L’incidenza dell’autorizzazione illegittima sulla responsabilità penale in materia di ambiente
di Valentina ARAGONA
L’incidenza dell’autorizzazione illegittima sulla responsabilità penale in materia di ambiente 1
Il conferimento in discarica autorizzata di rifiuti non indicati in autorizzazione integra l'elemento materiale dei reati contemplati nell'art. 256 commi 1 e 3 del T.U. ambientale. Tuttavia, la sussistenza di un'autorizzazione illegittima, poiché rilasciata senza una preventiva verifica d’idoneità dell'impianto asservito alla discarica, esclude l'elemento psicologico dei reati predetti.
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Il ruolo dell’autorizzazione nei reati ambientali
La sentenza in commento analizza tra l’altro la dibattuta questione relativa alla possibilità di configurare una responsabilità penale in materia di ambiente in costanza di un’autorizzazione illegittima.
Il Tribunale di Rossano, in particolare, si è pronunciato sulla configurabilità dei reati di gestione non autorizzata di rifiuti e di discarica abusiva ex art. 256 commi 1 e 3 del T.U. ambientale, nell'ipotesi in cui, l’autorizzazione sussista, ma sia illegittima.
Innanzitutto, i provvedimenti autorizzatori costituiscono in campo ambientale uno degli strumenti più utilizzati dal legislatore per la repressione delle condotte inquinanti, realizzando, com'è noto, una forte interrelazione tra diritto penale e diritto amministrativo. Tali provvedimenti consentono alle Autorità competenti di verificare il rispetto della normativa già predeterminata a livello legislativo e, non di rado, indicano ulteriori prescrizioni finalizzate al costante adeguamento delle attività inquinanti alla migliore tecnologia disponibile. Si ritiene, infatti, che la P.A. sarebbe maggiormente in grado di predeterminare la migliore gestione delle risorse ambientali in equilibrio con gli altri interessi contrapposti ed egualmente meritevoli di tutela2.
Il diritto penale dell’ambiente, quindi, è costellato di numerose norme che incriminano l’esercizio di attività prive dell’autorizzazione prescritta, sanzionando così l’elusione del controllo dell’Autorità amministrativa.
In particolare, le fattispecie di reato oggetto della sentenza in commento prevedono un obbligo di autorizzazione la cui ratio risiede nell’esigenza del legislatore di controllare preventivamente che determinate condotte siano corredate da accorgimenti tecnici, tali da evitare danni ai beni giuridici tutelati. Infatti, l’art. 256 del T.U. ambientale ai commi 1 e 3 punisce il soggetto che abbia posto in essere un’attività di gestione illecita di rifiuti o di discarica abusiva in mancanza della prescritta autorizzazione, dando luogo agli ormai ben noti dubbi circa l’effettiva ricorrenza in tali ipotesi di un concreto pericolo per l’ambiente3.
Ebbene, la dottrina si è più volte interrogata circa la natura giuridica delle fattispecie incentrate sulla mancanza di autorizzazione. Secondo alcuni in tali casi si configura una norma penale in bianco, poiché queste fattispecie rinvierebbero la determinazione del precetto interamente alle disposizioni amministrative4. Tale tesi, tuttavia, ha ricevuto forti critiche da parte di coloro che ritengono sufficientemente individuato il precetto nelle norme penali che sanzionano il compimento di un’attività non autorizzata5.
Atri hanno individuato in tali fattispecie di reato delle norme penali parzialmente in bianco, ritenendo che la legge indichi sempre i presupposti, il contenuto ed i limiti del potere affidato alla P.A., perciò il rinvio a disposizioni amministrative avrebbe ad oggetto la sola specificazione tecnica di elementi di una fattispecie, già definita dalla norma penale6. Tuttavia, anche in tal caso, è stato obiettato che «il precetto penale sembra sufficientemente compiuto a prescindere da un rinvio alle disposizioni amministrative in argomento, che servono solo a definire l’ambito dell’attività soggetta ad autorizzazione»; non potrebbe, pertanto, parlarsi di norme parzialmente in bianco7.
L’attenzione della dottrina dominante, invece, si è rivolta agli elementi tipici del fatto di reato, giungendo ad individuare nella mancanza di autorizzazione un elemento del fatto tipico di reato, inteso come elemento negativo o elemento positivo costruito negativamente8. In tal senso la mancanza di autorizzazione rappresenta una condizione di liceità di una condotta che il legislatore ha già descritto e le norme che ne regolano il rilascio entrano a far parte del precetto penale come elementi normativi9. La mancanza dell’atto amministrativo, quindi, diviene elemento costitutivo della condotta tipica e strumento di raccordo tra il sistema penale e quello amministrativo.
Ciò ha portato la dottrina maggioritaria ad interrogarsi circa la riconducibilità delle fattispecie fondate sulla mancanza di autorizzazione alla tipologia delle norme eterointegrate10.
Parte della dottrina risponde affermativamente, ritenendo che «il significato tecnico di autorizzazione, licenza ecc. possa desumersi unicamente dal complesso normativo che in sede extrapenale, disciplina, di volta in volta, le singole attività il cui esercizio è subordinato ad un preventivo consenso dell’Autorità competente»11. Pertanto, il riferimento che la fattispecie incriminatrice fa all’atto amministrativo necessariamente implicherebbe un fenomeno di eterointegrazione della norma penale con una disposizione extrapenale, la quale a sua volta specifica altri elementi volti a definire puntualmente l’obbligo autorizzativo12.
Si tratterebbe, quindi, di una forma di rinvio con efficacia tipizzante, poiché il riferimento alle norme extrapenali contribuisce all’individuazione del fatto tipico solo parzialmente descritto dalla fattispecie penale13. Tale forma di rinvio potrebbe inevitabilmente creare tensioni con il principio di riserva di legge di cui all’art. 25 Cost., poiché, rinviando a fonti amministrative, il legislatore «lascia a quest’ultime il compito di definire cosa è reato e cosa non lo è», facendo si che «gli atti della pubblica amministrazione o le norme che li disciplinano, concorrano alla stessa descrizione del reato»14.
Ebbene, in tali ipotesi la Corte costituzionale ha ravvisato una compatibilità con la riserva di legge solo laddove il legislatore predetermini il contenuto minimo dell’illecito. Pertanto, la pena prevista per l’inosservanza dei precetti amministrativi, secondo la stessa Corte, sarà applicabile solo nel caso in cui si realizzi la situazione offensiva predeterminata dal legislatore ed il rinvio ad atti amministrativi svolgerà solo una funzione integrativa degli elementi di fatto «sottratti alla possibilità di un’indicazione particolareggiata anticipata da parte della legge, quando il contenuto dell’illecito sia peraltro da essa definito»15. In ossequio al citato orientamento della giurisprudenza costituzionale, quindi, bisognerebbe valutare caso per caso se il legislatore abbia predeterminato o meno il c.d. contenuto minimo dell’illecito o abbia lasciato alle fonti amministrative il compito di creare le diverse condotte di reato, violando evidentemente il principio di riserva di legge.
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L’equiparazione tra autorizzazione illegittima e autorizzazione mancante ed il potere del giudice penale di disapplicazione dell’autorizzazione illegittima
Stante l’importanza dell’atto autorizzativo nella configurazione della fattispecie penale, la dottrina si è in più occasioni interrogata circa la possibilità di configurare l’illecito penale quando l’autorizzazione esista, ma risulti illegittima.
Parte della giurisprudenza ritiene che il soggetto agente in assenza di autorizzazione debba essere considerato responsabile sul presupposto che in tali casi l’oggetto di tutela sia la funzione amministrativa e, in particolare, il controllo preventivo della P.A.16. Inoltre, parte della dottrina ha equiparato l’illegittimità dell’autorizzazione alla sua completa assenza, ritenendo che, ad esempio, l’ipotesi di reato prevista e punita dall’art. 256 commi 1 e 3 del T.U. ambientale si configuri ugualmente laddove l’attività, anche se autorizzata, abbia leso un bene giuridico sotteso alla funzione amministrativa17. Ciò condurrebbe a ritenere tipica la condotta perpetrata in costanza di un’autorizzazione illegittima. In tali casi si configurerebbe una fattispecie imperniata sull’elemento normativo della mancanza dell’atto autorizzativo parificata ad un’autorizzazione esistente seppur viziata. Tale equiparazione è suffragata anche da un orientamento giurisprudenziale, secondo il quale nelle ipotesi di illegittimità dell’atto autorizzativo il giudice penale avrebbe il potere di disapplicarlo. Secondo tale interpretazione, che fa leva sulla L. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, la quale attribuisce all’autorità giudiziaria la facoltà di applicare gli atti amministrativi e i regolamenti generali in quanto conformi alle leggi, il giudice, nell’emanare una decisione sottoposta alla sua cognizione, potrebbe disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, cioè decidere come se il provvedimento non fosse stato mai emanato.
Tale orientamento afferma ancora che il giudice penale avrebbe il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi «non solo con riguardo a quelli che diano luogo all’estinzione o alla modifica di diritti soggettivi, ma anche a quelli, come le concessioni o le autorizzazioni, che costituiscono diritti soggettivi o rimuovono ostacoli al loro esercizio»18.
Pertanto, laddove, come nel caso affrontato dal Tribunale di Rossano, la condotta di reato sia stata perpetrata in costanza di un’autorizzazione esistente, ma illegittima, il giudice penale avrebbe il potere di disapplicarla, ritenendola, quindi, completamente mancante. Così facendo il giudice dovrebbe necessariamente considerare la condotta posta in essere come corrispondente alla fattispecie astratta di reato delineata dal legislatore e, perciò, sottoporre i soggetti agenti alla sanzione penale prevista dal T.U. ambientale.
Tale soluzione, tuttavia, non sembra condivisibile sotto diversi profili. Innanzitutto, una tale interpretazione conduce a ritenere tipiche le condotte perpetrate in costanza di un’autorizzazione, che seppur illegittima è, comunque, esistente. Inoltre, tale orientamento nell’affermare che, laddove l’autorizzazione sia illegittima, debba essere considerata completamente mancante, non prevede, poi, un successivo accertamento della concreta offensività delle condotte poste in essere, risultando in tal modo incentrata non tanto sulla tutela del bene giuridico ambiente, quanto sull’esigenza di preservare le funzioni di controllo della P.A.
Lo specifico disvalore della condotta, infatti, si esaurirebbe nel mero realizzarsi di attività senza l’autorizzazione prevista, o meglio in presenza di un’autorizzazione illegittima, anche in mancanza di una concreta pericolosità per il bene ambiente, poiché ad essere sanzionata non sarebbe tanto la lesione ad un bene giuridico, quanto l’aver arrecato intralcio alle funzioni di governo19.
La tecnica di tipizzazione sin ora descritta la si rinviene, purtroppo, nella maggioranza delle fattispecie di reato che secondo parte della dottrina sono rivolte non a colpire condotte dannose o pericolose per l’ambiente, ma a «rafforzare col deterrente penale una disciplina preventiva già strutturata dal diritto amministrativo»20. Ciò trova conferma nel fatto che molti degli illeciti ambientali sono strutturati come reati di pericolo astratto, i quali, prescindendo da un effettivo accertamento della pericolosità della condotta posta in essere, comportano un arretramento della tutela tale da determinare un allontanamento sempre più significativo dal bene giuridico tutelato, il quale perde la funzione selettiva che gli è propria.
Un simile modulo di criminalizzazione comporta un inevitabile contrasto rispetto al principio di offensività, il quale, riassunto nell’espressione nullum crimen sine iniuria, implica che non possa esservi reato senza lesione del bene giuridico, che la norma incriminatrice vuole tutelare21.
Con riferimento specifico all’autorizzazione alla gestione dei rifiuti e alla realizzazione e gestione di una discarica, quindi, laddove tali attività siano compiute in assenza di autorizzazione, ma nel rispetto di tutte le prescrizioni di legge senza, perciò, alcun pericolo concreto per il bene ambiente, il rispetto dei principi di offensività e ragionevolezza dovrebbe indurre ad escludere la responsabilità penale del soggetto. Ciò in considerazione del fatto che il bene oggetto di tutela delle fattispecie di reato contenute nel T.U. ambientale dovrebbe essere sempre l’ambiente e non le funzioni amministrative22.
Parte della dottrina, infatti, nelle ipotesi in cui non si rinvenga un’effettiva offesa per i beni giuridici tutelati, ritiene che si debba fare riferimento all’art. 49 comma 2 c.p., considerato come il fondamento positivo del principio di offensività23. Tale norma, infatti, impone di escludere la punibilità quando si rivela impossibile l’offesa al bene giuridico tutelato, obbligando l’interprete non solo ad appurare che la condotta sia conforme al modello legale, ma anche ad accertare se sia effettivamente lesiva di un bene giuridico.
Nel nostro ordinamento, quindi, il principio di offensività è funzionale a circoscrivere l’area del penalmente rilevante, vincolando il legislatore a costruire fattispecie criminose realmente dotate di dannosità sociale, configurandosi, quindi, come parametro di valutazione della legittimità dell’intervento penale24. Pertanto, tutti i reati ambientali dovrebbero avere un nucleo di offesa intesa come «idoneità della condotta punita ad alterare in modo significativo l’equilibrio ambientale»25.
Ciò, ovviamente, non avviene laddove si punisca una condotta realizzata in mancata di un titolo autorizzativo, ma sostanzialmente inidonea ad offendere i beni ambientali.
La moderna dottrina, perciò, anche in virtù di un’interpretazione favorevole al reo, ha ritenuto che non dovrebbe considerarsi punibile la condotta di colui che compie un’attività che, anche se non autorizzata, non arreca alcun danno all’ambiente, almeno sottoforma di pericolo concreto26.
Inoltre, trova forti dissensi anche l’equiparazione tra l’autorizzazione illegittima e l’autorizzazione completamente assente, poiché, per quanto concerne l’art. 256, commi 1 e 3 del D.Lgs. n. 152/2006, questo descrive le condotte incriminate senza operare alcun riferimento alla legittimità dell’atto amministrativo o alla sua conformità alle leggi in materia. Pertanto, «aggiungere detto elemento implicito costituirebbe una forma di vietata estensione analogica della norma incriminatrice a casi non espressamente previsti dalla stessa, nel senso di considerare equivalente l’assenza del titolo abilitativo alla sussistenza di un titolo ritenuto illegittimo. Tale equivalenza si risolverebbe, inoltre, in una forma vietata di retroattività in malam parte della norma penale, in quanto permetterebbe successivamente di considerare tipico un fatto che precedentemente non lo era alla luce del provvedimento autorizzatorio»27. Sul punto, parte della giurisprudenza ha ritenuto anche che, proprio in virtù del divieto di analogia in malam partem, il potere del giudice penale di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi deve ritenersi limitato ai soli atti incidenti negativamente sui diritti soggettivi dei privati, con esclusione, quindi, delle autorizzazioni e concessioni, che si configurano come atti c.d. ampliativi, i quali non comportano una lesione di un diritto soggettivo, ma lo costituiscono o rimuovono un ostacolo al suo libero esercizio28.
Diversamente, altro orientamento giurisprudenziale, partendo dal presupposto che gli atti amministrativi, tra cui pure l’autorizzazione, siano elementi normativi integrativi della fattispecie penale, ha affermato che «al giudice penale non è affidato, in definitiva, alcun c.d. sindacato sull'atto amministrativo, ma nell'esercizio della potestà penale è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto e fattispecie legale, in vista dell'interasse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela nella quale gli elementi di natura extrapenale suddetti convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo»29. Pertanto, secondo tale posizione giurisprudenziale, il rinvio operato dalla norma in questione non sarebbe solo al singolo atto amministrativo, ma a tutto l’insieme di prescrizioni in materia ambientale previste dalle leggi extrapenali, le quali costituiscono il parametro legale per l’accertamento della liceità dell’attività posta in essere. Tra l’altro, sul punto, la Suprema Corte ha distinto l’ipotesi in cui l’atto amministrativo sia elemento tipico della norma incriminatrice in senso normativo, dai casi in cui la norma incriminatrice è legata non agli elementi normativi, che consentono il rilascio dell’autorizzazione, ma al fatto che l’autorizzazione esiste nella sua materialità. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che il giudice penale deve conoscere dell’invalidità dei provvedimenti amministrativi autorizzativi o concessori e ritenerli tamquam non essent sotto il profilo sostanziale, nei casi in cui l’assenza di tali atti amministrativi costituisca il presupposto della condotta incriminata. Tale potere, peraltro, non è riconducibile a quello di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi ex art. 5 della legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo, ma deve trovare fondamento nella stessa disposizione incriminatrice, nel senso che deve essere questa ad esigere il controllo di legalità dell’atto per non essere la materiale esistenza del provvedimento sufficiente ad escludere la sussistenza del reato30. Secondo quest’orientamento giurisprudenziale, quindi, il giudice penale non può disapplicare gli atti amministrativi illegittimi, che non comportano una lesione dei diritti soggettivi, a meno che tale potere non trovi fondamento in un’esplicita previsione legislativa, ovvero qualora la legalità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa31.
Sulla scorta di tale orientamento giurisprudenziale, parte della dottrina ha evidenziato che «equiparare l’ipotesi in cui il titolo autorizzatorio è mancante a quella in cui tale titolo è illegittimo significa modificare la fattispecie tipizzata dal legislatore, sostituendo ad un fatto oggettivo un mero giudizio di valore con la conseguenza che non più il legislatore ma il giudice verrebbe a determinare quali fatti integrano estremi di reato»32. Pertanto, laddove la legittimità dell’atto autorizzatorio non sia prevista quale elemento costitutivo della fattispecie, il relativo reato deve ritenersi insussistente anche in presenza di una autorizzazione illegittima, per difetto di conformità al tipo legale delineato dal legislatore33.
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L’errore di diritto e l’esclusione dell’elemento soggettivo
Al di là della possibilità per il giudice penale di disapplicare o meno un’autorizzazione illegittima, la dottrina ha evidenziato come la responsabilità penale potrebbe, comunque, essere esclusa dalla c.d. buona fede e, quindi, dall’ignoranza dell’agente determinata da una condotta positiva della P.A., idonea ad ingenerare la convinzione di agire in modo lecito, profilandosi un vero e proprio errore di diritto34. Infatti, difficilmente potrebbe essere mosso un rimprovero al soggetto che agisca in virtù di un atto autorizzativo illegittimo a causa di un’erronea valutazione da parte della P.A., potendosi in tal caso applicare il principio del legittimo affidamento del cittadino nei confronti della legittimità del procedimento amministrativo. Deve, pertanto, ritenersi che il soggetto, ricevendo un’autorizzazione, ancorché illegittima, da parte della P.A., possa legittimamente confidare sull’innocuità del proprio comportamento verso l’ambiente, poiché la necessità dell’autorizzazione «trasferisce in capo alla P.A. l’onere di verificare preventivamente la sfera del rischio consentito»35. Sussisterebbero le condizioni, quindi, per la piena ricorrenza del requisito dell’inevitabilità dell’errore di diritto, che esclude la responsabilità penale36.
Alcuni Autori, tra l’altro, ritengono applicabile nell’ipotesi di errore sulla legittimità dell’autorizzazione l’art. 47 co. 3 c.p., il quale esclude la punibilità in caso di errore su una legge extrapenale, che determina pure un errore sul fatto di reato37. Va ricordato, inoltre, che la giurisprudenza ha posto precisi limiti all’inevitabilità dell’errore laddove il soggetto agente abbia particolari competenze in un determinato settore collegato a quello disciplinato dalla norma incriminatrice che si assume violata. In tali casi il dovere d’informazione risulta essere molto più rigoroso rispetto a quello pretendibile dagli altri consociati, tanto che secondo la giurisprudenza potrà ricorrere l’inevitabilità dell’errore sulla legge penale solo laddove questo particolare soggetto agente dimostri di essersi informato diligentemente sulla normativa esistente ritenuta facilmente conoscibile dallo stesso38. Infine, proprio in virtù di questa presunta conoscenza della normativa esistente, la stessa giurisprudenza ha ritenuto che tali soggetti particolarmente qualificati possano rispondere dell’illecito commesso anche in virtù della semplice culpa levis39.
Alla luce di quanto sin ora affermato e fermi restando i limiti alla scusabilità dell'errore di diritto sin ora delineati, può ritenersi che nei casi in cui la condotta di reato sia autorizzata, ma l’autorizzazione risulti illegittima, dovrebbe concludersi per la non punibilità del soggetto agente innanzitutto perché il fatto risulta atipico rispetto alla fattispecie astratta delineata dalla norma incriminatrice senza alcun riferimento alla legittimità dell’atto amministrativo, in quanto l’autorizzazione, seppur illegittima, comunque sussiste; in secondo luogo, in tali casi in genere manca l’elemento soggettivo del reato, non sussistendo alcun dolo o colpa a carico del soggetto agente in buona fede.
Ebbene, il Tribunale di Rossano nella sentenza in questione ha accolto parzialmente tale impostazione, affermando che l’autorizzazione alla gestione della discarica era stata concessa in modo sostanzialmente illegittimo dalla P.A. e, pertanto, la condotta ascritta agli imputati non poteva ritenersi supportata dal dolo o dalla colpa, non essendovi la volontà di commettere alcun tipo di reato. Infatti, dall’istruttoria dibattimentale era emerso che i soggetti imputati avevano realizzato una discarica abusiva, conferendovi rifiuti diversi da quelli autorizzati, poiché derivanti da un processo di lavorazione che non li rendeva idonei ad essere inquadrati come scarti di lavorazione, secondo il codice europeo dei rifiuti. Tuttavia, il Tribunale ha rilevato come il conferimento di rifiuti diversi fosse dovuto ad un’inadeguatezza dell’impianto, privo dei macchinari necessari per la lavorazione dei rifiuti. L’autorizzazione concessa dalla P.A., quindi, risultava frettolosa e superficiale, poiché non preceduta da un’effettiva verifica circa l’adeguatezza dell’impianto a raggiungere le finalità per le quali era stato concepito. Ciò ha condotto il giudicante ad una sentenza di assoluzione per mancanza dell’elemento soggettivo, affermando che «l’impossibilità di trattare i rifiuti in modo da stoccare in discarica soltanto i resti della lavorazione esclude l’elemento psicologico del reato predetto»40.
Il Tribunale, tuttavia, ha ritenuto configurato il fatto tipico descritto dall’art. 256 commi 1 e 3 del T.U. ambientale, sostenendo che la condotta posta in essere dai soggetti agenti integrasse in pieno la fattispecie descritta dalla norma incriminatrice. L’organo giudicante, infatti, ha affermato che il conferimento in discarica di rifiuti diversi da quelli autorizzati, fosse sufficiente nel caso di specie ad integrare «l’elemento materiale del reato contemplato nell'art. 51 d.lg. n. 22 del 1997 (gestione di discarica abusiva)»41. Il Giudice, quindi, non ha aderito al sopra richiamato orientamento secondo il quale l’esistenza dell’atto autorizzativo esclude a monte la tipicità della condotta di reato, per difetto di conformità alla fattispecie astratta delineata dal legislatore, la quale non prevede la legittimità dell'autorizzazione tra i suoi elementi costitutivi, senza necessità, perciò, di ulteriori indagini circa la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato.
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Osservazioni conclusive
In virtù dell'analisi sin ora condotta, si può affermare che la pronuncia in questione non ha ancora raggiunto le conclusioni auspicate da quella parte della dottrina secondo la quale dovrebbe farsi ricorso ad un c.d. doppio parametro di tipicità all'interno delle fattispecie ambientali, caratterizzato, da un lato, dalla violazione di un precetto amministrativo e, dall'altro, da una concreta offesa verso il bene giuridico tutelato42. Ciò condurrebbe a stabilire che in costanza di un'autorizzazione esistente, sia pur illegittima, la punibilità andrebbe esclusa per la mancanza di tipicità di una condotta, la quale non potrebbe dirsi perpetrata in assenza di autorizzazione, stante il divieto di analogia per come sopra evidenziato.
Nel caso di specie, quindi, sia con riferimento al principio di legalità sia in un’ottica volta a privilegiare il principio del favor rei, non solo dovrebbe ritenersi non configurato l’elemento soggettivo del reato, ma, ‘a monte’, si dovrebbe escludere la tipicità della condotta materiale di reato rispetto alla fattispecie astratta delineata dal legislatore, che non opera alcun riferimento all’illegittimità dell’autorizzazione.
Contrariamente, nelle ipotesi in cui l’autorizzazione manchi completamente, al giudice dovrebbe riconoscersi il potere di accertare in concreto l’effettiva offensività della condotta verso il bene giuridico ambiente.
Relativamente all'offensività, infatti, va evidenziato che i reati oggetto della sentenza in commento, come già osservato, sono costruiti secondo lo schema del pericolo astratto e sono finalizzati a tutelare delle mere funzioni amministrative e, in particolare, il potere di controllo della P.A. sulla gestione dei rifiuti, distanti dall’idea di effettiva lesione ad un bene giuridico, «potendo la condotta incriminata non svelare alcuna idoneità offensiva del bene giuridico ambiente»43.
Al contrario, in ossequio al principio di offensività ed extrema ratio del diritto penale, occorrerebbe operare una valutazione caso per caso volta a verificare se la condotta di reato sia effettivamente pericolosa per l’ambiente oppure se si tratti di un fatto di per sé innocuo, nel quale la punibilità è volta solo a sanzionare la mancanza di autorizzazione e, quindi, a tutelare delle mere funzioni amministrative. Se all'esito di una tale valutazione risulti che la fattispecie di reato sia costruita senza offesa per il bene giuridico tutelato, il giudice penale potrebbe integrare tale carenza, ricorrendo ad un’opera di interpretazione senza che in ciò possa ravvisarsi un contrasto con il principio di legalità44. Infatti, l'organo giudicante certamente potrebbe interpretare la norma penale, seguendo parametri garantisti quali sono il principio di legalità, ma anche i principi di offensività, extrema ratio e del favor rei inteso come «una norma di chiusura, tipica del modello tendente verso il diritto penale “minimo”, informata alla razionalità e alla certezza del diritto, con le conseguenti implicazioni sul contenuto del principio di legalità»45.
Tale orientamento, sostenuto in dottrina, trova conferma anche nella giurisprudenza costituzionale, la quale, in più pronunce, ha individuato nell’offensività un elemento essenziale anche implicito, che deve ricorrere in tutte le fattispecie di reato e che deve essere suscettibile di accertamento in concreto anche in quelle tipologie di reati di pericolo astratto o presunto, nelle quali l’offesa non può evincersi dalla norma incriminatrice46. Pertanto, non tutti i casi di omessa sottoposizione al controllo della P.A. dovrebbero essere considerati penalmente rilevanti, perché ad essere punita non dovrebbe essere la sola disobbedienza, ma «l’idoneità offensiva delle condotte che a tale disobbedienza si accompagnano»47, cioè il prodursi, tramite la disobbedienza, di condotte ritenute offensive verso beni giuridici preesistenti e meritevoli di tutela.
Proprio sulla scia di tali considerazioni parte della dottrina ha elaborato un modello di incriminazione definito “parzialmente sanzionatorio”, nel quale la condotta tipica di reato consiste in una violazione delle disposizioni extrapenali, ma contemporaneamente si caratterizza per la presenza di un offesa al bene giuridico tutelato almeno sotto forma di pericolo concreto. In tali casi la norma incriminatrice è autonoma e non persegue scopi di governo, ma tutela beni giuridici, poiché la condotta è già offensiva in sé e l'inosservanza di precetti amministrativi ne aumenta solo il potenziale lesivo48.
Nel modello auspicato, quindi, «permane il legame tra la sanzione penale e le norme amministrative, ma non in quella maniera assorbente del modello 'meramente' sanzionatorio, bensì in riferimento ad una 'antigiuridicità' amministrativa di base, che però da sola non perfeziona l'illecito penale, dovendo nel contempo sussistere l'offesa al bene giuridico, che non può essere rappresentato dalla mera funzione amministrativa»49. In tal modo si raggiungerebbe il fondamentale obiettivo di lasciare alla P.A. le valutazioni relative al bilanciamento degli interessi in gioco nella tutela ambientale e, contestualmente, si eviterebbe un’applicazione dell’illecito penale svincolata dall’offesa ad un bene giuridico protetto e finalizzata a tutelare mere funzioni amministrative.
Inoltre, ferma restando la difficoltà nella materia ambientale di rinunciare totalmente a fattispecie di reato incentrate sulla mancanza dell’autorizzazione, parte della dottrina ha teorizzato, per una loro maggiore conformità al principio di offensività, una distinzione tra provvedimenti abilitativi per lo svolgimento di attività di rilevante impatto ambientale, e provvedimenti richiesti per lo svolgimento di attività di modesto impatto ambientale50. Nella prima ipotesi si potrebbe ricorrere a sanzioni penali, perché si tratta di condotte che incidono in modo significativo sul bene ambiente, mentre i casi rientranti nella seconda ipotesi andrebbero depenalizzati, sulla base del fatto che ad essere leso è solo l’interesse dell’amministrazione all’instaurazione di un rapporto di collaborazione con i privati.
Per quanto riguarda, invece, gli illeciti che sanzionano il mancato rispetto di una prescrizione amministrativa, il loro assoggettamento a sanzione penale sarebbe giustificato solo in funzione preventiva di alterazioni all’ambiente51. Infatti, la natura cautelare delle prescrizioni amministrative consentirebbe d’individuare meglio i limiti dei poteri assegnati all’Amministrazione e renderebbe tali fattispecie conformi al principio di offensività, mettendo in evidenza la funzione strumentale delle stesse alla tutela di un bene giuridico.
Tutte le ricostruzioni dottrinali sin ora prospettate mettono in evidenza l'esigenza di recuperare in materia ambientale una maggiore conformità al principio di offensività, di extrema ratio e, soprattutto, al principio di favor rei in materia penale.
Per raggiungere un tale obiettivo appare di fondamentale importanza la costruzione di fattispecie incriminatrici, che da un lato possiedano un c.d. doppio parametro di tipicità, consistente nella violazione di un precetto amministrativo accompagnata sempre dall'offesa ad un bene giuridico tutelato, e, dall'altro, siano strutturate su una soglia minima di punibilità rappresentata dal pericolo concreto, in modo che la concreta attitudine lesiva della condotta possa essere valutata caso per caso, prescindendo da mere presunzioni astratte, le quali in concreto potrebbero rivelarsi errate52.
Dott.ssa Valentina Aragona
1 Lo scritto trae spunto dalla sentenza del Tribunale di Rossano, 5 gennaio 2009, in Le Corti Calabresi, 2009, 1-3, 729 ss.
2 F. Giunta, Il diritto penale dell’ambiente in Italia, Tutela di beni o tutela di funzioni?, in Riv. it. dr. e proc. pen., 4/1997, 1100 ss.
3 Per l'analisi di tali fattispecie di reato M. Caterini, Responsabilità penali in tema di rifiuti, in AA. VV., Il diritto dei rifiuti solidi, Rende - Roma, 2011, 335 ss.; P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente dopo il D.Lgs. n. 4/2008, Milano, 2008, 307 ss.; V. Paone, Osservazioni in tema di realizzazione di discarica abusiva, in Foro it., 1988, 370 ss.; ID., Il reato di discarica abusiva: un importante punto fermo della Corte di Cassazione, in Foro it., 6/1995, 345 ss.; L. Ramacci, Diritto penale dell’ambiente, 2009, 323 ss.; L. Siracusa, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2007, 186 ss.
4 Per una ricostruzione delle varie posizioni dottrinarie A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, nella fattispecie penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2/1990, 370 ss.
5 In tal senso sempre A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, cit., 370 ss.; P. Patrono, Inquinamento industriale e tutela penale dell’ambiente, Padova, 1980, 80 ss.
6 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2007, 57 ss.; M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura «sanzionatoria», Padova, 1996, 177 ss.
7 Cfr. A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, cit., 370
8 A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, cit., 371 ss.; P. Patrono, Inquinamento industriale, cit., 88 ss.; C. Bernasconi, Il reato ambientale, Pisa, 2008, 78 ss.
9 A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, cit., 373 ss. I reati costruiti sulla mancanza di autorizzazione, secondo quest’Autore, sono reati misti di azione ed omissione, nei quali la frazione omissiva della condotta è rappresentata proprio dall’assenza dell’autorizzazione. Contrariamente, altra parte della dottrina ritiene che, poiché l’esistenza dell’autorizzazione è una condizione di liceità della condotta, l’oggetto del divieto è costituito dalla condotta in sé considerata, con la conseguenza che il reato presenta una natura commissiva. In tal senso F. Giunta, Il diritto penale dell'ambiente, cit., 1100 ss.; P. Patrono, Inquinamento industriale, cit., 88 ss.
10 C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 78 ss.
11 Cfr. C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 81 ss.
12 C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 80 ss.
13 M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, cit., 54 ss.
14 Cfr. M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, cit., 174 ss.; Nello stesso senso F. Giunta, Ideologie punitive e tecniche di normazione nel diritto penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. ec., 3/2002, 852 ss. Quest'ultimo Autore ritiene incostituzionali le norme penali eterointegrate nei reati ambientali, perché «l’intero disvalore del fatto dipende dall’elemento oggetto di eterointegrazione, ossia dalla natura ed entità dell’immissione inquinante».
15 Cfr. Corte cost., 11 giugno 1990, n. 282, in Giur. cost., 1990, 1755 ss.; nello stesso senso Corte cost., 19 maggio 1964, n. 36, in De jure, 2010. In quest'ultima sentenza la Corte affermava che in materia di stupefacenti il rinvio a tabelle ed elenchi rappresenta solo un ulteriore elemento di certezza, che non priva il precetto penale di chiarezza, poiché esso è già definito dal Codice penale.
16 Cass. pen., 23 ottobre 2001, n. 44161, in Cass. pen. 2003, 971 ss. In questa pronuncia la Suprema Corte ha affermato che in materia ambientale si ha una sorta di formale plurioffensività disomogenea, la quale comporta necessariamente la predisposizione di una tecnica di tutela anticipata, che prescinde dall’offesa ad un concreto bene giuridico: di una tutela, cioè, di funzioni e non solo di beni finali. Sul punto in dottrina M. Macrì, Formale plurioffensività disomogenea in materia di reati ambientali, in Resp. civ. e prev., 2002, 393 ss.; M. Condemi, Brevi considerazioni intorno ai reati scopo e al principio di offensività, in Cass. pen., 2003, 977 ss. Quest’ultimo Autore afferma che molti reati a tutela dell’ambiente configurano dei veri e propri reati di scopo, i quali non incriminano l’offesa ad un bene giuridico, ma la realizzazione di certe situazioni che lo Stato ha interesse a che non si realizzino.
17 Per una ricostruzione dei diversi orientamenti dottrinari si veda M. Caterini, L’interpretazione favorevole come limite all’arbitrio giudiziale. Crisi della legalità e interpretazione creativa nel sistema postdemocratico dell’oligarchia giudiziaria, in Autorità e crisi dei poteri, a cura di P. B. Helzel e A. J. Katolo, Cedam, 2012, 147 ss; Id., Le responsabilità penali, cit., 301 ss.; L. Siracusa, La tutela penale dell'ambiente, cit., 272 ss. Sul punto in giurisprudenza e relativamente ai reati edilizi Cass. pen., sez. un., 12 novembre 1993, n. 11635, in Cass. pen., 1994, 902 ss.
18 Cfr. Cass. pen., sez. III, 18 giugno 1999, n. 2304, in Cass. pen., 2000, 3411 ss.; tuttavia parte della dottrina ricorda come l’indirizzo dominante escluda l’applicabilità della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E al giudizio penale, ritenendo che sarebbe riferibile al solo processo civile. In tal senso G. Cocco, L’atto amministrativo invalido elemento delle fattispecie penali, Cagliari, 1996, 6 ss.; M. Gambardella, Brevi note sul rapporto tra gli artt. 4 e 5 della l. n. 2248, all. E del 1865 e il giudizio penale, in Cass. pen., 2/1995, 377 ss.; Id., Precisazioni dogmatiche sul potere-dovere del giudice penale di disapplicare le ordinanze contingibili e urgenti illegittime in materia di rifiuti (art. 13 d.lg. 5 febbraio 1997, n. 22), in Cass. pen., 12/2000, 3411 ss.
19 M. Laganà, Tutela dell’ambiente e principio di offensività, in Giust. pen., 1/1999, 223 ss. L’Autore afferma che in tali casi l’intervento penale assumerebbe un ruolo meramente accessorio e subalterno rispetto alla regolamentazione amministrativa, divenendo solo «una protezione collaterale del diritto amministrativo». Nello stesso senso M. Condemi, Brevi considerazioni, cit., 977 ss.
20 Cfr. S. Moccia, Dalla tutela dei beni, alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/1995 , 354. L’Autore afferma che in tali casi il diritto penale dell’ambiente finisce con l’assumere un carattere “meramente sanzionatorio”, in quanto le norme incriminatrici sono aggregate a complessi amministrativi di disciplina, e gli illeciti da esse previsti s’incentrano su inosservanza di fonte o natura amministrativa.
21 Larga parte della dottrina ha sostenuto l’implicita costituzionalizzazione di tale principio, ricavandola dall’art. 25 co. 2 Cost., che crea una nozione di fatto offensivo tipico, nel quale l’offensività è tra i requisiti strutturali ed essenziali del reato, comportando che, se manca l’offesa ad un bene protetto, il reato è inesistente e dall’art. 27 co. 3, il quale nell’individuare la duplice funzione rieducativa e retributiva della pena implica che al fine di equilibrare le due funzioni, debbano essere incriminati fatti realmente offensivi di beni giuridici e dall’art. 13 Cost. sull’inviolabilità della libertà personale, la quale può subire limitazioni solo per l’esigenza di tutelare beni giuridici di uguale rilevanza costituzionale. In tal senso F. Bricola Teoria generale del reato, in Nov. Dig. it., XIX (1973), 81ss.; M. Caterini, Reato impossibile e offensività, Napoli, 2004, 183 ss.; L. Ramacci, I reati ambientali ed il principio di offensività, in <www.lexambiente.it>, 3 ss.; P. Patrono, Inquinamento, cit., 71 ss.; S. Rossetti, Reati di pericolo astratto e principio di offensività: brevi note introduttive ad un tema classico del diritto penale dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 2/2009, 353 ss.
22 Sul punto parte della dottrina ritiene che uno degli inconvenienti della tutela penale dell’ambiente, così come risulta strutturata nel T.U. ambientale, starebbe proprio nella mancanza di autonomia funzionale, in quanto l’intervento penale in subiecta materia non è finalizzato alla tutela di beni giuridici tout court, bensì si limiterebbe a reprimere la sola lesione di interessi amministrativi di governo, così da tutelare non beni, cioè entità concrete ed afferrabili, ma funzioni amministrative, cioè entità sfumate e puramente strumentali. In tal senso M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, cit., 64; F. Giunta, Il diritto penale dell’ambiente, cit., 1100 ss.; A. Manna, Struttura e funzione dell’illecito penale ambientale, le caratteristiche della normativa sovranazionale, in Giur. merito, 10/2004, 2164; S. Moccia, Dalla tutela di beni, cit., 343 ss.; P. Patrono, I reati in materia di ambiente, in Riv. trim. dir. pen. ec.., 2/2000, 673 ss.
23 Tale norma è stata posta a fondamento della c.d. concezione realistica del reato, o della necessaria offensività del reato, che considera reato solo la concreta ed effettiva lesione ad un bene tutelato dalla norma penale. Quest’ultima concezione ritiene che l’offesa sia un requisito strutturale ed essenziale del reato. Contrariamente la concezione sostanzialistica individua nel reato un fatto pericoloso, la cui punibilità è subordinata alla corrispondenza ad un tipo legale ed a circostanze anche esterne al reato, dalle quali potrebbe, però, derivare una scarsa o inesistente antisocialità del fatto stesso. Per la ricostruzione delle due posizioni M. Caterini, Reato impossibile, cit., 166 ss.; F. Bricola Teoria generale, cit., 72 ss.; M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, cit., 153 ss. G. Vassalli, Principio di offensività, in Aa.Vv., Scritti in memoria di Ugo Pioletti, Milano, 1982, 523 ss.; P. Patrono, Inquinamento, cit., 61 ss.
24 F. Palazzo, Corso di diritto penale, parte generale, Torino, 2005, 74 ss.
25 Cfr. L. Siracusa, La tutela penale, cit., 37
26 M. Caterini, L’interpretazione, cit., 147 ss.; Id., L’ambiente ‘penalizzato’. Evoluzione e prospettive dell’antagonismo tra esigenze preventive e principio di offensività, in Aa.Vv. Il sistema ambiente, tra etica, diritto ed economia, a cura di K. Aquilina, P. Iaquinta, Cedam, 2013, 120 ss.
27 Cfr. M. Caterini, Le responsabilità penali, cit., 69 ss.
28 Cass. pen., sez. un., 31 gennaio 1987, in Cass. pen., 1987, 878 ss. In presenza di un atto autorizzativo, quindi, il potere di disapplicazione del giudice penale sussiste solo laddove l’atto sia stato emesso in carenza di potere o sia frutto di un’attività illecita.
29 Cfr. Cass. pen., sez. un., 12 novembre 1993, n. 11635, in Cass. pen., 1994, 902 ss. In questa pronuncia, relativa ai reati edilizi, la Suprema Corte ha ritenuto che «non può ritenersi che, sussistendo l'accertata aporia dell'opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale debba ugualmente concludere per la mancanza di illiceità penale solo perché sia stata rilasciata la concessione edilizia, la quale nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell'atto, non è idonea a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle stesse rappresentazioni grafiche del progetto, a seguito della cui approvazione, tale atto amministrativo viene emesso. Né il limite anzidetto al potere di accertamento penale del giudice può essere posto evocando l'enunciato dell'art.5 1.20 marzo 1865 n.2248 all. E, in quanto tale potere non è volto ad incidere sulla sfera dei poteri riservati alla pubblica amministrazione, e quindi ad esercitare un'indebita ingerenza, ma trova fondamento e giustificazione in una esplicita previsione normativa, la quale postula la potestà del giudice di procedere ad un'identificazione in concreto della fattispecie sanzionata».
30 In tal senso Cass. pen., sez. III, 13 marzo 1985, Meraviglia, in Riv. giur. ed., 1986, I, 273 ss.
31 Cass. pen., sez. IV, 17 settembre 2008, n. 38824, in CED Cass. pen., 2008, 241064. In questa pronuncia la Suprema Corte ha anche affermato che il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo è ammesso solo laddove lo stesso sia inesistente, sia privo dei requisiti di forma e sostanza o sia frutto di un’attività criminosa da parte del soggetto pubblico che l’ha adottato, o del privato che l’ha ricevuto. Il giudice penale non potrà disapplicare l’atto amministrativo laddove questo non rispetti le norme che regolano l’esercizio del potere.
32 Cfr. P. Tanda, Giudice penale e disapplicazione, in Cass. pen., 11/1998, 2955. Nello stesso senso anche G. Cocco, La disapplicazione dell'atto amministrativo: l'ipotesi della concessione edilizia illegittima. Relazione tenuta all'incontro di studio organizzato dal CSM sul tema Sindacato del giudice penale e attività della pubblica amministrazione, Frascati, 1-3 luglio 1996, 12 ss.
33 A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, cit., 377 ss.
34 R. Bajno, La tutela penale del governo del territorio, Milano, 1980, 103 ss.; M. Caterini, Le responsabilità penali, cit., 350 ss.; A. De Paola, Discarica comunale e responsabilità del sindaco, in Ambiente & Sviluppo, 11/2005, 967 ss.; P. Tanda, Giudice penale, cit., 2950 ss. In giurisprudenza in tal senso Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2008, n. 172, in Cass. pen., 2008, 4673 ss.; Id., sez. III, 24 giugno 2005, n. 37405, in Riv. giur. amb., 2006, 462 ss.
35 Cfr. L. Siracusa, La tutela penale, cit., 272
36 Corte costituzionale, 24 marzo 1988, n. 364, in Foro Amm., 1989, 3. In particolare, secondo la Corte costituzionale, l’ignoranza è scusabile, quando il soggetto abbia adempiuto a tutti i suoi doveri di informazione, al fine di conseguire la conoscenza della legislazione in materia.
37 A. Cadoppi, La natura giuridica della “mancanza di autorizzazione”, cit., 379. L’Autore evidenzia come in tali casi non si possa ravvisare un errore colposo, essendo la P.A. che induce in errore il soggetto con il rilascio dell’autorizzazione anche se illegittima.
38 Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 1996, n. 1797, in Cass. pen. 1997, 1724 ss.; Id, sez. V, 26 febbraio 2008, n. 22205, in CED 240440; Id., sez. III, 5 aprile 2011, n. 35694, in CED 251225. In quest'ultima recente pronuncia, la Suprema Corte ha ritenuto che la scusabilità dell'ignoranza penale può essere invocata dall'operatore professionale di un determinato settore solo laddove dimostri di aver adempiuto al proprio dovere di informazione sia presso le Autorità competenti sia in proprio tramite la propria esperienza ed anche il ricorso ad esperti.
39 Cfr. Cass. Su, 10 giugno 1994, n. 8154 in Cass. pen., 1994, 2925 ss.; Id., sez. VI, 06 dicembre 1996, n. 1632, in Cass. pen., 1998, 2355 ss.
40 Cfr. Tribunale di Rossano, 5 gennaio 2009, in Le Corti Calabresi, 2009, 1-3, 729 ss.
41 Cfr. Tribunale di Rossano, Ibidem
42 M. Caterini, L’ambiente “penalizzato”, cit., 140 ss.
43 Cfr. M. Caterini, Le responsabilità penali, cit., 345
44 Per un’approfondita analisi sul punto M. Caterini, L’ambiente “penalizzato”, cit., 128 ss.
45 Cfr. M. Caterini, L’ambiente “penalizzato”, cit., 130
46 In tal senso Corte cost., 11 luglio 1991, n. 333, in Giur. cost., 1991, p. 2660 ss.; Id. Corte cost., 18 luglio 1997, n. 247, in Giust. pen., 1998, I, 65 ss.
47 Cfr. M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, cit., 141; In questo senso anche C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 134 ss.
48 Sul modello parzialmente sanzionatorio si vedano C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 29 ss.; L. Siracusa, La tutela penale, cit., 85 ss.; M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, cit., 259 ss. F. Giunta, Ideologie punitive, cit., 858 ss.
49 Cfr. M. Caterini, L’ambiente “penalizzato”, cit., 140
50 C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 248 ss.
51 C. Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 249 ss.
52 Sul punto approfonditamente M. Caterini, L’ambiente “penalizzato”, cit., 140