguito della vigorosa attività edilizia post-bellica, era diventata impellente la necessità di rinvenire un luogo da adibire allo “scarico pubblico di rottami, calcinacci, macerie e della terra dovuta allo sbancamento per le nuove costruzioni in corso in Città” e, in generale, di “rifiuti dovuti alla rilevante ripresa edilizia”: tale luogo veniva, appunto, individuato nella “area della Società Esercizi e Fornaci”, ove insisteva “una cava di argilla necessaria all’esercizio della fornace” e che si presentava come soluzione “molto conveniente, in quanto lo scarico dei rifiuti avrebbe carattere di continuità, dato il volume annuo dello scarico di terra effettuato dalla società, che corrisponde circa al volume dei rifiuti della città”.

9.2. Del resto, con missiva del 18 settembre 1950 la Società Esercizio Fornaci si era dichiarata “disposta a che Codesta Civica Amministrazione effettui scarico di rottami, calcinacci, terra ed altro, nella cava esistente nella ns. fornace”.

9.3. La successiva delibera consiliare del 11 aprile 1952 dichiarava la menzionata “cava di argilla di proprietà della Società Esercizio Fornaci” idonea “per provvedere allo scarico dei materiali provenienti da lavori stradali od edifici, ed in genere di tutti i materiali di rifiuto (ad eccezione delle immondizie)”.

9.4. La delibera, inoltre, aggiungeva che, “per poter svolgere il doppio passaggio dei veicoli portanti i rottami, si sono presi accordi” con la proprietaria del fondo attiguo alla cava, la quale si era dichiarata “disposta a concedere l’uso di passaggio” dietro “indennizzo” e “con l’impegno da parte del Comune di recingere detto passaggio con paletti e filo spinato … ed a chiudere con cancello l’accesso dalla strada comunale”.

9.5. Con delibera del 26 settembre 1952 il Consiglio comunale provvedeva, quindi, a liquidare la fattura relativa ai lavori di recinzione: in tale occasione, si ribadiva che la discarica era destinata a “provvedere alla sistemazione deimateriali provenienti da lavori stradali o edifici ed in genere a tutti i materiali di rifiuto”.

9.6. Anche nella nota della Divisione lavori pubblici del Comune del 16 aprile 1957 si precisava che la cava dismessa era una delle poche aree “ove è possibile scaricare materiali di rifiuto dovuti alle costruzioni edilizie”, per di più “a condizioni … accettabili e convenienti”, sia perché “la capacità della cava assicura il normale discarico della città per molti anni”, sia perché “tali cave potrebbero rappresentare un idoneo deposito dei rifiuti della Nettezza Urbana qualora, per imprevedibili motivi, dovesse cessare il deposito di Fossanova S. Marco”.

9.7. Da questi primi atti, coevi o di poco successivi all’attivazione della discarica, risulta evidente l’iniziale limitazione dei rifiuti ivi conferibili al solo materiale edile di risulta.

9.8. In seguito, nel corso della seduta del Consiglio comunale del 7 luglio 1964, il competente assessore, interpellato in ordine alla “questione dello scarico dei rifiuti solidi”, precisava che “all’inizio del 1961 abbiamo incominciato a portare i rifiuti solidi in via dei Frutteti, dove c’erano delle grandi cave della Fornace Masotti e fino ad oggi ci siamo serviti di quelle cave”; nel prosieguo del suo intervento, l’assessore ribadiva più volte che nelle cave venivano portati soltanto “rifiuti”, altresì definiti come “immondizie”.

9.9. Ancora, nella seduta del Consiglio comunale del 30 maggio 1966 l’assessore sosteneva che a Ferrara, a differenza di altre città italiane, si era adottato, negli anni a cavallo del 1960, “il metodo del seppellimento [in cava] abbinando lo scarico dei rifiuti allo scarico pubblico dei materiali inorganici provenienti da imprese di costruzione”: tuttavia tale sistema, “che potè essere applicato proficuamente fino ad oggi nelle cave a sud-est della zona Frutteti, ha dovuto essere abbandonato a causa delle proteste dei vicini che, tra l’altro, hanno intrapreso un’azione giudiziaria contro il Comune. Per non aggravare ulteriormente la situazione, oggi la N.U. ha sospeso le operazioni in località Frutteti e scarica gli 800 q.li di rifiuti quotidiani in maceri reperiti fortunosamente nelle campagne”.

10. Emerge, dunque, che l’area de qua è stata in un primo tempo utilizzata come deposito di “macerie”, ossia di “materiali provenienti da lavori stradali o edifici”, all’epoca certo numerosi, in considerazione della ricostruzione post-bellica in atto; in seguito, la zona è stata oggetto anche del conferimento di “immondizie”, ossia di “rifiuti solidi urbani”.

11. Non vi è, viceversa, alcun elemento che induca a ritenere che la discarica fosse destinata anche a ricevere scarti di lavorazioni industriali.

11.1. Benché, infatti, la dizione “rifiuti industriali” non avesse all’epoca un chiaro significato giuridico, nondimeno è del tutto ragionevole ritenere che, se l’intendimento del Comune fosse stato quello di ricevere in discarica anche reflui di lavorazioni industriali, ciò sarebbe stato esplicitato a chiare lettere.

11.2. Del resto, già il regolamento comunale di igiene, risalente addirittura al 1914, utilizzava le dizioni “prodotti chimici” e “residui industriali”, locuzioni che, dunque, erano già entrate nel patrimonio lessicale della locale disciplina: esso, in particolare, vietava da un lato di “gettare, spandere … su qualunque suolo pubblico, o nei fossi o canali … materie putrescibili, prodotti chimici, oggetti nauseanti ed incomodi per esalazioni” (art. 42), dall’altro di disperdere “residui industriali ingombranti o pericolosi … sia per mezzo di pozzi assorbenti, sia con depositi sulla superficie del suolo” (art. 38).

11.3. Inoltre, rileva il Collegio, l’espressione “in genere tutti i materiali di rifiuto” di cui alle due delibere consiliari del 1952, di per sé generica, deve essere letta nell’ambito del complessivo contesto in cui è inserita.

11.4. In ambedue le delibere dell’aprile e del settembre 1952, invero, si precisa che la discarica è destinata ai “materiali provenienti da lavori stradali o edifici” e, si aggiunge, “in genere a tutti i materiali di rifiuto”: è evidente che quest’ultima espressione, apparentemente generica, è in realtà dettata con riferimento alla locuzione che precede ed assume una valenza per così dire di esplicitazione e chiusura, al fine di ricomprendere ogni tipologia di materiali inerti di provenienza edile.

11.5. Un’ulteriore ed indiretta conferma di tale conclusione è data dal fatto che le antecedenti note della Divisione lavori pubblici riportate supra sub §§ 9 e 9.1 utilizzano altresì (la prima nell’epigrafe, la seconda nel corpo del testo), per individuare i materiali da portare in discarica, l’espressione “rottami”, nel cui ambito semantico, per quanto latamente interpretato, certo non rientrano scarti di lavorazioni industriali pesanti quali le peci clorurate; peraltro, siffatta espressione è utilizzata anche nella delibera comunale dell’11 aprile 1952 (cfr. supra, sub §§ 9.3 e 9.4), laddove si fa menzione del “passaggio dei veicoli portanti i rottami”.

11.6. Non ha fondamento, dunque, l’ipotesi esegetica coltivata da Solvay, che trae da tale espressione un implicito ampliamento dell’ambito dei rifiuti conferibili: oltretutto, per estendersi sino a ricomprendere anche gli scarti di lavorazioni industriali, la locuzione in parola dovrebbe essere letta come una sostanziale licenza di conferimento di ogni tipologia di rifiuto, ciò che la porrebbe in netto contrasto con la chiara delimitazione tipologica recata dall’espressione che la precede (“materiali provenienti da lavori stradali o edifici”) e, più in generale, con gli univoci, ripetuti riferimenti a “rifiuti dovuti alla rilevante ripresa edilizia”, a “macerie”, a “rottami”, a “materiali di rifiuto dovuti alle costruzioni edilizie”, a “materiali inorganici provenienti da imprese di costruzione”: in definitiva, tale esegesi confliggerebbe frontalmente con il complessivo quadro desumibile dall’unitaria ed organica considerazione dei vari atti comunali propedeutici all’individuazione delle cave di argilla de quibus come sede della nuova discarica.

11.7. A sua volta, la dizione “immondizie” rimanda ictu oculi ad un concetto generale di rifiuto derivante dalle ordinarie attività umane e non include anche gli scarti di lavorazioni industriali di tipo chimico, la cui oggettiva specialità, tanto più al lume dello sviluppo tecnologico dell’epoca, avrebbe certo determinato l’utilizzo di una terminologia più specifica.

11.8. Del resto, che il termine “immondizie” rimandi unicamente all’attuale significato proprio dell’espressione “rifiuti solidi urbani” lo dà il fatto che il competente assessore comunale, nel suo intervento di fronte al Consiglio comunale del luglio 1964 (v. supra sub § 9.8), lo abbia ripetutamente utilizzato come sinonimo del termine “rifiuti solidi”.

12. Per quanto agli atti, pertanto, il Collegio rileva che la discarica non era, in linea generale, destinata ad accogliere materiale riveniente da lavorazioni industriali, ma soltanto inerti e, in un secondo momento, anche rifiuti solidi urbani.

13. Difetta, altresì, una speciale autorizzazione in tal senso a favore di Solvay.

13.1. Il Collegio premette che, quale eccezione al generale divieto di conferimento di rifiuti industriali, l’onere della prova del relativo assenso comunale grava su Solvay, assunto beneficiario di tale speciale autorizzazione.

13.2. Inoltre, si aggiunge, la prova deve fondarsi su elementi di natura documentale, certo più idonei a dare contezza dei fatti amministrativi che si intendono dimostrare: invero, l’oggettiva importanza di tale autorizzazione, implicante la facoltà speciale (recte, eccezionale) di conferire in discarica rifiuti diversi da quelli ivi di regola ammessi, avrebbe imposto un onere di attenta custodia, tanto più per un operatore specializzato come Solvay, certo in condizione di attendere ad un’efficace conservazione di siffatta documentazione, relativa ad una fase (lo smaltimento degli scarti di lavorazione) propria, ineliminabile e caratterizzante del processo produttivo da essa curato.

13.3. Del resto, Solvay ha debitamente conservato e prodotto in giudizio risalente documentazione afferente allo smaltimento all’estero di scarti di lavorazione.

13.4. Non può, dunque, richiamarsi in proposito il noto metodo acquisitivo, che, di regola, connota la fase istruttoria del processo amministrativo: nella specie, infatti, si verte in tema di documentazione ampliativa della sfera giuridica che sarebbe stata rilasciata dal Comune a Solvay e che, dunque, essa aveva l’onere di conservare e nei cui confronti, oltretutto, era pure più “prossima” della stessa Amministrazione.

14. Orbene, la documentazione versata in atti da Solvay non soddisfa i richiamati requisiti.

14.1. Con nota prot. n. 20499 del 15 luglio 1963 il Servizio nettezza urbana del Comune riferiva al Prefetto circa l’esposto presentato da alcuni cittadini residenti in prossimità delle cave, che si lamentavano del cattivo odore che emanava dalle stesse.

14.2. In proposito, il Servizio precisava di fare uso di “disinfettante” costituito da “cloroderivato da idrocarburi leggeri” al fine di ridurre i disagi degli abitanti della zona.

14.3. Il Collegio, anzitutto, osserva incidentalmente che nella nota il Servizio sosteneva che il materiale conferito in discarica era costituito da “rifiuti solidi urbani” ed aggiungeva che “le immondizie vengono sistematicamente seppellite con materiale inorganico”: difetta, dunque, di nuovo ogni riferimento specifico alle peci clorurate o, comunque, in generale a reflui di lavorazioni industriali.

14.4. Ciò premesso, il Collegio rileva in primo luogo che, nel linguaggio comune, il termine “disinfettante” viene normalmente utilizzato per individuare prodotti concepiti e venduti specificamente per tale finalità, non già sostanze costituenti scarti industriali ed utilizzate occasionalmente per fini di disinfestazione.

14.5. Inoltre, nel documento in esame non vi è alcun riferimento alla provenienza del “disinfettante” dalla Solvay (allora denominata società Chimica dell’Aniene); analoghe considerazioni, per vero, possono farsi con riguardo al non meglio precisato “trattamento chimico” delle discariche menzionato in un’apposita “appendice al progetto” di trattamento dei rifiuti approvato con delibera del Consiglio comunale di Ferrara in data 6 maggio 1955 (su cui infra, sub § 14.16).

14.6. Difettano, dunque, elementi concreti per sostenere che il “disinfettante” citato fosse costituito proprio dalle peci clorurate.

14.7. Non soccorrono, in proposito, i protocolli n. 4226 e n. 6801 del Comune di Ferrara per il 1961, peraltro relativi a documenti che non sono stati depositati in giudizio.

14.8. Giova premettere – ancorché non sia stato rilevato dalle parti – che i due protocolli si riferiscono verosimilmente a differenti atti inseriti nell’ambito di un unico procedimento, perché nel protocollo n. 4226 si legge l’annotazione “unita al 6801-61”, mentre in calce al protocollo n. 6801 si legge, fra parentesi, l’annotazione “(4226/61)”.

14.9. Orbene, l’atto risultante al protocollo n. 4226 è costituito dalla trasmissione del “benestare per il trasporto e scarico di derivati clorati del metano alla società Chimica dell’Aniene”: anche prescindendo dal fatto che tale “benestare” non è risultato rinvenibile e non è stato acquisito in atti, il Collegio rileva, anzitutto, che esso non proviene dal Comune di Ferrara bensì dall’Ispettorato del Lavoro di Bologna e risponde, quindi, a tutt’altre finalità.

14.10. Inoltre, l’oggetto riportato nel protocollo non chiarisce in alcun modo la specifica natura di questi “derivati clorati”: giacché comunque, come sopra evidenziato, la pratica risulta “unita al 6801-61”, appare ragionevole ritenere che si tratti dei medesimi “prodotti” poi menzionati nell’oggetto di tale ultimo protocollo.

14.11. A sua volta, l’atto risultante dal protocollo n. 6801 è costituito, a quanto si evince dall’oggetto ivi indicato, da una “proposta esaminare la possibilità di impiegare come disinfettanti una serie di prodotti derivati dal metano della Soc. Aniene Chimica”, precedente denominazione dell’attuale Solvay.

14.12. In disparte il fatto che, anche in questo caso, non è stato possibile reperire il documento protocollato in questione, il Collegio osserva, in primo luogo, che il protocollo fa riferimento a “prodotti”, ossia ad esiti di lavorazione, laddove le peci clorurate sono scarti di lavorazione privi di valore commerciale e destinati non già al mercato bensì all’eliminazione; per di più, manca qualsiasi riferimento alla discarica per cui è causa.

14.13. Fermi tali (già di per sé assorbenti e dirimenti) rilievi, il Collegio rileva altresì che, a quanto consta, l’atto de quo risulta essere una mera “proposta”: tuttavia, non è possibile ricostruire né dal predetto protocollo, né aliunde il contenuto (di rigetto, di accoglimento, istruttorio, soprassessorio, ecc.) dell’eventuale determinazione che abbia concluso il procedimento.

14.14. I due protocolli in questione, quindi, non risultano affatto decisivi ai fini di causa, giacché l’uno (il “benestare” dell’Ispettorato del Lavoro) è stato adottato da un’Amministrazione diversa da quella comunale, l’altro (la “proposta”) è meramente propedeutico ad un’eventuale determinazione finale di cui, pur a volerne ammettere l’esistenza, non è noto il contenuto.

14.15. Inoltre, i due protocolli non si riferiscono mai specificamente alla discarica per cui è causa e, comunque, non offrono elementi indiziari a sostegno della ricostruzione di parte appellante: un’ipotetica deliberazione che avesse avuto contenuto congruente con la predetta proposta e, quindi, fosse stata riferita a “prodotti” sarebbe, infatti, del tutto inidonea a dimostrare l’autorizzazione comunale a versare nella discarica residui industriali pesanti del tipo delle peci clorurate.

14.16. Può peraltro osservarsi, con ulteriore sforzo motivazionale, che la delibera consiliare del 6 maggio 1955 citata supra sub § 14.5 prova che un “trattamento chimico” delle discariche era stato previsto ben prima degli anni sessanta, allorché, secondo la contestata ed indimostrata tesi di parte appellante, il Comune di Ferrata avrebbe autorizzato il conferimento di peci clorurate nella discarica a fini di disinfestazione: tale circostanza, riferita all’anno 1955, rende senz’altro più plausibile la tesi della difesa comunale, secondo cui il predetto “trattamento chimico” non consisteva nel rilascio di scarti industriali, in specie di peci clorurate, bensì nell’irrorazione di un vero e proprio disinfettante, a quanto consta risalente ad epoca anteriore agli anni sessanta del secolo scorso.

14.17. Inoltre, le dichiarazioni rese in proposito da un ex Sindaco di Ferrara in carica dal 1999 al 2009 nell’ambito della trasmissione de “La7” del 17 luglio 2012 citata a pag. 26 del ricorso in appello – in disparte ogni considerazione sull’effettiva idoneità di tali dichiarazioni a veicolare elementi anche solo indiziari – risultano del tutto generiche e perplesse laddove riferite alla discarica del c.d. “Quadrante Est”.

14.18. L’intervistato, infatti, non indica gli estremi di specifici atti autorizzatori né dimostra di conoscere l’esatto contenuto di eventuali e non meglio indicati atti di assenso comunale riferiti allo sversamento di rifiuti industriali in tale discarica; egli, inoltre, fa riferimento a “fatture” di pagamento emesse, con riferimento allo scarico di rifiuti nella discarica, sino agli anni novanta del secolo scorso che, tuttavia, non hanno alcun riscontro agli atti del presente giudizio.

14.19. In definitiva, la prassi del ricorso alla disinfestazione della discarica non consente di per sé, in assenza di altri elementi, di affermare che i prodotti all’uopo utilizzati fossero proprio le peci clorurate.

15. L’assenza di alcuna dimostrazione documentale circa l’utilizzo, a fini di disinfestazione, di peci clorurate o, comunque, di residui industriali e, di converso, la presenza di plurimi elementi in senso contrario – come il riferimento ad un “disinfettante”, a “prodotti”, ad un “trattamento chimico” in essere già prima degli anni sessanta – impediscono, dunque, di collegare l’espressione “cloroderivato da idrocarburi leggeri” (cfr. supra, sub § 14.2) a scarti di lavorazioni industriali: le prospettazioni defensionali di Solvay, pertanto, risultano prive della necessaria adeguata base documentale e ciò rende, conseguentemente, non rilevante la prova testimoniale dedotta dalla ricorrente.

15.1. Peraltro, il dichiarante consta essere un ex dipendente di Solvay che, all’epoca dei fatti, svolgeva le mansioni di “Responsabile della fabbricazione clorometani a Ferrara” e, per di più, è chiamato a riferire circa le affermazioni che l’allora Capo Servizio dello stabilimento ferrarese di Solvay, oggi non più in vita, avrebbe fatto in ordine all’assenso comunale allo sversamento in discarica delle peci.

15.2. In disparte ogni considerazione in punto di attendibilità, si osserva anzitutto che, dato il vincolo di immedesimazione organica, le affermazioni rese da un dirigente apicale di una società di capitali, quale un Capo Servizio di una sede produttiva, sono giuridicamente imputabili alla società stessa: la testimonianza, dunque, è di fatto volta a veicolare in giudizio affermazioni favorevoli alla società ricorrente a suo tempo in tesi operate da un esponente apicale della medesima società.

15.3. Tuttavia, l’esposta assenza di sufficienti elementi oggettivi atti a suffragare le prospettazioni defensionali della ricorrente in ordine ad un assunto assenso comunale allo sversamento di peci clorurate in discarica rende tout court priva di rilevanza la dichiarazione che sarebbe stata resa in proposito – e che si vorrebbe, oltretutto, veicolare in giudizio de relato – da un esponente sociale dell’epoca (costante, sul punto, la giurisprudenza: cfr., ex multis, Cass., Sez. 1, 15 gennaio 2015, n. 569; Sez. 1, 3 aprile 2007, n. 8358).

15.4. La richiesta prova testimoniale risulterebbe, oltretutto, generica, giacché il dichiarante è chiamato a testimoniare, ancorché de relato, non circa uno specifico formale atto autorizzatorio sufficientemente individuato, bensì in ordine alla mera circostanza, rappresentata in termini assolutamente vaghi, di conferimenti di peci clorurate in discarica che sarebbero stati “concordati oltre che graditi”, senza, per vero, alcuna indicazione degli organi comunali coinvolti, della modalità di siffatti accordi, della data dei presunti contatti con gli esponenti dell’Amministrazione.

16. Sotto altro profilo, non vi sono elementi per sostenere che lo sversamento dei rifiuti fosse controllato e, pertanto, che il Comune avesse implicitamente autorizzato o tollerato il conferimento di rifiuti industriali o, comunque, che non potesse non sapere in proposito.

16.1. Dagli atti, invero, risulta solo che la discarica era accessibile dalla viabilità pubblica mediante una strada recintata ai lati (al fine di evitare danni alla circostante proprietà) e chiusa da un cancello.

16.2. Non risulta, tuttavia, né che il materiale sversamento dei rifiuti fosse attivamente, sistematicamente e continuativamente controllato da dipendenti del Comune, né che l’apertura del cancello fosse subordinata ad un controllo del materiale trasportato dal mezzo che chiedeva di accedere; non risulta neppure che vi fossero verifiche in ordine al fatto che il cancello fosse effettivamente chiuso, né si conosce chi ne detenesse le eventuali chiavi.

16.3. Del resto, la citata nota prot. n. 5415 del 29 maggio 1951 della Divisione lavori pubblici (di cui supra sub § 9) si limitava a suggerire, “almeno nei primi tempi”, la predisposizione di una “speciale vigilanza” della Polizia Municipale con riferimento alle trasgressioni al divieto di scaricare materiali nel vecchio deposito dismesso di Porta Po, mentre non erano, di contro, menzionate misure di vigilanza relativamente alla nuova discarica del “Quadrante Est”.

16.4. Di converso, il “sistema c.d. scarico controllato” citato nel verbale della seduta del Consiglio comunale di Ferrara del 7 luglio 1964 (di cui supra, sub §§ 9.8 e 11.8) consisteva, in realtà, nell’effettuazione di una specifica procedura igienica all’esito del conferimento dei rifiuti e non ad una qualche vigilanza “a monte” sul sito specificamente volta a prevenire conferimenti abusivi: viene, infatti, esplicitamente precisato nel citato verbale che “i rifiuti solidi” (termine, si osserva incidentalmente, che anche qui esclude ogni possibile riferimento a rifiuti industriali) “si portavano in una determinata località – fino a questo momento abbiamo trovato delle cave già pronte – si coprivano giorno per giorno le immondizie e si provvedeva alla disinfestazione […]”.

16.5. Infine, le dichiarazioni rese da una persona che si qualifica come ex dipendente dell’azienda municipalizzata di Ferrara nell’ambito della trasmissione de La7 richiamata supra sub §§ 14.17 e 14.18 risultano non sufficientemente contestualizzate, giacché non è individuata la discarica cui si fa riferimento né, per vero, sono forniti altri elementi circostanziali.

16.6. In assenza di adeguata dimostrazione, pertanto, deve ritenersi che (almeno) lo sversamento dei rifiuti non fosse presidiato continuativamente e, comunque, non fosse soggetto a specifici controlli.

17. In definitiva, in base al materiale in atti si deve concludere che la discarica non fosse destinata in via generale a rifiuti industriali; di converso, non è provato né che il Comune abbia rilasciato una speciale autorizzazione in tal senso a Solvay, né che lo sversamento dei rifiuti fosse controllato, sì da rendere de facto impossibile il conferimento di materiali vietati, quali gli scarti di lavorazione.

18. La ponderazione del materiale probatorio, traguardato secondo gli stilemi di cui all’art. 2697 c.c., conduce quindi a concludere nel senso che il conferimento in discarica delle peci clorurate da parte di Solvay fu effettuato senza alcuna autorizzazione e, evidentemente, senza alcuna comunicazione all’Amministrazione comunale (della quale, del resto, non vi è traccia in atti).

19. Questa deduzione disarticola ab interno l’apparato argomentativo defensionale di Solvay: il conferimento in discarica, infatti, spezza il nesso di causalità fra conferimento medesimo e successivi esiti inquinanti solo e nei limiti in cui il materiale sversato sia pienamente conforme – per tipologia, quantità e modalità di conferimento – a quello ammesso in discarica.

19.1. Viceversa, il soggetto che sversa in discarica rifiuti non ammessi resta responsabile della futura contaminazione, quand’anche conseguente a percolamento del materiale ivi conferito: l’onere del gestore della discarica di apprestare i convenienti presidi di sicurezza, invero, è predicabile solo in relazione allo specifico rischio di inquinamento derivante dal materiale ammesso in discarica.

19.2. In termini più generali, l’onere di mantenimento in sicurezza di una discarica è modulabile in base alla tipologia di rifiuto ivi destinato: una discarica deputata ad accogliere dapprima solo “rottami”, quindi anche “rifiuti solidi” urbani, richiede una soglia di attenzione ben inferiore rispetto ad una discarica invece preposta a ricevere materiale altamente inquinante come le peci clorurate, il cui abusivo conferimento, quindi, lascia in capo al soggetto che vi ha provveduto tutta la responsabilità della conseguente contaminazione.

20. Siffatte argomentazioni rendono sterile l’ulteriore eccezione di Solvay, secondo cui con l’entrata in vigore del d.p.r. n. 915 del 1982 e della l.r. n. 6 del 1986 erano stati imposti ai Comuni specifici doveri in punto di prevenzione dell’inquinamento anche in relazione alle discariche.

20.1. In primo luogo, non è dimostrato che il Comune fosse a conoscenza dell’indebito conferimento in discarica di rifiuti industriali, sì che non può postularsi un’omissione giuridicamente qualificata in capo all’Ente locale.

20.2. Inoltre, quand’anche si possa muovere al Comune l’addebito di non essersi comunque attivato per verificare che nella discarica fossero stati effettivamente conferiti solo inerti e rifiuti solidi urbani, questa condotta ha una valenza causale del tutto secondaria e marginale nell’ambito della verificazione dell’inquinamento in discorso, ascrivibile in misura assolutamente preponderante alla colpevole ed abusiva immissione nella discarica di materiale contaminante da parte di Solvay.

21. Non convincono, inoltre, le prospettazioni svolte da Solvay in ordine all’asserita insufficienza probatoria delle analisi isotopiche poste a base del provvedimento impugnato a dimostrare l’effettiva riconducibilità alla stessa Solvay del conferimento in discarica del materiale inquinante.

22. Al contrario, la presunzione su cui si fonda il provvedimento riposa su indizi gravi, precisi e concordanti (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30 luglio 2015, n. 3756, § 8.6; v. anche Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 9 marzo 2010, causa C-378/2008, §§ 53-57 e 64-65).

22.1. In primo luogo, tali analisi, sviluppate secondo stilemi metodologici a quanto consta accolti come validi dalla comunità scientifica, stabiliscono un nesso causale diretto fra produzione di clorometani (che all’epoca, per quanto in atti, veniva effettuata a Ferrara dalla sola Solvay) e contaminanti organoclorurati con composizione isotopica fortemente impoverita in carbonio 13, quali quelli reperiti nella discarica (v., in ordine alla necessità del puntuale accertamento del nesso eziologico, Corte di Giustizia UE, Terza Sezione, 4 marzo 2015, causa C-534/2013, §§ 54 e ss.).

22.2. In secondo luogo, Solvay non ha specificamente ed individualmente indicato quali altri stabilimenti nella zona di Ferrara utilizzassero, all’epoca dei fatti, procedimenti di lavorazione a base di metano produttivi di materiale di scarto connotato da forte impoverimento isotopico in carbonio 13.

22.3. In terzo luogo, la firma isotopica fortemente impoverita in carbonio 13 è presente anche nel sito ove un tempo sorgeva l’impianto Solvay di Ferrara ma, a quanto consta, non in altri dell’area industriale ferrarese.

22.4. In quarto luogo, Solvay non ha dimostrato quali altre tipologie di rifiuto diverse dalle peci clorurate possano rilasciare percolati così fortemente impoveriti in carbonio 13.

23. Oltretutto, la dimostrazione del nesso di causalità in subiecta materia non incontra i rigori propri del diritto lato sensu afflittivo, ove, come noto, è richiesto il superamento di ogni ragionevole dubbio, ossia una capacità dimostrativa dell’ipotesi eziologica prossima alla certezza.

23.1. Nella specie, di contro, è sufficiente che l’effettiva esistenza del nesso ipotizzato sia più probabile della sua negazione: è, in altre parole, sufficiente che la validità dell’ipotesi eziologica sia superiore al cinquanta per cento.

23.2. In termini generali, invero, l’ordinanza disciplinata dall’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006, che l’Amministrazione può emanare a carico del soggetto che sia riconosciuto responsabile della contaminazione, non ha finalità sanzionatoria di una condotta pregressa, ma natura riparatoria e ripristinatoria in relazione ad un evento di (ancora) attuale inquinamento (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5668).

23.3. Da ciò conseguono, per quanto qui di interesse, due fondamentali corollari: la dimostrazione del nesso di causalità si fonda sul criterio del “più probabile che non” e le disposizioni legislative dettate in subiecta materia dal decreto legislativo n. 152 del 2006 si applicano anche a fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto.

23.4. Gli istituti ivi previsti, infatti, non sanzionano, ora per allora, la (risalente) condotta di inquinamento, ma pongono attuale rimedio alla (perdurante) condizione di contaminazione dei luoghi, per cui l’epoca di verificazione della contaminazione è, ai fini in discorso, del tutto indifferente (conforme Cons. Stato, Sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4225).

23.5. Del resto, la risalenza dell’evento generatore dell’inquinamento funge da fattore di esclusione dell’applicazione della normativa del d.lgs. n. 152 del 2006 con esclusivo riferimento agli istituti delineati dalla Parte VI, mentre gli articoli 242 e 244 sono dettati nell’ambito della Parte IV (cfr., in proposito, l’art. 303, lett. f] e g], del decreto n. 152); inoltre, l’art. 242 menziona espressamente i casi di contaminazioni cosiddette “storiche” (cfr. i commi 1 e 11).

24. Per tutte le esposte ragioni, pertanto, il ricorso deve essere rigettato.

25. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza quanto a Solvay, mentre possono compensarsi con riferimento a Federchimica, in considerazione sia della natura e dello scopo dell’intervento da questa svolto, sia del relativo effetto nell’ambito del complessivo andamento del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Condanna Solvay s.a. a rifondere all’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna – A.R.P.A.E. le spese di lite, liquidate in complessivi € 7.000 (euro settemila/00), oltre accessori come per legge.

Condanna Solvay s.a. a rifondere al Comune di Ferrara le spese di lite, liquidate in complessivi € 7.000 (euro settemila/00), oltre accessori come per legge.

Spese compensate fra Federchimica, da un lato, Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna – A.R.P.A.E. e Comune di Ferrara, dall’altro.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 maggio 2018 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Troiano, Presidente

Oberdan Forlenza, Consigliere

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Giuseppe Castiglia, Consigliere

Luca Lamberti, Consigliere, Estensore