La tutela
penale dell’ambiente: il modello sanzionatorio.
I
reati di inquinamento e di pericolo concreto e attuale di inquinamento.
Reato di cui
all’art. 51 bis D. Lgs. n. 22/97 e
orientamenti della dottrina.
La
giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Considerazioni conclusive.
La tutela
penale dell’ambiente: il modello sanzionatorio.
In considerazione della ormai generalizzata
consapevolezza della speciale valenza del bene <
Tali difficoltà ed incertezze hanno inciso,
nell’epoca attuale come in quella passata, sulla scelta in ordine alle
tecniche penalistiche di protezione dell’ecosistema che sino ad ora è stata
caratterizzata dall’opzione verso un modello sanzionatorio che riguarda
fattispecie penali ove non rilevano le forme di aggressione al bene (ambiente)
bensì emerge come elemento essenziale della condotta la violazione di un
obbligo che il soggetto è tenuto ad osservare per la qualifica rivestita[2].
Questa tematica afferente la tecnica di normazione
fondata su meri reati di disobbedienza è stata oggetto di vivaci discussioni da
parte della dottrina (che, peraltro, per lungo tempo ha trascurato questo
settore relegato per lo più all’attenzione di pochi studiosi) per il rilievo
che rivestono le questioni poste dal diritto ambientale per la teoria generale
del reato e della pena.
Da tempo è stato evidenziato che la stragrande
maggioranza dei reati ambientali si incentra sull’assenza o inosservanza del
contenuto di un atto amministrativo (l’autorizzazione allo scarico nelle
acque, allo smaltimento di rifiuti, all’emissione di fumi nell’atmosfera
etc.), perno a sua volta di un sistema che mira soprattutto alla composizione del conflitto economia – ecologia, così che il loro
disvalore di evento, più che nella lesione o messa in pericolo dell’equilibrio
ecologico di acque aria o suolo, parrebbe consistere nel
mero <
In linea generale, si può affermare che il paradigma
di illecito prescelto ed utilizzato dal legislatore in materia ambientale è
quello del reato di pericolo presunto (o astratto).
In questa sede non si intende addentrarsi nelle
sottili distinzioni emerse in dottrina afferenti la problematica dei reati di
pericolo presunto e dei reati di pericolo astratto, ma per i limitati confini
della presente ricerca basti ricordare che, secondo un’opinione i reati di
pericolo presunto sono ipotesi in cui “il legislatore delinea un fatto tipico
sul presupposto ch’esso costituisca, nella normalità dei casi, la messa in
pericolo di un determinato interesse. Così, ad es., nell’art. 437, comma 1,
c.p., la punibilità di <
La rigidità di tale contrapposizione è stata
tuttavia giustamente contestata dalla dottrina, che ha osservato come in alcune
fattispecie sia bensì necessario un accertamento circa il pericolo, inteso però
non come probabile danno di uno o più interessi concretamente determinati, ma
solo come potenzialità lesiva generica. Così, ad es., l’art. 440 c.p.
punisce la corruzione o l’adulterazione di acque o sostanze alimentari
<
Sul piano operativo, come già da altri ben
evidenziato, ne deriva che “in virtù dell’utilizzazione di tali modelli, al
giudice penale è in linea di principio preclusa la possibilità di verificare
in concreto se v’è stata una messa in pericolo al bene giuridico protetto”[5].
Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad
utilizzare il modello del reato di pericolo presunto (o astratto), anziché
quello del reato di pericolo concreto o, addirittura, di danno “è intuibile:
è ben difficile andare a dimostrare, se si utilizza il paradigma del reato di
pericolo concreto o del reato di danno, la sussistenza di un rapporto di
causalità tra l’azione del singolo soggetto e l’evento…”.
Sul piano teorico, si è dubitato della legittimità
costituzionale di tale opzione e, nello specifico, della compatibilità di tale
modello con il principio di offensività, soprattutto in riferimento alle
difficoltà connesse all’individuazione di un bene giuridico
<
In proposito, va ricordato che un utile contributo al
superamento di tale obiezione viene dalla concezione c.d.
antropocentrica dell’ambiente che considera la protezione degli ecosistemi
come funzionale al soddisfacimento dei bisogni umani[6], concezione che appare più
aderente anche alla nozione delineata dal giudice delle leggi che costituisce
diritto vivente e vigente[7].
Tale concezione “è l’unica che consente di
instaurare, nell’ottica della c.d. <
Il modello afferente al reato di pericolo presunto
consente, come già accennato, una tutela anticipata del bene ambiente in quanto
individua la condotta vietata, secondo le ipotesi più ricorrenti, a) nella
mancanza del provvedimento di autorizzazione,
b) nella violazione di una ingiunzione della Pubblica Amministrazione, c) nel
superamento dei limiti di accettabilità previsti da una fonte sottordinata alla
legge penale.
Proprio il costante riferimento del precetto penale
alla disciplina amministrativa ha indotto la qualificazione del diritto penale
dell’ambiente come normativa a tutela di <
In dottrina, è stato evidenziato che “la stessa
struttura dei modelli di illecito utilizzati sinora può indubbiamente far
pensare ad una sorta di <
Detto orientamento è
conforme a quello del giudice delle leggi che (in materia di legge
<
che,
in altri termini, il previo controllo amministrativo rispetto a determinate
attività può essere giustificato per la rilevanza e la natura dell’interesse
pubblico in gioco (…) quando il legislatore ritenga imprescindibile la
verifica preventiva della compatibilità dell’attività privata con
l’interesse pubblico tutelato (principio desumibile dall’art. 7 della legge
n. 1497 del 1939 in relazione all’art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1997, n. 616,
come modificato dall’art. 1 del d.-l. 27 giugno 1985, n. 312 nel testo
risultante dalla legge di conversione n. 431 del 1985) ”[10].
Rispetto al modello di illecito di cui si discute
molte riserve sono state avanzate sotto il profilo della sua adeguatezza in
rapporto al principio di legalità in quanto lo schema della <
La determinazione delle fattispecie penali risente,
quindi, delle <
Da un altro punto di vista è stato evidenziato che
il fenomeno cd. della <
I
reati di inquinamento e di pericolo concreto e attuale di inquinamento.
La breve analisi che precede relativa al modello
sanzionatorio dominante in materia di reati ambientale è parsa indispensabile
al fine di meglio inquadrare l’illecito penale di cui all’art. 51 bis D.
Lgs. n. 22/97, dedicato alla “Bonifica dei siti”.
Tale disposizione prevede che “Chiunque cagiona
l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto
dall’articolo 17, comma 2, è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a
un anno e con l’ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se non
provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all’articolo 17. Si
applica la pena dell’arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da
lire diecimilioni a lire centomilioni se l’inquinamento è provocato da
rifiuti pericolosi……”.
L’ art. 17, comma 2, D. Lgs. n. 22/97, stabilisce che “chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento. A tal fine…” sono imposti specifici adempimenti al responsabile dell’inquinamento[13].
Secondo il combinato disposto degli artt. 51bis
e 17 D. Lgs. n. 22/97, si possono distinguere le seguenti ipotesi: a) chiunque
cagiona l’inquinamento; b) chiunque cagiona un pericolo concreto ed attuale di
inquinamento. In tali casi, il responsabile viene sanzionato con pena congiunta
“se non provvede” alla bonifica secondo il procedimento di cui all’ art.
17. L’obbligo di provvedere agli interventi di bonifica può sorgere anche a
seguito di ordinanza sindacale con la quale il responsabile dell’inquinamento
viene diffidato a svolgere tali attività[14].
Ai fini dell’individuazione dei comportamenti
delineati dalle disposizioni di cui agli artt. 17 e 51 bis D. Lgs. n. 22/97, assume particolare rilievo la nozione sito che
riguarda una <>[15].
Il concetto di <
Il <
Per <
Per
effetto della novella di cui all’art. 9, comma 4, L. n. 93/2001, che ha
introdotto il comma 13 ter nell’art.
17, D. Lgs. n. 22/97, “Gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale previsti dal presente articolo vengono effettuati
indipendentemente dalla tipologia, dalle dimensioni e dalle caratteristiche dei
siti inquinati nonché dalla natura degli inquinamenti”.
Da
quest’ultimo inciso, anche se la disposizione richiede ulteriori
approfondimenti in relazione ai contenuti degli allegati annessi al D. M. n.
471/99 che meglio possono chiarire la prima parte della stessa, si può evincere
che l’ambito operativo delle disposizioni di cui agli artt. 17 e 51 bis
D. Lgs. n. 22/97 è esteso ai
fatti di inquinamento causati non solo da rifiuti ma anche da altre fonti
inquinanti, salvo le fattispecie disciplinate dalle altre leggi speciali[19]
che dovranno essere coordinate con quella in esame.
Sin
dall’entrata in vigore del decreto “Ronchi” la fattispecie in esame è
stata oggetto di attenzione e discussione da parte della dottrina[20]
al fine individuare il precetto penalmente sanzionato ovvero l’inquadramento
dogmatico della norma incidente sulla determinazione del momento in cui il reato
si perfeziona e sugli altri effetti penali ad esso consequenziali.
In proposito, si può affermare che due indirizzi
hanno raccolto l’adesione di maggior parte degli autori.
Reato di cui
all’art. 51 bis D. Lgs. n. 22/97 e
orientamenti della dottrina.
Secondo un indirizzo “l’art. 51 bis - al pari
dell’originario 50, comma 2 - prevede una fattispecie di reato omissiva
propria, consistente nella mancata bonifica, da eseguirsi nell’osservanza del
procedimento di cui all’ art. 17, comma 2, lett. a, b e c; laddove il
superamento o il pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti di
accettabilità, cagionato anche senza colpa, in quanto imputabile a titolo di
responsabilità oggettiva, costituisce il necessario presupposto della condotta,
da cui nasce l’azione doverosa (id
est: la bonifica), la cui omissione, imputabile a titolo di dolo o colpa, è
sanzionata con la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda. Dunque, una
fattispecie di pericolo presunto. In altre parole, riteniamo, che il solo evento
di aver cagionato l’ inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di
inquinamento ai sensi dell’art. 17, comma 2, non possa ritenersi sufficiente
ad integrare la condotta di reato, ma che ne costituisca solo un prius,
un presupposto (che deve essere conosciuto dall’agente), ossia una situazione
di fatto, richiesta dalla legge, perchè nasca l’obbligo giuridico di agire,
la cui violazione è sanzionata dall’art. 51 bis. Il reato, pertanto, potrà
dirsi consumato solo in quanto il soggetto obbligato abbia omesso, dolosamente o
colposamente, di adempiere a ciascuno degli adempimenti richiesti dall’art.
17, comma 2, ai fini della bonifica.....”[21].
Appare utile precisare che i presupposti della
condotta (lato sensu “presupposti
del reato”) sono “antecedenti logico-giuridici della condotta, inseriti
nella fattispecie incriminatrice, e tali da condizionarne la tipicità: così,
ad. es., il precedente matrimonio nel delitto di bigamia (art. 556 comma 1 c.p.)…..Si
tratta di <
Dopo aver esaminato comparativamente le fattispecie
di cui agli artt. 51 bis, 1° comma,
D. Lgs. n. 22/97 e 58, commi 1 e 4, D. Lgs. n. 152/99, un illustre Autore ha
concluso che entrambe puniscono l’inosservanza di obblighi di bonifica e
ripristino ambientale[23]
e che “…la particolarità di queste fattispecie criminose deriva dal fatto
che:
a) presuppongono
un inquinamento o un pericolo concreto di inquinamento già realizzato. Con
la rilevante differenza, tuttavia, che nell’ipotesi di cui all’art. 51 bis
d. lgs. n. 22/1997 l’inquinamento è normativamente considerato quale superamento
dei limiti cui al comma 1, lett. a), mentre nella fattispecie di cui
all’art. 58, d. lgs. n. 152/1999 si fa riferimento ad un danno
alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, o,
genericamente, ad un pericolo concreto e
attuale di inquinamento ambientale”.
Criticando la
tecnica normativa utilizzata dal legislatore l’Autore citato rileva che appare
poco “sensato, con riferimento alla criminalità dì impresa, il predisporre
una sanzione penale per l’inosservanza di obblighi di fare in un sistema
legato, anche per principio costituzionale, alla responsabilità individuale.
D’altronde, sarebbe impraticabile – restando ancorati al principio societas
delinquere non potest – anche una soluzione che vedesse l’obbligo
ripristinatorio come vera e propria sanziona penale principale o accessoria:
tale pena verrebbe, infatti, ad imporre un obbligo praticamente inesigibile”[24].
Per
il secondo orientamento il reato di cui all’art. 51 bis
si configura come reato di evento
in cui la condotta si perfeziona con l’aver cagionato l’inquinamento o il
pericolo concreto ed attuale di inquinamento, mentre l’omessa bonifica
costituisce una causa di non punibilità[25].
Per questa opzione interpretativa la fattispecie di
cui all’art. 51 bis imposta la
condotta “penalmente rilevante, con l’espressione <
Epperciò, rimanda, direttamente alla norma – principio
(sostanziale), fissata dalla prima parte del medesimo comma 2, e, quindi, alla
fattispecie del <
Non è dato, perciò, leggere la norma, assumendo
che: <
Una simile impostazione è in sé contraddittoria
sotto due profili:
a)
perché esordisce con l’affermazione <
b)
perché cerca di rettificare la prima affermazione con il riferimento
preciso al <
In definitiva, a noi sembra che non sia consentito all’interprete spezzare il vincolo
logico-giuridico esistente tra la prima parte dell’art. 51-bis e la norma-principio dell’art. 17, comma 2, che identificano
entrambi la stessa condotta, giuridicamente rilevante, ai fini civili,
amministrativi e penali, secondo una impostazione normativa unitaria e
sistematica, pur con la differenziazione dell’elemento soggettivo richiesto,
ai fini penali, dall’art. 51-bis,
risultante dalla stessa lettera di quest’ultimo”[26].
Un chiaro Autore ponendo a confronto la pregressa fattispecie di cui all’art. 50,
comma 2, D. Lgs. n. 22/97[27], con l’attuale 51 bis
osserva in ordine alla prima che “Si trattava, dunque, di un reato omissivo a
soggettività ristretta che aveva come presupposto della punibilità del fatto
il superamento dei limiti di contaminazione di cui all’art. 17, lett. a) che a
sua volta, per la determinazione degli standards, rinviava al regolamento di
esecuzione. Secondo questa formulazione legislativa, la norma penale era
applicabile anche a fatti pregressi di inquinamento: l’obbligo di bonifica
penalmente sanzionato operava anche, ad esempio, nell’ipotesi di discariche
abusive dismesse in data anteriore al Ronchi ma pur sempre fonti di inquinamento
secondo i criteri di cui all’art. 17. La fattispecie di disobbedienza, appena
indicata, aveva come unico presupposto, infatti, l'effettiva conoscenza
dell’inquinamento pregresso del sito industriale anche se l’inquinamento
fosse stato semplicemente <
Lo stesso Autore dopo aver sottolineato le difficoltà
interpretative afferenti la struttura di tale reato rileva che “Con
l’introduzione dell’art. 51 bis
(ad opera del decreto Ronchi bis) il
legislatore, melius re pensa, sembra
voler ovviare a queste difficoltà mutando la struttura del reato in questione:
da reato d’obbligo a reato di offesa. La condotta causale consistente nel
cagionare l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento
normativamente fissato (art. 17, commi 1 e 2) entra a far parte del precetto
penale e da mero presupposto del reato diventa, invece, condotta tipica.
L’art. 51 bis intende punire
<
La
giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Il giudice di legittimità condividendo
l’inquadramento dogmatico per primo esaminato classifica la fattispecie di cui
agli artt. 17 e 51 bis, D. Lgs. n.
22/97 “come reato di pericolo presunto che si consuma ove il soggetto non
proceda al corretto adempimento dell’obbligo di bonifica con le cadenze
procedimentalizzate dall’art. 17”[29].
Tale qualificazione appare “più coerente con il
sistema complessivo, delineato dall’art. 17 e soprattutto dal secondo comma,
con i principi comunitari e nazionali in tema di danno ambientale e di centralità,
in materia di rifiuti, della bonifica e messa in sicurezza dei siti, con la
pregressa disposizione contemplata all’art. 50 secondo comma, di cui
costituisce esplicita specificazione di una delle due tesi sostenute in dottrina
nel vigore della predetta, e con analoga disposizione (art. 58 quarto comma d.
lvo n. 152 del 1999), contenuta nella normativa di un settore affine (quello
dell’inquinamento idrico) in una successiva disciplina, che ricalca quella
dell’art. 51 bis in esame, dovendosi escludere
dalla condotta cioè dall’elemento oggettivo del reato l’attività che
ha cagionato l’inquinamento, che potrà anche essere accidentale senza violare
l’art. 27 Cost., in quanto la stessa integra soltanto il fatto originante gli
obblighi di bonifica e non il precetto citato.
L’interpretazione seguita si presenta, poi, più
rispondente ai principi di offensività e di proporzionalità della pena, perché,
attraverso il rafforzamento penalistico dell’effettività delle misure
reintegratorie del bene offeso, si fa assumere all’interesse pubblico alla
riparazione una connotazione particolare, che permea di sé il precetto e
diviene esso stesso bene giuridico protetto.
L’esegesi avanzata è, infine, più consona alla
limitatezza delle risorse ambientali ed all’irreversibilità di alcuni danni,
a volte incommensurabili, ed ai connotati propri del diritto penale ambientale,
nel quale l’apprestamento di una serie di reati di pericolo presunto “di
scopo” e di un modello di tutela c.d. ingiunzionale risponde in via immediata
alla tutela dell’ambiente”.
Per quanto riguarda i profili dell’operatività
della disposizione in esame la Suprema Corte osserva che “in considerazione
dell’inquadramento dell’inquinamento o del pericolo dello stesso fra i
presupposti di fatto, la norma di cui all’art. 51 bis d. lvo cit.
si applicherà anche a situazioni verificatesi in epoca anteriore
all’emanazione del regolamento, non solo nell’ipotesi in cui il soggetto
responsabile venga diffidato dal Comune ai sensi dell’art. 17 cit..
Infatti, dall’accentramento del disvalore delle
norme previste dagli artt. 51 bis e 17 d. lvo cit. all’omissione
dell’obbligo di bonifica secondo le
cadenze procedimentalizzate dall’art. 17, il cui adempimento di per sé
integra la contravvenzione in parola, ne deriva che i presupposti del reato
- al contrario degli elementi essenziali – assumono rilevanza, ai fini della
colpevolezza, solo in quanto siano noti all’agente, eppertanto, ciò che
rileva è che essi devono effettivamente
sussistere, preesistere od essere concomitanti alla condotta di reato”.
Sul punto, a fronte delle censure mosse a questa
opzione per inosservanza del principio di irretroattività
della norma penale[30]
va precisato che l’inquinamento normativamente delineato dall’art. 17, comma
2, D. Lgs. n. 22/97, può configurarsi come valido presupposto della condotta
solo ed esclusivamente nel momento in cui detto <
Esemplificando, se un sito in cui è ubicato un deposito di rifiuti a seguito di processi naturali o antropici di decontaminazione non presenta violazioni ai valori limite del regolamento (ovviamente dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo), quel fatto non è produttivo di alcun obbligo giuridico afferente gli interventi di bonifica proprio perché quell’accadimento si è esaurito nel momento in cui non rivestiva alcuna valenza per l’ordinamento giuridico in ordine agli interventi de quo.
Per ipotesi anche se all’atto del deposito il suolo presentava valori superiori a quelli del D.M. n. 471/99 ma gli stessi non sono riscontrabili nella vigenza del regolamento, al responsabile non sarà imputabile alcun obbligo di bonifica proprio perché quel fatto si è esaurito prima di assumere la qualificazione giuridica di presupposto del reato e, cioè, di inquinamento normativamente definito.
Nel caso in cui, invece, il sito risulta contaminato
successivamente all’entrata in vigore
del regolamento l’inquinamento non è “pregresso” bensì attuale, in
itinere ed integrante legittimamente a tutti gli effetti il presupposto di
fatto fonte degli obblighi di bonifica e ripristino ambientale.
A tali conclusioni giunge anche la sentenza de
qua come è agevole desumere dai contenuti delle specifiche valutazioni in
fatto demandate al giudice a quo circa
la sussistenza attuale del pericolo di superamento dei valori limite di cui al
D.M. n. 471/199 in relazione al periodo intercorrente dal 16 dicembre 1999 al 14
febbraio 2000, data del sequestro.
Considerazioni conclusive.
Com’è noto, l’utilizzo delle prescritte
procedure di messa in sicurezza, bonifica e ripristino è consentito anche ad
iniziativa degli interessati[31],
che possono essere i proprietari o titolari di diritti reali di godimento sui
fondi inquinati estranei alla
genesi del fenomeno di contaminazione[32],
oppure anche i responsabili dell’inquinamento in atto[33].
In particolare, per quest’ultimi il termine per
comunicare agli enti pubblici competenti la situazione di inquinamento in atto e
gli interventi di mesa in sicurezza d’emergenza adottati è scaduto il 31
marzo 2001[34].
Tale disposizione è stata accolta con favore da più
parti in quanto volta a facilitare e promuovere la realizzazione delle
attività di recupero dei siti contaminati nell’ambito di rapporti di
cooperazione tra i soggetti interessati e la Pubblica Amministrazione
in forma non contenziosa.
Da subito, tuttavia, è
stato posto in evidenza che tale comunicazione espone i soggetti agenti al
rischio dell’autoincriminazione per i reati di cui si discute oltre che per
gli altri previsti dalla normativa a tutela dell’ecosistema in contrasto con
il principio nemo se detegere[35].
Un approccio normativo volto alla soluzione di tale problematica è stato prospettato con la legge finanziaria per il 2001[36] che introduce una causa di non punibilità per i reati “direttamente connessi all'inquinamento del sito posti in essere anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 22 del 1997 che siano accertati a seguito dell'attività svolta, su notifica dell'interessato, ai sensi dell'articolo 17 del medesimo decreto legislativo n. 22 del 1997, e successive modificazioni….”; detta scriminante non è applicabile quando i fatti di inquinamento sono stati commessi a titolo di dolo o comunque nell'ambito di attività criminali organizzate.
Tale soluzione appare inutiliter data.
Detta causa di non punibilità riguarda i reati consumati antecedentemente all’entrata in vigore del decreto “Ronchi” (cioè prima del 01.03.1997) e, quindi, per quanto riguarda la fattispecie di cui all’art. 51 bis, secondo la teoria del reato con evento di danno il problema comunque non si pone perché la fattispecie si perfeziona con il (o pericolo di) superamento dei valori-limite dopo l’entrata in vigore del regolamento (16.12.1999) e, conseguentemente, l’ipotesi è pacificamente esclusa dalla previsione-sanatoria de qua; analogamente, per quanto concerne la teoria del reato omissivo, se il presupposto di fatto, ovvero l’inquinamento nei termini normativamente definiti, non è attuale al 16.12.1999 non origina in alcun modo gli obblighi di bonifica e, quindi, tantomeno detti obblighi potevano ritenersi sussistenti o, addirittura, inosservati ancor prima di sorgere, cioè antecedentemente al 16.12.1999.
Per quanto riguarda le altre violazioni alla normativa ambientale di natura contravvenzionale le stesse sono ampiamente prescritte ancor prima dell’iscrizione al Registro notizie di reato nel caso in cui detta iscrizione sia conseguente, come pare dovrebbe accadere nel caso di specie, alla cd. autodenuncia scaduta il 31.03.2001.
Infatti, il termine prescrizionale ordinario triennale (previsto per le contravvenzioni) è scaduto ancor prima del 31.03.2001, ovvero il 01.03.2001, cioè dopo tre anni dall’entrata in vigore del decreto “Ronchi”, e, quindi, non si pone neppure per l’Autorità giudiziaria il problema di porre in essere eventuali atti interruttivi della prescrizione in quanto la fattispecie estintiva si è già perfezionata.
[1]Articolo
pubblicato in Ambiente Consulenza, 2001, n. 9, p. 843.
[2] V. S. Panagia, La tutela dell’ambiente naturale nel diritto penale d’impresa, Padova, 1993, p. 2 e segg.. L’Autore in nota (v. nota n. 3) rileva che “La dottrina (v. per tutti Patrono, Inquinamento idrico da insediamenti produttivi e tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.-dic. 1989, Padova, 1027) preferisce parlare di reati di disobbedienza che caratterizzano il cosiddetto diritto penale della volontà. Tenuto conto della specificità delle fattispecie penali ambientali, a noi sembra che rilevi non tanto la mera violazione di un dovere di obbedienza, quanto piuttosto la violazione di un obbligo che fa parte di un rapporto giuridico complesso intercorrente fra privato e pubblica amministrazione, caratterizzato anche da condotte materiali quali lo sversamento, lo scarico, le emissioni, ecc. che però non assumono autonoma rilevanza sul piano della fattispecie penale ove rileva invece la violazione dell’obbligo che tipicizza il rapporto funzionale intercorrente fra pubblica amministrazione e imprenditore. Si punisce insomma non lo scarico o l’emissione in sé, ma la violazione dell’obbligo di munirsi di una determinata autorizzazione, permesso, domanda, relativa ad una determinata condotta positiva. Contenuto essenziale del precetto è dunque l’obbligo e ciò particolarmente rileva in tema di errore. L’errore sull’obbligo di fornirsi dell’autorizzazione concretizzerà, infatti, un errore sul comando cioè un errore sul precetto penale….”.
[3]
V. M. Catenacci, <
[4] Cfr. T. Padovani, Diritto penale, op. cit., p. 170 e segg. Contra, F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1982, p. 222, per cui “Il concetto del pericolo astratto, infatti, è inammissibile,perché, se il pericolo è probabilità di un evento temuto, non si può concepire una species di pericolo in cui questa probabilità manchi. Il pericolo in conseguenza è sempre concreto. Ne deriva che nei casi in cui si ravvisa un pericolo astratto, in realtà non si ha un forma speciale di pericolo, ma una presunzione di pericolo, la quale non ammette prova in contrario. La distinzione, quindi, va sostituita con l’altra fra reati di pericolo concreto e reati di pericolo presunto”.
[5]V. A. Manna, Le tecniche penalistiche di tutela dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.-dic. 1997, Padova, p. 667.
[6]
V. G. Catenacci, La tutela penale
dell’ambiente, 1996, Padova, p. 41 e segg., ed ivi ulteriori richiami.
Secondo la concezione c.d. ecocentrica, invece, i cicli biologici di
acque, aria e suolo costituiscono beni finali di tutela e, dunque,
ogni loro alterazione configura un danno all’ambiente; “una concezione
insomma che, confondendo tutela dell’ambiente e tutela della natura,
considera la protezione degli ecosistemi come fine a sé stessa, e non
invece di volta in volta funzionale al soddisfacimento di bisogni umani”.
[7] Secondo la ricostruzione del giudice delle leggi, “l’ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità.... L’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche od estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (art. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto. Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo a coloro che lo hanno in cura, specifici obblighi di vigilanza e di interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la tutela concreta ed efficiente. L’ambiente è, quindi, un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme”,cfr. C.Cost. sent. n. 641, 30.12.1987, in Foro it. 1988, I, c. 694, con nota di F. Giampietro, Il danno all’ambiente innanzi alla Corte costituzionale. V. anche nello stesso senso, C. cost. sent. n. 210/1987 , in Riv. Giur. Amb., con nota Borgonovo Re, e infra, C. Cost. ord. n. 158, 04.05.1998.
In
dottrina è stato sottolineato che “Un significato autonomo ed unitario
della nozione di ambiente (e di quella,
relativa e conseguente, di tutela dell’ambiente) può essere
trovato solo accogliendo, con tutti i limiti che ne conseguono, la
prospettiva ecologica: <
[8] V. A. Manna, Realtà e prospettive della tutela penale dell’ambiente in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.- dic. 1998, Padova, 852 e segg.
[9] V. A Manna, op. loc. cit. p. 853. Contra,, v. P. Patrono, I reati in materia di ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., lug.- set. 2000, Padova, 670 e segg., nello specifico, p. 675 e segg. , che afferma: “La normativa in materia di inquinamento dà, quindi, la prevalenza al concetto di ambiente naturale come insieme delle componenti naturali (aria, acqua, suolo) che lo costituiscono ma non lo limita, come obiettivo di tutela, alla integrità di tali componenti. Così come, guardando agli obiettivi di tutela espressamente enunciati dal legislatore, e, di norma, all’ordine di tale enunciazione, si può sicuramente affermare che accanto all’ambiente naturale la prevalenza viene data alla salute umana, ma poi, si pongono accanto a tali interessi, altri, di sicura minore importanza, da perseguire. E, forse, nessuno dei beni cui espressamente viene finalizzata la tutela penale trova adeguata difesa attraverso l’utilizzo della sanzione penale.
La mancata scelta legislativa del bene da tutelare attraverso le singole fattispecie criminose – una sorta di formale plurioffensività disomogenea – comporta necessariamente la predisposizione di una tecnica di tutela penale anticipata che prescinde- anche a livello sanzionatorio – dall’offesa a un concreto bene giuridico: tutela di funzioni e non di beni. Si appiattisce la sanzione verso il basso e si creano fattispecie esclusivamente contravvenzionali senza predisporre fattispecie di reato che colpiscano adeguatamente l’eventuale illecito sostanziale realizzato.
Soste