Nuova pagina 2

Criteri utili per la qualificazione di un rifiuto

di Mauro Sanna

Relazione tenuta al corso "Gestione dei Rifiuti" Rispescia (GR)  maggio 2003 presso il Centro Studi di diritto Ambientale dei CEAG - Legambiente

Nuova pagina 1

Ai fini dell’applicazione del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22  si intende per rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Da tale definizione emerge che la qualificazione di rifiuto è basata sulla sussistenza contemporanea o alternativa di tre condizioni:

-        che vi sia stata l’azione di disfarsi;

-        che vi sia la decisione del disfarsi;

-        che sussista l’obbligo del disfarsi.

Tutte e tre queste condizioni, proprio perché relative alla nozione di rifiuto, la cui gestione è anche soggetta a disciplina penale, debbono avere necessariamente un carattere oggettivo.

Mentre la prima e la terza condizione hanno per la loro stessa natura un evidente ed immediato carattere oggettivo, l’oggettività della seconda condizione deve essere riscontrata  attraverso l’analisi delle condizioni temporali e spaziali in cui si trova l’oggetto o la sostanza da qualificare.

Infatti l’oggettività della decisione del disfarsi dovrà risultare a priori, qualsiasi sia la successiva gestione del rifiuto. La decisione presa di disfarsi di un oggetto non potrà essere dimostrata a posteriori, perché in tal caso anche la effettiva e corretta   gestione del rifiuto potrebbe essere valutata solo a posteriori e non a priori, come è invece necessario per garantire la cautela  e la prevenzione, condizioni indispensabili nella gestione di un rifiuto. Se la decisione del disfarsi non risultasse a priori, la eventuale non corretta gestione di un rifiuto potrebbe essere valutata solo a smaltimento avvenuto; anzi  uno smaltimento non corretto potrebbe essere valutato solo se scoperto; ma se ciò non si verificasse, non si saprebbe mai dell’esistenza di un rifiuto e del suo non corretto smaltimento.

Proprio per evitare che questo accada, essendo un rifiuto sempre soggetto per la sua stessa natura all’alea di essere gestito in modo non corretto in considerazione anche dei costi connessi alla sua gestione, la normativa europea, in ossequio al principio di cautela e prevenzione, prevede che le modalità adottate per la gestione di un rifiuto siano note e verificate a priori e cioè dal momento stesso in cui si origina.

Infatti, il verbo “disfarsi” “deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo considerando, è la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell’articolo 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo”.

In sintesi, il controllo della gestione del rifiuto, perché sia effettivo e reale, deve iniziare dalla sua “nascita” e non dalla sua “morte”, cioè il rifiuto non potrà essere “scoperto”, e quindi qualificato come tale, solo quando è stato smaltito in modo non corretto. Si dovrà invece avere cognizione di esso dal momento in cui si genera, cosicchè fin dall’inizio possa essere seguita e valutata la sua corretta gestione.

Tale gestione potrà attuarsi attraverso operazioni di vendita, di scambio, di recupero e, nell’impossibilità di avvalersi di queste, attraverso un corretto smaltimento.

Sulla base di queste considerazioni è perciò  indispensabile definire a priori l’esistenza delle condizioni oggettive che dimostrano la decisione di disfarsi dell’oggetto da parte del suo detentore.

Queste condizioni, lungi dall’avere carattere soggettivo, dovranno essere necessariamente dimostrabili a priori in funzione della specifica situazione. In caso contrario si arriverebbe all’assurdo che una determinata sostanza in una certa situazione sia a priori qualificata come rifiuto e quindi soggetta alla disciplina dei rifiuti, mentre  in una altra circostanza e sempre a priori, la medesima sostanza non sia qualificata come rifiuto e quindi non sia soggetta a tale disciplina.

Inoltre in questo secondo caso, come già detto,  la verifica della gestione di un rifiuto sarebbe affidata esclusivamente al caso, non essendo noto a priori che si è in presenza di un rifiuto, si avrebbe perciò la prova che la sua gestione non è corretta solo a smaltimento avvenuto, se esso fosse scoperto.

Vari sono gli elementi che possono essere presi in considerazione per verificare che esiste oggettivamente la decisione di disfarsi di una sostanza o di un prodotto da parte del detentore originario.

Secondo l’interpretazione contenuta nel secondo comma  lett. a) dell’articolo 14 della legge  178/2002 non sarà da considerare azione di disfarsi di un oggetto o di una sostanza quando questa sia “effettivamente ed oggettivamente riutilizzata” non solo nello stesso ciclo produttivo o in un analogo, ma anche quando questa riutilizzazione avvenga in un ciclo produttivo diverso, purchè ciò avvenga senza alcun intervento preventivo. Perciò non si potrà parlare di decisione di disfarsi, e quindi di rifiuto, quando un oggetto, senza perdere la sua identità originaria, e quindi senza che subisca un intervento preventivo di trattamento, sia immesso in un altro ciclo produttivo essendo questo  un semplice riutilizzo e non  un recupero di materia o di energia.

Si potrà riscontrare a priori che effettivamente per un certo oggetto sussiste la decisione di disfarsi quando il processo produttivo originario o uno analogo o diverso non è in grado di riutilizzarlo, senza che esso perda la sua identità, in questo caso da parte del produttore non vi sarà altra possibilità se non quello di disfarsi di tale oggetto  o sostanze.

Egualmente in forza del secondo comma lett. b) del medesimo articolo 14 della L. 178, verrà meno l’intenzione di disfarsi se l’oggetto o la sostanza possono essere riutilizzati, quando questo avvenga dopo “un trattamento preventivo” e senza comunque che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del D.Lgs. 22/97, coerentemente con la nozione di riutilizzo. In questo caso infatti l’oggetto o la sostanza perderebbero la loro identità originaria, trattandosi infatti di non riutilizzo ma di un recupero di materia o di energia.

Sulla base di quanto elaborato nel tempo dalla Corte di Giustizia Europea, elementi non  rilevanti, per  escludere una sostanza, un materiale o un bene residuali di un ciclo di produzione o di consumo dalla disciplina prevista per la gestione di rifiuti sono:

-        l’intenzione del detentore;

-        la possibilità di riutilizzazione economica;

-        che sia inviato al riutilizzo;

-        che sia oggetto di negozio giuridico;

-        che sia quotato in listini commerciali;

-        che abbia un valore commerciale e sia raccolto a titolo commerciale ai fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo;

-        che sia smaltito o  recuperato da parte di imprese specializzate nel settore, o ad opera dell’impresa che li ha prodotti nel luogo di produzione;

-        che sia suscettibile di essere avviato a riutilizzo, o che possegga una qualificazione merceologica riconosciuta ufficialmente da borse merci,  listini ufficiali o altro;

-        che sia recuperato come combustibile in conformità alle esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali;

-        il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo;

-        la destinazione futura;

-        che sia stato oggetto di operazioni di cernita e di trasformazione;

-        che sia stato oggetto di un’operazione di recupero completa;

-        che possa essere recuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali;

-        l’uso, da parte del legislatore nazionale, di modalità di prova come presunzioni iuris et de iure che abbiano l’effetto di restringere l’ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che rispondono alla definizione del termine “rifiuti”;

-        il valore commerciale;

-        che siano raccolti a titolo commerciale ai fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo.

Sempre sulla base di quanto elaborato nel tempo dalla Corte di Giustizia Europea indizi oggettivi utili a stabilire che il detentore ha deciso di disfarsi di una sostanza o di un bene derivanti da un ciclo di produzione o di consumo possono essere i seguenti:

-        la sua funzione economica d’origine;

-        la sua utilizzazione da parte del detentore, in relazione alla funzione economica d’origine;

-        è un sottoprodotto (un residuo) di un processo di produzione imperniato sull’ottenimento di un altro prodotto;

-        il riutilizzo senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione   è solo eventuale;

-        è usato come combustibile, in sostituzione di combustibile ordinario;

-        è un residuo di produzione che non è stato ricercato in quanto tale al fine di utilizzarlo come combustibile;

-        è utilizzato come combustibile;

-        è un residuo di un processo di produzione di un’altra sostanza;

-        non è ipotizzabile nessun altro uso se non lo smaltimento;

-        la composizione non è idonea per l’uso che ne viene fatto o tale uso deve avvenire in particolari condizioni di precauzione per l’ambiente;

-        se è stata oggetto di un’operazione di recupero completo ai sensi dell’allegato II B della direttiva, e  possa essere trattato nello stesso modo di una materia prima;

-        è usato come combustibile secondo una modalità corrente di recupero dei rifiuti;

-        la sostanza è un residuo di produzione che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore;

-        la sua produzione non è lo scopo primario, esso è prodotto solo in via accessoria e l’impresa cerca di limitarne la quantità;

-        è prodotto accidentalmente nel corso della lavorazione di un materiale o di un oggetto e  non è il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente;

-        il grado di probabilità di riutilizzo della sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare;

-        la sua composizione non è idonea all’utilizzo che ne viene fatto;

-        il suo utilizzo deve avvenire in condizioni particolari di prudenza a causa della pericolosità per l’ambiente della sua composizione”;

 

La Corte di Giustizia e la nozione di rifiuto

·      Corte di Giustizia CE, 28 marzo 1990, Vessoso ed altri

-        L’articolo 1 della direttiva del Consiglio n. 75/442 relativa ai rifiuti …. si riferisce, in generale, ad ogni sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, senza distinguere a seconda dell’intenzione del detentore che si disfa della cosa.

-        La nozione di rifiuto .. non deve essere intesa nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Tale nozione non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un oggetto abbia l’intenzione di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di altre persone.

 

·      Corte  di giustizia CE, 28 marzo 1990, C-359/88, Zanetti

Corte  di giustizia CE, 10 maggio 1995, C-422/92

-        Una normativa nazionale la quale adotti una definizione della nozione di rifiuto escludente le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con le direttive CEE ….

-        La nozione di rifiuto ……. non deve essere intesa nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica da parte di altre persone”.

 

·        Corte  di giustizia CE, 25 giugno 1997, C-304/94, Tombesi e altri

-        La nozione di “rifiuto” vigente in Europa non consente affatto che i residui industriali avviati a riutilizzo siano svincolati dai controlli e dagli obblighi previsti per i rifiuti; tale nozione non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un materiale abbia l’intenzione di escludere ogni riutilizzazione economica da parte di terzi.

-        La nozione di “rifiuti” figurante all’articolo 1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, …. non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati.

-        Il criterio essenziale per la qualificazione di un prodotto come rifiuto continua ad essere il fine della sua utilizzazione da parte del detentore, secondo la funzione economica d’origine; infatti, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi (o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi), poco importa se ciò avviene attraverso lo smaltimento del prodotto in questione o tramite il suo recupero”.

-        “Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva ……… intende riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale ai fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo” ……… Omissis …..

-        “La nozione di rifiuto quale risulta dalla direttiva 77/442/CEE come modificato dalla direttiva n. 91/156/CE nonché dalla direttiva 91/689/CE e dal regolamento CEE n. 259/93, deve essere intesa nel senso che non esclude dalla piena applicabilità della disciplina comunitaria le sostanze o materiali derivanti da processi di produzione o di consumo suscettibili di essere avviati a riutilizzo, né le sostanze e i materiali che posseggono una qualificazione merceologica riconosciuta ufficialmente da borse merci,  listini ufficiali o altro. In particolare tale nozione non presuppone che il detentore che si disfi di una sostanza o materiale abbia l’intenzione di escludere ogni riutilizzazione economica da parte di terzi”.

 

·        Corte di Giustizia CE, 18 dicembre 1997, C-129/96, rel. L. Sevòn

-        La direttiva sui rifiuti si applica anche lo smaltimento e al recupero di rifiuti ad opera dell’impresa che li ha prodotti, nei luoghi di produzione.

-        Il mero fatto che una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale non esclude dalla nozione di rifiuto ai sensi dell’articolo 1, lett. a), della direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE., “come risulta in particolare dagli articoli 9 e 11 della direttiva 75/442, come modificata, la stessa direttiva si applica non solo allo smaltimento ed al recupero dei rifiuti da parte di imprese specializzate nel settore, ma del pari allo smaltimento ed al recupero di rifiuti ad opera dell’impresa che li ha prodotti nel luogo di produzione”; “ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 75/442, come modificata, i rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza che vengano utilizzati procedimento o metodi atti ad arrecare pregiudizio all’ambiente, nulla nella direttiva indica che essa non sia applicabile alle operazioni di smaltimento o di recupero che fanno parte di un processo industriale, qualora esse non sembrano costituire pericolo per la salute dell’uomo e per l’ambiente”.

 

·        Corte di Giustizia CE. 15 giugno 2000, proc. riuniti c-418/97 e c-419/97, Arco

-        Anche se un rifiuto è stato oggetto di un’operazione di recupero completo la quale comporti che la sostanza di cui trattasi ha acquisito le stesse proprietà e caratteristiche di una materia prima, ciò nondimeno tale sostanza può essere considerata un rifiuto se, conformemente alla definizione di cui all’articolo 1, lett. a) della direttiva, il detentore della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene.

-        Il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto. Infatti la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non ha incidenza sulla natura di rifiuto definita, conformemente all’articolo 1, lett. a) della direttiva, con riferimento al fatto che il detentore dell’oggetto o della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene.

-        Così come la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso che esclude le sostanze e oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (sentenza Vessoso e Zanetti) essa non va neppure intesa nel senso di esclusione delle sostanze degli oggetti suscettibili di riutilizzo come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza  trasformazioni radicali.

L’impatto ambientale della trasformazione di tale sostanza non incide infatti sulla qualifica come rifiuto. Un combustibile  ordinario può essere bruciato in spregio delle norme di tutela ambientale senza divenire un rifiuto per tal motivo, mentre sostanze di cui ci si disfa possono essere recuperate  come combustibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali pur continuando ad essere qualificate come rifiuti”.

-        Il fatto che una sostanza sia un sottoprodotto (un residuo) di un processo di produzione imperniato sull’ottenimento di un altro prodotto costituisce un’indicazione della possibilità che si tratti di un rifiuto ai sensi della direttiva”.

-        “Talune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha deciso o ha l’obbligo di disfarsene ai sensi dell’articolo 1, lett. a), della direttiva.

Ciò si verifica in particolare se la sostanza utilizzata è un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di utilizzarlo come combustibile.

Infatti l’uso di una sostanza come combustibile, in sostituzione di combustibile ordinario, è un elemento che può far ritenere che l’utente di tale sostanza se ne disfa vuoi perché ne ha l’obbligo.

Può altresì essere considerato un indizio il fatto che la sostanza è un residuo per cui non è utilizzabile in nessun altro uso se non lo smaltimento”.

-        “Il fatto che una sostanza utilizzata come combustibile sia il residuo di un processo di produzione di un’altra sostanza, che non sia ipotizzabile nessun altro uso di tale sostanza se non lo smaltimento, che la composizione della sostanza non sia idonea per l’uso che ne viene fatto o tale uso debba avvenire in particolari condizioni di precauzione per l’ambiente possono essere considerati indizi del fatto che il detentore della sostanza stessa se ne disfa ovvero ha deciso o ha l’obbligo di disfarsene ai sensi dell’articolo 1 lett. a) della direttiva”.

-        “Il fatto che i rifiuti di cui trattasi nella causa principale siano stati oggetto di previe operazioni di cernita e di trasformazione in trucioli non sia sufficiente per far loro perdere la caratteristica di rifiuti. Siffatte operazioni non costituirebbero un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B della direttiva bensì di un semplice trattamento preliminare dei rifiuti. Una sostanza perderebbe le caratteristiche di rifiuto unicamente se sia stata oggetto di un’operazione di recupero completo ai sensi dell’allegato II B della direttiva, cioè se possa essere trattata nello stesso modo di una materia prima ovvero, come nel caso di specie, se il potenziale materiale o energetico del rifiuto è stato utilizzato nella combustione.

-        A questo proposito va rilevato anzitutto che, anche se un rifiuto è stato  oggetto di un’operazione di recupero completo la quale comporti che la sostanza di cui trattasi ha acquisito le stesse proprietà e caratteristiche di una materia prima, ciò nondimeno  tale sostanza può essere considerata un rifiuto se, conformemente alla definizione di cui all’articolo 1, lett. a) della direttiva, il detentore della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene.

-        Il fatto che la sostanza sia il risultato di un’operazione di recupero completo ai sensi dell’allegato II B della direttiva costituisce solamente uno degli elementi che vanno presi in considerazione per stabilire se si tratti di un rifiuto, ma non consente di per sé di trarne una conclusione definitiva.

-        Se un’operazione di recupero completo non priva necessariamente un oggetto della qualifica di rifiuto, ciò vale a maggior ragione per una semplice operazione di cernita o di trattamento preliminare di tali oggetti, come la trasformazione in trucioli di residui di legno impregnati di sostanze tossiche ovvero la riduzione dei trucioli in polvere di legno, che non depurando il legno delle sostanze tossiche che lo impregnano non ha l’effetto di trasformare i detti oggetti in un prodotto analogo ad una materia prima, con le medesime caratteristiche e utilizzabile nelle stesse condizioni di tutela ambientale”.

-        “per stabilire se l’uso come combustibile di una sostanza come i trucioli di legno sia riconducibile al concetto di disfarsene, il fatto che tali sostanze possano essere recuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali non è rilevante.

-        Il fatto che tale uso come combustibile costituisca una modalità corrente di recupero dei rifiuti, possono essere considerati come indizi del fatto del detentore delle medesime se ne disfa ovvero ha deciso o ha l’obbligo di disfarsene, ai dell’articolo 1 lett. a) della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156. L’effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va però accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia”.

 

·        Corte di Giustizia CE, 15 giugno 2000, proc. riuniti c-418/97 e c-419/97, Arco

-        “In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purchè ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (in tal senso vedansi le sentenze 21 settembre 1983, cause riunite 205/82-215/82, Deutsche Milchkontor e a., Racc. pag. 2633, punti 17-25 e 35-39; 15 maggio 1986, causa C-212/94, FMC e a., Racc. pag. I-389, punti 49-51).

-        Potrebbe pregiudicare l’efficacia dell’articolo 130 R del Trattato e della direttiva l’uso, da parte del legislatore nazionale, di modalità di prova come presunzioni iuris et de iure che abbiano l’effetto di restringere l’ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che rispondono alla definizione del termine “rifiuti” ai sensi della direttiva.

-        In mancanza di disposizioni comunitarie specifiche relative alla prova dell’esistenza di un rifiuto, spetta al giudice nazionale applicare le norme in materia del proprio ordinamento giuridico in modo da non pregiudicare la finalità e l’efficacia della direttiva”.

 

·        Corte di Giustizia CE, Sesta Sezione 18 aprile 2002, proc. C-9/00, Palin Granit Oy

-        “L’ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine “disfarsi” (sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I.7411, punto 26).

-        Il verbo “disfarsi” deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo considerando, è la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell’articolo 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in sensi restrittivo (v. sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punti da 36 a 40).

-        La questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva 75/442 ed in modo da non pregiudicarne l’efficacia (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 73, 88 e 97)”.

-        “Nella sentenza 28 marzo 1990, cause riunite C-206/88 e C-207/88, Vessoso e Zanetti (Racc. pag. I-146, punto 9), la Corte ha definito la nozione di rifiuto come comprensiva delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico. Nella sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi e a. (Racc. pag. I-3561, punto 52), la Corte ha specificato che il sistema di sorveglianza  e di gestione istituito dalla direttiva 75/442 intende riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale ai fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo”.

-        “Quindi né il fatto che alcuni detriti siano oggetto di un’operazione di trattamento prevista dalla direttiva 75/442, né la circostanza che essi siano riutilizzabili consentono di stabilire se tali detriti siano o meno rifiuti ai sensi della direttiva 75/442”.

-        “Nei punti da 83 a 87 della citata sentenza ARCO Chemie Nederland e a., la Corte ha sottolineato l’importanza di verificare se la sostanza sia un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore. Come la Commissione osserva, nella causa principale, la produzione di detriti non è lo scopo primario della Palin Granit. Essi vengono prodotti solo in via accessoria e l’impresa cerca di limitarne la quantità. Orbene, per comune esperienza, un rifiuto è ciò che viene prodotto accidentalmente nel corso della lavorazione di un materiale o di un oggetto e che non è il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente”.

-        “Di conseguenza risulta evidente che detriti provenienti dall’attività estrattiva, che non si configurano come produzione principale derivante dallo sfruttamento di una cava di granito, rientrano, in via di principio, nella categoria dei “[r]esidui provenienti dall’estrazione e dalla preparazione delle materie prime” di cui al punto Q 11 dell’allegato I della direttiva 75/442”.

-        “A tale interpretazione potrebbe essere opposto l’argomento che un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di “disfarsi” ai sensi dell’articolo 1, lett. a), comma 1, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.

-        “Un’analisi del genere non contrasterebbe con le finalità della direttiva 75/442. In effetti non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti”.

-         “Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo, ricordato al punto 23 della presente sentenza, di interpretare in materia estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione”.

-        “Oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di “disfarsi”, bensì un autentico prodotto”.

-        “Al punto 87 della citata sentenza ARCO Chemie Nederland e a., la Corte ha considerato come indizio del fatto che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha deciso o ha l’obbligo di disfarsene ai sensi dell’articolo 1, lett. a), della direttiva 75/442, il fatto che la sostanza sia un residuo di produzione la cui composizione non è idonea all’utilizzo che ne viene fatto ovvero che tale utilizzo debba avvenire in condizioni particolari di prudenza a causa della pericolosità per l’ambiente della sua composizione”.

-        “Per quanto riguarda i detriti, la circostanza che essi abbiano la stessa composizione dei blocchi di pietra estratti dalla cava e che non cambino il loro stato fisico potrebbe quindi renderli adatti all’utilizzo che se ne possa fare. Tuttavia tale argomentazione sarebbe decisiva solo nel caso in cui venisse riutilizzata la totalità dei detriti. Non si può contestare che il valore commerciale dei blocchi di pietra dipende dalla loro dimensione, dalla loro forma e dalla loro possibilità di utilizzo nel settore edile; tutte qualità che, nonostante l’identità della loro composizione, i detriti non presentano. Pertanto tali detriti non sono altro che residui di produzione.