A chi compete il rilascio dell'autorizzazione simica?
di MASSIMO GRISANTI
Sottotitolo
LA CONCESSIONE EDILIZIA E’ UN’ABILITAZIONE DI COMPETENZA SINDACALE
(la crisi incide anche sul “compromesso storico” ?)
Prosegue l’analisi delle norme in tema della speciale autorizzazione sismica, dal momento che – fatta eccezione dei casi in cui le leggi regionali ne anticipano l’acquisizione per il rilascio del titolo abilitativo edilizio generale – a partire dall’O.P.C.M. n. 3274/2003 l’Italia è stata interamente classificata sismica e per effetto delle disposizioni sostitutive dell’art. 19 della legge n. 241/1990, introdotte dal D.L. 14/3/2005, n. 35, non è più possibile iniziare i lavori in difetto di essa.
Diversamente, le opere sono radicalmente abusive in quanto poste in essere in base ad un titolo abilitativo (permesso di costruire ecc.) inefficace.
Innanzi tutto E’ FONDAMENTALE far rilevare che il Testo Unico dell’Edilizia approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 non è un Codice ovverosia una fonte del diritto che incide sulla norma, abrogando quelle antecedenti.
Il Testo Unico dell’Edilizia incide solamente sulle disposizioni normative, innovandole, ma non abrogando la norma che le contiene (cfr. M. LUCIANI, Il testo unico sull’Edilizia, RG ED, 2002, II, 3 ss.).
L’Autore si sofferma specificamente sulla <sorte delle norme rifuse nel testo unico>, sostenendo che <tali norme non sono state abrogate. L’abrogazione, infatti, incide sulle norme e non sulle disposizioni, sicché qui si è verificata una mera novazione della fonte, un po’ come accade nel caso della successione della legge di conversione al decreto-legge>.
Non a caso, l’art. 136 T.U.E. dispone l’espressa abrogazione delle sole disposizioni (contenute nelle norme citate) ed è stata questa tecnica legislativa che ha consentito il differimento dell’entrata in vigore delle disposizioni del T.U.E. con la consequenziale riviviscenza delle disposizioni penali della legge n. 47/1985. Se, diversamente, fosse stata abrogata la norma non avremmo potuto avere alcuna reviviscenza, se non attraverso una previsione espressa del legislatore.
La scelta del modello del Testo Unico è stata operata dal legislatore al fine di sostituire alla risalente e frastagliata normativa una nuova e più ordinata, coordinando e armonizzando le disposizioni e, quindi, operando con la doverosa manipolazione.
Ne è prova il confronto tra le disposizioni contenute:
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nell’art. 18 della legge n. 64/1974:
“Fermo restando l'obbligo della licenza di costruzione prevista dalla vigente legge urbanistica, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui al secondo comma del precedente art. 3, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio tecnico della regione o dell'ufficio del genio civile secondo le competenze vigenti.
Per i manufatti da realizzarsi da parte dell'azienda autonoma delle ferrovie dello Stato non è richiesta l'autorizzazione di cui al precedente comma.
L'autorizzazione viene comunicata, subito dopo il rilascio, al comune per i provvedimenti di sua competenza.
Avverso il provvedimento relativo alla domanda di autorizzazione è ammesso ricorso al presidente della giunta regionale o al provveditore regionale alle opere pubbliche, che decidono con provvedimento definitivo.”;
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nell’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001:
“Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
L'autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il rilascio, per i provvedimenti di sua competenza.
Avverso il provvedimento relativo alla domanda di autorizzazione, o nei confronti del mancato rilascio entro il termine di cui al comma 2, è ammesso ricorso al presidente della giunta regionale che decide con provvedimento definitivo.
I lavori devono essere diretti da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze.”.
Come è evidente, attraverso la novazione delle disposizioni lo Stato avrebbe (il condizionale è d’obbligo) confermato o attribuito ex novo alle Regioni la competenza (poteri e funzioni) in ordine all’autorizzazione sismica.
Se teniamo conto che la legge n. 64/1974 non incideva su talune norme della legge 25 novembre 1962, n. 1684 tutt’oggi vigente (in particolare sulla competenza al rilascio dell’autorizzazione sismica ex art. 26), ecco che le disposizioni contenute nell’art. 18 della legge n. 64/1974 erano volte a regolare ex ante il futuro trapasso, in capo alle Regioni, non solo delle funzioni amministrative (già trasferite con l’art. 1 del D.P.R. n. 8/1972), ma anche dei successivi poteri (realizzando così la competenza regionale, anche per quanto concerne il potere di decretare l’approvazione degli strumenti urbanistici). E ciò quando quest’ultime, all’indomani della loro costituzione, avrebbero avuto una sufficiente e qualificata dotazione organica di mezzi e personale.
Sennonché – come dimostrano documenti a firma di organi della Regione Umbria, e finanche di Vasco Errani quale presidente della Conferenza delle Regioni, recanti date posteriori al terremoto che colpì la scuola di S. Giuliano di Puglia nel Molise (anno 2002, perirono ventisette bambini e un’insegnante) – le regioni non sempre bandirono ed assunsero personale qualificato per ricoprire le funzioni attribuite (ovvero assumendo geometri o periti edili anziché ingegneri), finendo per trovarsi nelle condizioni di non poter assicurare l’adeguata valutazione dei progetti edili.
Ora, però, soffermiamoci sull’apparente conferimento di poteri alle regioni attraverso la novazione della disposizione ex art. 94 del T.U.E.
La legge 15 marzo 1997, n. 59, all’articolo 20, comma 4, detta le regole al Governo per l’esercizio della potestà legislativa. In particolare, il potere conferito era limitato al mero riordino.
Ne consegue che nel caso di specie il Governo potrebbe aver agito in eccesso di potere attribuendo competenze alla regione mai avute prima. In tal caso sussisterebbe la violazione dell’art. 76 Cost.
Con la sentenza n. 162/2012, la Corte Costituzionale ribadisce che, in riferimento alle deleghe per il riordino o il riassetto di settori normativi è necessario inquadrare in limiti rigorosi l'esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita con l'operazione di riordino o riassetto:
“In riferimento alle deleghe per il riordino o il riassetto di settori normativi – tra le quali, come si è detto poco sopra, deve essere annoverata la delega contenuta nell’art. 44 della legge n. 69 del 2009 – questa Corte ha sempre inquadrato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita con l’operazione di riordino o riassetto. La Corte ha sempre rimarcato che, a proposito di deleghe che abbiano ad oggetto la revisione, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, «l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è (…) ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato», giacché quest’ultimo non può innovare «al di fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega» (sentenza n. 293 del 2010), specificando che «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega» (sentenza n. 230 del 2010).
Questi principi, costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e ribaditi da ultimo nella sentenza n. 80 del 2012, impongono, nel caso di deleghe per il riordino o il riassetto normativo, un’interpretazione restrittiva dei poteri innovativi del legislatore delegato, da intendersi in ogni caso strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega.
Alla luce di tali principi, in merito alla questione oggi all’esame della Corte, occorre ricordare che la delega – che deve essere qualificata come una delega per il riordino e il riassetto normativo – abilitava il legislatore delegato a intervenire, oltre che sul processo amministrativo, sulle azioni e le funzioni del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni e in riferimento alla giurisdizione estesa al merito, ma sempre entro i limiti del riordino della normativa vigente; il che comporta di certo una capacità innovativa dell’ordinamento da parte del Governo delegato all’esercizio della funzione legislativa, da interpretarsi però in senso restrittivo e comunque rigorosamente funzionale al perseguimento delle finalità espresse dal legislatore delegante.”.
E’ evidente che lo spostamento della competenza all’adozione dell’autorizzazione sismica (dal Genio Civile alla Regione) non è funzionale alla necessità di ricomposizione, ma sembrerebbe teso ad uno scarico di responsabilità all’indomani della frana di Agrigento (1966) e della presa di coscienza collettiva (negli organi tecnici del ministero ll. pp.) della devastante pericolosità del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
Si segnala che l’ultimo P.R.G. approvato dal Ministro ll. pp. è quello di Napoli (31 marzo 1972), nonostante che solamente con l’art. 25 della legge n. 47/1985 si è avuto – con tecnica legislativa sopraffina – lo spostamento della competenza in capo alle Regioni.
Nel contempo, l’art. 13 della legge n. 64/1974 prescrive il parere preventivo del Genio Civile sulle previsioni contenute negli strumenti urbanistici.
In sostanza, si assiste ad uno scaricamento delle responsabilità giuridiche in ordine alla tutela della pubblica incolumità dallo Stato alle Regioni, con il primo che rimane a dare ordini alle seconde.
Inoltre, ai sensi dell’art. 7, comma 2, della legge 8 marzo 1999, n. 50, regolante le modalità di composizione dei Testi Unici, il Governo doveva attenersi, quale criterio e principio direttivo, alla puntuale individuazione del testo vigente delle norme.
Ebbene, nell’intitolazione dell’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001 non viene fatto alcun riferimento alle norme già vigenti, e quindi riordinate, che avevano effettivamente attribuito alla Regione la competenza al rilascio dell’autorizzazione.
A ciò si aggiunga che l’art. 25 della legge n. 1684/1962 è sempre vigente ed individua l’Ufficio del Genio Civile ai fini della competenza.
Ma il CORPO REALE del Genio Civile, risalente al 1816 – passato, previa riforma normativa, da Vittorio Emanuele II con legge 20 novembre 1859, n. 3754 alle dipendenze del Ministero dei Lavori pubblici (legge estesa a tutto il Regno d’Italia, con un provvedimento del 25 agosto 1863, seguito dal regolamento di cui al Regio decreto 13 dicembre 1863, n. 1599) – è sopravvissuto alla c.d. II^ Repubblica ?
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In realtà, la questione, come vedremo, non ha poi così rilevanza all’indomani dell’entrata in vigore della Legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile).
La Corte costituzionale (ancora con la sentenza n. 182/2006 – Pres. Marini, Red. Finocchiaro), decidendo le sorti di una norma della Regione Toscana che stabiliva bastevole il mero deposito-progetto per poter iniziare i lavori in zona sismica, ha avuto modo di ricordare che:
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E' bensì vero che già a partire dalla legge della Regione Toscana 6 dicembre 1982, n. 88 (Ulteriori norme per l'accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche), operava nella Regione l'istituto della denuncia di inizio dell'attività (art. 2), in attuazione dell'art. 20 della legge 10 dicembre 1981, n. 741 (Ulteriori norme per l'accelerazione delle procedure per l'esecuzione delle opere pubbliche), che in materia di interventi in zona a rischio sismico abilitava le regioni a sostituire il sistema di monitoraggio connesso al regime autorizzatorio, di cui all'art. 18 della legge 2 febbraio 1974, n. 64 (Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche), con “modalità di controllo successivo”.
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Questo principio è però venuto meno a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 94 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il quale prevede l'autorizzazione regionale esplicita. L'intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell'incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali.
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Né costituisce argomento probante, per avallare la tesi della Regione, la circostanza che la legge n. 741 del 1981 non compaia fra quelle abrogate dall'art. 136 del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, dal momento che non se ne fa espressa menzione neppure nell'elenco delle disposizioni di legge mantenute in vigore (art. 137).
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L'opzione per una disciplina derogatoria a sistemi di controllo semplificato, ove siano coinvolti interessi primari della collettività, ha ricevuto, infine, conferma dall'art. 3 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80, che generalizzando – a modifica dell'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 – il regime della denuncia di inizio attività, esclude tuttavia dalla procedura semplificata «gli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità…».
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Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, per violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, in considerazione del mancato rispetto della norma statale di principio sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non dispone che non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione..
Ma analizziamo le varie statuizioni della Corte.
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STATUIZIONI 2 e 5 della sentenza n. 182/2006 C.COST.
La Corte costituzionale ricorda che:
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i valori che attengono alla pubblica incolumità fanno capo alla materia della “protezione civile”, a sua volta rientrante nella “sicurezza pubblica”;
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vige il principio del preventivo controllo pubblico dell’attività edificatoria privata in zona sismica (l’edilizia pubblica, non oggetto del D.P.R. n. 380/2001, è sempre regolata dalla Legge n. 741/1981).
L’ordinamento della “Protezione civile” è l’unione:
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dello “Ordinamento dei servizi di pronto soccorso in occasione di terremoti”, formato con il Regio Decreto Luogotenenziale n. 1915 del 2 settembre 1919 (G.U. n. 225 del 27/10/1919), convertito dalla Legge 17 aprile 1925, n. 473;
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dell’ art. 9 e 36 della Legge n. 142/1990 (oggi artt. 13 e 50 del D.Lgs. n. 267/2000);
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dell’istituzione del Servizio nazionale della protezione civile, avvenuta con la Legge 24 febbraio 1992, n. 225.
Dispone l’art. 13 del R.D.L. n. 1915/1919, sempre vigente:
Art. 13 – Per gli accertamenti delle condizioni statiche dei fabbricati e dei danni da essi subiti, come per i provvedimenti relativi alla totale o parziale demolizione di edifici o all'esecuzione di puntellamenti e piccole riparazioni e così per le riparazioni di condutture di acque e di strade, saranno incaricati gli ingegneri del genio civile, delle Province, dei Comuni, e potranno essere incaricati anche ingegneri liberi professionisti.
I lavori di demolizione, di puntellamento o delle indilazionabili piccole riparazioni saranno eseguiti immediatamente di ufficio.
Dispone l’art. 15 della Legge n. 225/1992, anch’esso sempre vigente:
Articolo 15 – Competenze del comune ed attribuzioni del sindaco.
1. Nell'ambito del quadro ordinamentale di cui alla legge 8 giugno 1990, n. 142, in materia di autonomie locali, ogni comune può dotarsi di una struttura di protezione civile.
2. La regione, nel rispetto delle competenze ad essa affidate in materia di organizzazione dell'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale, favorisce, nei modi e con le forme ritenuti opportuni, l'organizzazione di strutture comunali di protezione civile.
3. Il sindaco è autorità comunale di protezione civile. Al verificarsi dell'emergenza nell'ambito del territorio comunale, il sindaco assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite e provvede agli interventi necessari dandone immediata comunicazione al prefetto e al Presidente della Giunta regionale.
4. Quando la calamità naturale o l'evento non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco chiede l'intervento di altre forze e strutture al prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell'autorità comunale di protezione civile.
Indubbiamente, quindi, dal 1/4/1992 (data di entrata in vigore della L. n. 225/1992) il Sindaco è l’Autorità locale di protezione civile1, i cui poteri in materia di urbanistica – oggi ricompresa nel governo del territorio – includevano quelli di adottare e rilasciare le concessioni edilizie.
Ora però dobbiamo fermarci un attimo e fare un salto alla Legge Urbanistica, tornare indietro negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, ricordando anche i primi tentativi di riforma finalizzati a rendere effettivo il costituzionalizzato diritto all’abitazione.
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Vengo a riportare passi estratti dallo scritto di Gaetano Fontana “Per una storia amministrativa dell’urbanistica: ruolo e funzioni del Ministero dei lavori pubblici”, testo predisposto dall’A. in occasione delle giornate di studio Storia dell'amministrazione pubblica italiana, tenutesi a Roma il 7 e l'8 maggio 1998, aula del Parlamentino, Scuola superiore della pubblica amministrazione, Ministero dei lavori pubblici. La selezione esclude quelli relativi all’espropriazione perché non d’interesse per questo lavoro.
“L'esperienza che il Ministero accumulava, attraverso l'istruttoria per l'approvazione degli strumenti urbanistici, generali e particolareggiati, le segnalazioni circa le difficoltà incontrate nella fase attuativa, le denunce dei troppi abusi commessi, ecc, rendeva evidente la necessità di una profonda riforma urbanistica, che incidesse sia sulla metodologia della pianificazione, sia sul regime dei suoli, considerato che l'alto costo delle aree incideva negativamente non solo sull'attività pubblica (opere di urbanizzazione) ma anche su quella dei privati. Nel 1962, fortemente voluto dal Ministro Fiorentino Sullo, si predispose un disegno di legge, negli intenti risolutivo, nel senso che prevedeva il cosiddetto esproprio generalizzato: cioè l'acquisizione coattiva, da parte del comune, di tutte le aree destinate all'edificazione nel piano, la loro urbanizzazione e la cessione, in diritto di superficie, ai privati che intendessero costruire secondo le prescrizioni di piano. La proposta sollevò un'ondata di critiche sia negli ambienti politici, sia nell'opinione pubblica assolutamente impreparata a una così drastica riforma: anche perché, in quegli anni di tumultuosa espansione, era nelle aspettative di qualsiasi proprietario di terre la vendita delle stesse a prezzo estremamente alto. Il disegno di legge, perciò, si fermò in Parlamento; e a Sullo costò la carriera politica.
Sorte non molto dissimile, negli anni immediatamente successivi, ebbero altri due disegni di legge, redatti quando al Ministero erano preposti i Ministri Pieraccini e, poi, Mancini, che tentavano di addolcire la medicina amara dell'esproprio generalizzato: anch'essi non arrivarono mai in porto. La proposta Sullo, comunque, ebbe l'effetto di allargare il dibattito sull'argomento, prima ristretto agli addetti ai lavori; e il merito, conseguente, di rendere popolare la problematica della riforma urbanistica (nel senso di riconoscere la necessità di trovare un'adeguata soluzione) aprendo, quanto meno, qualche varco nell'opinione pubblica, fino ad allora scarsamente ricettiva al riguardo. Intanto, quasi a sottolineare il rilievo della materia e la volontà di proseguire con maggiore decisione sulla via delle riforme, all'urbanistica si da autonomia burocratico-amministrativa: nel 1965, infatti, viene soppressa la Direzione generale che la univa alle opere igieniche e si istituiva un'apposita Direzione generale, denominata, appunto, "Urbanistica". Michele Martuscelli ne era designato Direttore generale.
A dare un'accelerazione al movimento riformista, interviene un fatto che ben può dirsi traumatico: ad Agrigento, nel luglio del 1966, frana una parte della collina sulla quale poggia la città. Si tratta, in realtà, di una collina con una lunghissima storia di frane, risalente al Medioevo, che però, questa volta, cede in corrispondenza di un abuso edilizio; e, d'altra parte, la città è afflitta da un dilagante abusivismo, non diverso, sostanzialmente, da quello che colpisce tante parti d'Italia, ma che ha la particolarità fortemente negativa di minacciare da vicino un complesso storico, monumentale, archeologico, paesistico, dell'importanza della Valle dei Templi.
Il Ministro Mancini ritiene tuttavia, nonostante questo o, forse, proprio per la "tipicità" del fenomeno, che l'occasione giunga opportuna per scuotere l'opinione pubblica e sottolineare i guasti insopportabili causati dalla mancanza di un'adeguata normativa urbanistica. Riferendo in Parlamento circa la frana, annuncia l'apertura di un'inchiesta «per chiarire fino in fondo aspetti edilizi e speculativi con tutte le conseguenti responsabilità».
Nomina una commissione di alto livello, presieduta dal Direttore generale dell'Urbanistica, Michele Martuscelli e che ha come membri, tra gli altri, il professor Astengo, urbanista insigne, il professor Molajoli, direttore generale delle antichità e belle arti, il professor Guarino, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, il presidente della VI Sezione del Consiglio superiore dei lavori pubblici, Cesare Valle, alti funzionari della Regione siciliana. La Commissione, subito insediatasi, esamina le vicende urbanistico-edilizie di Agrigento nel periodo 1944-1966 e, in particolare, valuta attentamente l'attività delle amministrazioni pubbliche (Comune, Ministero dei lavori pubblici, amministrazione delle Belle arti, Regione) nell'agrigentino. Con un lavoro serrato, diurno e (alla lettera) notturno, condotto a Roma e ad Agrigento, la Commissione, a poco più di tre mesi dalla frana consegna al Ministro Mancini (18 ottobre 1966) la sua relazione, un volume a stampa di circa duecento pagine, corredato da planimetrie e grafici, trasmessa subito al Parlamento. Essa concludeva, in una lettera al Ministro, sottolineando «la gravita della situazione urbanistico-edilizia del paese» e auspicando che «da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto — deciso e irreversibile — al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico»; problema che non può «essere risolto che con una nuova legge urbanistica — la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata —; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione ... di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività» atte a eliminare le più gravi storture e ad accelerare la formazione dei piani.
Alla fine del 1966, il Parlamento chiede al Ministero una relazione circa i risultati concreti dell'applicazione della legge n. 167/1962, a quasi cinque anni dalla sua entrata in vigore, quale base di partenza per un'indagine conoscitiva programmata dalla competente commissione. Questa richiesta viene considerata l'occasione per redigere non una relazione burocratica, ma per effettuare un'analisi approfondita e articolata della materia e delineare un quadro completo della situazione, peraltro in continua evoluzione. In un paio di mesi di intenso lavoro la Direzione generale predispone un consistente volume a stampa, in cui l'esposizione dei dati è accompagnata da considerazioni e proposte, «anche nella prospettiva dell'entrata in vigore della legge urbanistica». In quei giorni era in discussione, in Parlamento, un disegno di legge in materia urbanistica, che non voleva essere la soluzione definitiva del problema, ma rispondere all'esigenza, espressa anche dalla Commissione di indagine di Agrigento, di adottare misure urgenti per eliminare alcune delle più gravi carenze del sistema.
II provvedimento, approvato nel 1967, venne definito "legge ponte", poiché era considerato un ponte gettato verso una riforma incisiva e complessiva della normativa urbanistica. Le sue disposizioni, infatti, si inserivano nella normativa vigente per migliorarla e integrarla, alla luce dell'esperienza, ma non affrontavano il nodo vero del problema urbanistico, che restava il regime dei suoli. Non si può negare la grande rilevanza della legge 765 nel faticoso e complesso iter che ha caratterizzato lo sviluppo della disciplina della materia a partire dal '42, poiché essa ha introdotto norme che sono ancora essenziali ai fini della pianificazione.
Innanzitutto, la legge contiene un gruppo di norme intese direttamente a far rispettare l'obbligo, per i Comuni inclusi negli appositi elenchi, di formare e presentare il proprio piano regolatore generale, non solo fissando termini, ma anche prevedendo l'esercizio dei poteri sostitutivi nei confronti dei comuni inadempienti. Ma, soprattutto, la legge prevede misure indirette per costringere tutti i Comuni (non solo quelli in elenco) a formare il proprio strumento urbanistico generale, consistenti in forti limitazioni all'edificazione privata per tutti i Comuni sprovvisti di tale strumento, nell'intento di sollecitare i cittadini, compresi i proprietari di aree, a farsi promotori, presso i Sindaci, della pianificazione urbanistica.
La legge, inoltre, disciplina il potere del Ministero dei lavori pubblici di introdurre modifiche ai progetti in sede di approvazione (potere prima esercitato senza che alcuna norma lo prevedesse e, comunque, discrezionalmente) da una parte stabilendolo esplicitamente e, dall'altra, limitandolo a materie di speciale interesse statale, tassativamente elencate. Si introducono un più rigoroso controllo sulle lottizzazioni, troppo spesso usate per scardinare gli strumenti urbanistici, nonché più severe sanzioni penali, pecuniarie, amministrative per combattere il dilagante abusivismo edilizio. La licenza edilizia diviene obbligatoria per qualsiasi intervento edilizio e di trasformazione del territorio (prima era limitata al centro abitato e alle sue espansioni) e anche le misure di salvaguardia della legge del '52 da facoltative divengono obbligatorie.
Si tratta, com'è facile notare, di misure intese a rafforzare e rendere più certa l'applicazione della
normativa del '42, nella parte in cui prevedeva l'estensione della pianificazione urbanistica a tutto il territorio nazionale, attraverso l'obbligo ai Comuni di dotarsi di un piano (Prg o programma di fabbricazione) esteso all'intero territorio comunale, nonché il rispetto della pianificazione stessa. Tuttavia, la vera novità della legge sono le norme, ancora oggi alla base della pianificazione urbanistica, che stabiliscono la potestà del Ministero dei lavori pubblici di stabilire limiti inderogabili, da rispettare nella formazione degli strumenti urbanistici, di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi 2. Si stabilisce, inoltre, l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi in tutte le nuove costruzioni, nonché di osservare, nell'edificazione, distanze minime a protezione del nastro stradale fuori dal perimetro dei centri abitati.
Queste disposizioni, i cosiddetti "standard urbanistici", imponevano un deciso salto di qualità nella progettazione dei piani e consentivano all'autorità centrale di intervenire negli aspetti tecnici della pianificazione, sotto il profilo quantitativo. In effetti, troppo spesso venivano presentati al Ministero piani che difficilmente potevano definirsi regolatori, in quanto basati sulla massima espansione dell'edificabilità, senza alcuna cura per gli aspetti pubblici dell'espansione urbana. Con le disposizioni sugli standard e con quelle relative ai parcheggi privati e alla protezione del nastro stradale, la corretta progettazione dei piani, almeno al fine di assicurare a ogni cittadino una quantità minima di spazi fruibili per le esigenze diverse dall'abitazione o dalla produzione, e una salubre composizione degli insediamenti, diviene un obbligo, sanzionabile con il rifiuto dell'approvazione del piano.
La legge ebbe l'effetto di dare un nuovo impulso all'attività di pianificazione urbanistica, anche a
seguito dell'impegno del Ministero, che emanò prima un'importante circolare illustrativa, a stampa, per indirizzare e sollecitare l'attività dei comuni (28/10/1967) e poi i due decreti ministeriali previsti dalla legge: uno per stabilire le distanze minime a protezione del nastro stradale (Dm 1/4/1968, n. 1404) e l'altro per fissare i limiti inderogabili e i rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti e spazi pubblici (Dm 2/4/1968, n. 1444); quest'ultimo, fra l'altro, individuava le zone territoriali omogenee nelle quali può suddividersi il territorio comunale.
Mentre si discute del regime dei suoli, senza riuscire a trovare una soluzione sufficientemente condivisa, tale da poter essere proposta al Parlamento, la Corte costituzionale interviene sull'argomento con la sentenza n. 55 del 1968. Questa dichiara l'incostituzionalità delle norme della legge urbanistica del '42 (art. 40, anche in rapporto all'art. 7) che consentivano l'imposizione di vincoli senza indennizzo e a tempo indeterminato, quando essi abbiano contenuto espropriativo: i vincoli, cioè, che, pur consentendo il mantenimento della titolarità del
diritto di proprietà, determinano uno svuotamento del diritto medesimo. Detto altrimenti, tali vincoli, poiché privano i proprietari di facoltà di utilizzazione dei loro beni (in pratica, della facoltà di costruire) che sono connaturali al diritto dominicale, non possono essere imposti senza corresponsione di indennizzo, poiché ciò contrasta con l'art. 42 comma 3 della Costituzione. La sentenza sembra una condanna a morte per la pianificazione urbanistica e in particolare per i piani regolatori vigenti, la cui ossatura è costituita dai vincoli apposti per la realizzazione di strade, scuole, parchi, mercati, ecc: i Comuni non dispongono dei mezzi necessari per indennizzare i proprietari delle aree e, tanto meno, per acquisire subito o in tempi brevi le aree stesse mediante espropriazione, stanti gli alti livelli della relativa indennità. Il problema nasce, infatti, dal rilievo della Corte che non fa obiezioni all'imposizione dei vincoli, sia pure preordinati all'espropriazione, ma ritiene necessario che sia determinato il momento dell'espropriazione stessa; e invece il piano regolatore generale ha vigore a tempo indeterminato.
Nello stesso periodo, la Corte costituzionale aveva dichiarato (sentenza n. 56/1968) la legittimità
costituzionale del vincolo apposto, senza indennizzo, su aree da tutelare ai sensi della legge n. 1497/1939 per la protezione delle bellezze naturali, in quanto il provvedimento dell'amministrazione non modifica la preesistente situazione, ma accerta le caratteristiche proprie di una categoria di beni che vengono tutelati, mediante il vincolo, appunto per le loro originarie caratteristiche. Comunque, la sentenza n. 55 crea scalpore, preoccupazione e, ovviamente, riaccende il dibattito in tutte le sedi.
Una nota positiva viene da un'intervista concessa dal professor Aldo Sandulli, Presidente della Corte costituzionale, che sembra indicare la via per una soluzione definitiva della questione: è sufficiente, afferma Sandulli, che il legislatore configuri la facoltà di costruire non più connaturata al diritto di proprietà, ma come l'effetto di una concessione pubblica. Praticamente si tratta di separare lo jus aedifìcandi dal diritto di proprietà. Si comincia, pertanto, a studiare l'ipotesi della separazione dei diritti, anche se il dibattito è sempre più acceso tra gli "urbanisti" che sostengono la separazione e "altri" (soprattutto i proprietari di aree) che reclamano la soluzione basata sul pieno indennizzo.
Per elaborare una proposta normativa, in un senso o nell'altro, occorre tempo, mentre la sentenza della Corte fa sentire subito i suoi effetti. È necessaria una soluzione provvisoria che viene trovata con la "legge tampone" n. 1187/1968 (così definita perché serve ad arginare gli effetti della sentenza costituzionale) che assegna un limite di efficacia di cinque anni ai vincoli urbanistici, compresi quelli dei piani regolatori già approvati, per i quali il quinquennio inizia dalla data di entrata in vigore della legge stessa.
Il provvedimento è presentato come una norma a termine, per consentire l'elaborazione e l'approvazione della legge di riforma. Il dibattito, pertanto, riprende e si sposta sui contenuti della riforma.
(…)
L'agevolazione per gli enti esproprianti costituita dal nuovo criterio indennitario non pone fine ai
dibattiti, che sono sempre più serrati, poiché la riforma promessa è aperta a molte soluzioni, tutte
sostenute da agguerriti patrocinatori, ovvero tutte supportate da precisi e contrastanti interessi. Il
Ministero mette in cantiere una proposta di legge impostata proprio sul suggerimento del Presidente Sandulli (il regime concessorio come soluzione del problema), anche perché la provenienza del suggerimento stesso dal vertice della Corte costituzionale appare una garanzia di successo. Ma la resistenza delle parti avverse a tale soluzione si fa più vivace e riesce a rallentare l'iter parlamentare del disegno di legge che, nel frattempo, è stato redatto sulla base di un impegno assunto dal governo Moro-La Malfa al momento della sua formazione, è stato approvato dal Consiglio dei ministri nel novembre 1975 e presentato al Parlamento nel dicembre successivo.
Si rendono così necessarie diverse proroghe della legge n. 1187/1968, una delle quali lega la validità dei vincoli posti dai piani regolatori alla riforma urbanistica in discussione al Parlamento.
Finalmente, anche per la fermezza del Ministro dei lavori pubblici dell'epoca, Pietro Bucalossi 3, che ha sostenuto il disegno di legge in tutti i suoi passaggi, fino a minacciare le dimissioni e, perciò, la crisi di governo, il provvedimento, la legge 28 gennaio 1977 n. 10, viene approvato dal Parlamento ed entra in vigore. Si tratta di una riforma veramente incisiva, basata, essenzialmente, sull'introduzione della concessione come provvedimento che abilita a costruire e, più in generale, a trasformare il territorio. Giuridicamente, la riforma sta nella sostituzione della licenza edilizia, che è un'autorizzazione, cioè la rimozione di un ostacolo all'esercizio di un potere che già appartiene al proprietario del l'area, con la concessione, che ha il significato di attribuzione al proprietario dell'area (che prima non lo aveva) del potere di costruire, appartenente al Comune. Rende più evidente la trasformazione il fatto che la concessione è onerosa: viene, cioè, rilasciata dal Comune previo pagamento di un contributo commisurato per una parte all'incidenza delle spese di urbanizzazione e, per l'altra, al costo di costruzione. Ciò significa, anche se la legge non lo dichiara esplicitamente e i più accesi fautori della riforma lo rilevano con rammarico, che si è separato lo jus aedificandi dal diritto di proprietà dell'a rea; e
che il diritto di costruire appartiene all'autorità pubblica: la nuova disciplina del regime di appartenenza dei suoli edificatori (vulgo, la riforma del regime dei suoli) entra nell'ordinamento.
La nuova legge, sempre nella stessa direzione, prevede una riduzione del contributo di concessione, per gli interventi di edilizia abitativa, quando il concessionario si obbliga, attraverso una convenzione, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati sulla base dei criteri indicati in una convenzione-tipo formulata dalla Regione. Il convenzionamento persegue il fine di attuare un controllo pubblico di prezzi e canoni, per incentivare la realizzazione di abitazioni a basso costo per i ceti meno abbienti, sostenendo l'impresa privata mediante la fornitura di aree espropriate al valore agricolo, la riduzione del contributo di concessione, l'abbattimento del costo del denaro e altre misure intese a ridurre i costi di costruzione. Altra norma innovativa della legge n. 10/1977 è quella che istituisce il programma pluriennale di attuazione degli strumenti urbanistici, che alla pianificazione nello spazio, del Prg, unisce la programmazione, nel tempo, della sua attuazione. Si cerca così di evitare che il Comune debba rincorrere, con le opere di urbanizzazione, l'amplia mento urbano che si sviluppava in ogni direzione, senza coordinamento c on l'attività pubblica con cernente la realizzazione di servizi e l'attrezzatura di aree pubbliche.
Infine, per combattere l'abusivismo sempre più dilagante, si rafforzano le sanzioni in precedenza vigenti prevedendo, per i casi più gravi, l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio comunale.
Il Ministero dei lavori pubblici si impegna ad agevolare l'applicazione della legge attraverso circolari e contatti con i Comuni. Deve anche stabilire annualmente, come vuole la legge, il costo di costruzione dei nuovi edifici ai fini della determinazione del contributo di concessione, attraverso propri decreti (il primo è del 10/5/1977, n. 801 ) che hanno rilevanza anche economica sia, ovviamente, perché tale determinazione incide sul contributo di concessione e, pertanto, sui costi dell'edilizia, sia perché le determinazioni ministeriali influenzano il mercato, anche se indirettamente.
Nello stesso anno sono emanate le norme delegate per completare il trasferimento alle Regioni delle funzioni statali con disposizioni che riguardano l'urbanistica, in rapporto ai mutamenti istituzionali.
II Dpr 24 luglio 1977 n. 616. all'art. 80, definisce l'urbanistica come l'insieme delle funzioni che «concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché la protezione dell'ambiente». La disposizione, che riguarda le funzioni amministrative trasferite alle Regioni, definisce la materia in modo comprensivo, anche se non troppo tecnico; l'articolo successivo, che indica invece le competenze dello Stato, precisa ulteriormente il concetto di urbanistica. L'art. 81, al comma 1, attribuisce alla competenza statale, in primo luogo, il compito dell'«identificazione, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento ... delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento all'articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio, nonché alla difesa del suolo». Sono di competenza statale, inoltre, la formazione e l'aggiornamento degli elenchi delle zone dichiarate sismiche e l'emanazione delle norme tecniche per le costruzioni nelle stesse. Di rilievo, nella norma, è il richiamo alla funzione di indirizzo e di coordinamento, nonché l'articolazione dell'assetto del territorio come nozione comprendente anche la tutela ambientale ed ecologica, e la difesa del suolo: sottolineando, così, la funzione dell'urbanistica, che è quella di valutare e rendere compatibili i vari interessi che si incontrano e scontrano nella
trasformazione del territorio. Lo stesso art. 81, ai commi 2, 3 e 4 attribuisce allo Stato, d'intesa con la Regione, la potestà di autorizzare la realizzazione di opere pubbliche di competenza delle amministrazioni statali, anche in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici: in tale ultimo caso, deve essere sentito anche il Comune.
L'insieme di queste disposizioni disciplina in modo razionale competenze e rapporti fra lo Stato e gli altri enti territoriali, dopo l'attuazione dell'ordinamento regionale. Sempre il 24 luglio 1977, con Dpr n. 617, la Direzione generale dell'urbanistica viene soppressa e sostituita dalla Direzione generale del coordinamento territoriale che, nel nome, denuncia le nuove funzioni dello Stato nella materia.
(…)
L'euforia, o l'appagamento, degli urbanisti per le conquiste costituite dall'introduzione del criterio di determinazione dell'indennità di espropriazione stabilito dalla legge n. 865 del '71 e del regime concessorio della legge Bucalossi del '77 non dura a lungo: il 30 gennaio 1980 la Corte costituzionale, con la sentenza n. 5, dichiara l'illegittimità dell'uno e dell'altro. Il criterio indennitario del '71 è "fulminato" perché il riferimento al valore agricolo esclude la considerazione di qualsiasi valore edificatorio; il regime concessorio, e perciò la separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà del suolo, perché nonostante l'espediente della concessione onerosa il diritto di edificare continua a inerire al diritto di proprietà. Di conseguenza, della legge n. 10/1977 resta soltanto il contributo di concessione e, per quanto riguarda l'espropriazione, si ritorna al valore venale della legge n. 2359 del 1865.
Il disappunto, e lo scoramento, degli urbanisti e dei politici è ancora più grande, questa volta, perché sembra che non esista alcun modo per risolvere il problema del regime dei suoli. Il Ministero si limita a nominare una commissione di studio ad alto livello, presieduta dal professor Sandulli, non più Presidente della Corte costituzionale che, a dimostrazione della generale incertezza, termina i suoi lavori presentando un ventaglio di una dozzina di proposte, prima delle quali è quella di prevedere la cessione, da parte dei Comuni, del diritto di edificare mediante asta pubblica: ma la via suggerita non sembra praticabile. Il Parlamento cerca di arginare almeno la falla apertasi nel procedimento espropriativo ricorrendo a varianti del solito sistema della legge di Napoli e, chiaro segno anche questo della difficoltà di trovare una soluzione, approvando, in attesa di una definitiva riforma, disposizioni provvisorie quale la legge n. 385/1980, che rimarrà tale per oltre dieci anni.
Si susseguono provvedimenti di pura cosmesi. Nel 1982 (legge 25/3/1982, n. 94), nell'intento di rilanciare l'edilizia, specie abitativa, vengono emanate disposizioni dirette a semplificare il procedimento, esonerando parte dei Comuni dalla redazione dei programmi pluriennali di attuazione, estendendo l'autorizzazione, in luogo della concessione, ad altre categorie di opere, ecc: un'altra tappa del processo di semplificazione dei rapporti tra il Comune e i cittadini intenzionati a realizzare opere di trasformazione del territorio.
II Ministero è, intanto, impegnato nei confronti dell'abusivismo edilizio, sempre più dilagante: nell'ottobre dell'83 viene emanato un decreto legge che dispone un condono oneroso degli abusi.
Ma il decreto, che suscita accesi dibattiti e contrasti, pur se in sostanza è un provvedimento ineluttabile di fronte ai problemi posti da un abusivismo esteso e ormai consolidato, non viene convertito. Di conseguenza, si pone mano a un disegno di legge che, oltre al condono subordinato alla corresponsione di un'oblazione commisurata alla gravita dell'abuso commesso prevede incisive norme per il controllo dell'attività urbanistico-edilizia, nonché il rafforzamento delle sanzioni amministrative e penali.
Questa parte del provvedimento è particolarmente interessante, perché si introducono nell'ordinamento disposizioni originali, potenzialmente assai efficaci.
Con la legge 28/2/1985, n. 47, in sostanza, si cerca di combattere l'abusivismo sottraendo al responsabile il vantaggio economico connesso al suo comportamento. Si prevede perciò che, accertato il carattere abusivo dell'opera, il Sindaco diffidi il responsabile a demolirla e, ove non segua la demolizione, l'opera e l'area di sedime siano acquisiti, di diritto e gratuitamente al patrimonio comunale. Si sancisce la nullità degli atti giuridici relativi a diritti reali concernenti opere abusive, ponendo così tali opere fuori commercio. Si definisce la lottizzazione abusiva con grande rigore, fino a colpire qualsiasi frazionamento di terreno che, per le sue caratteristiche, denunci «in modo non equivoco» la destinazione a scopo edificatorio e si prevede anche per le lottizzazioni abusive la nullità degli atti giuridici e l'acquisizione di diritto del terreno lottizzato al patrimonio disponibile del Comune.
Sanzioni sono previste anche per i notai e i pubblici ufficiali che non rispettano la nuova normativa. La legge n. 47/1985, certamente di non facile applicazione, stante la molteplicità delle situazioni verificabili nella realtà e il fatto, non secondario, che dall'esatta rilevazione dell'abuso dipende la corresponsione allo Stato dell'oblazione (che sospende sia il procedimento penale sia quello per le sanzioni amministrative eventualmente in corso ed estingue il resto quando sia stata integralmente corrisposta), induce il Ministero a intervenire per indirizzare e coordinare il comportamento delle amministrazioni e degli uffici competenti e per facilitare e, insieme, normalizzare gli adempimenti dei responsabili degli abusi. Si provvede, pertanto, d'intesa con l'Istituto di statistica e il Ministero dell'interno, alla predisposizione di appositi modelli (n. 47/1985) sui quali esclusivamente i responsabili degli abusi debbono effettuare la domanda di condono e di richiesta della concessione in sanatoria; tali modelli divengono ufficiali con l'approvazione, intervenuta con Dm 19/7/1985. Vengono emanate inoltre diverse circolari, la più importante delle quali (30 luglio 1985, n. 3357) prima della firma del Ministro è esaminata da una commissione presieduta da Vincenzo Caianello. Un'altra circolare (30/7/1985, n. 3356) suggerisce la corretta applicazione di una disposizione della legge, che fa obbligo ai segretari comunali di redigere mensilmente l'elenco dei rapporti degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria riguardanti opere o lottizzazioni realizzate abusivamente e delle relative ordinanze di sospensione e di trasmetterlo, per i provvedimenti di competenza, all'autorità giudiziaria, al presidente della giunta regionale e al Ministro dei lavori pubblici. Sulla base degli elenchi ricevuti, il Ministero dei lavori pubblici riferisce periodicamente al Parlamento sull'andamento del fenomeno dell'abusivismo dopo l'entrata in vigore della legge e delle nuove misure di controllo e repressione. La stessa legge n. 47/1985 ha proseguito nella semplificazione dei procedimenti, tra l'altro con disposizioni che sottraggono all'approvazione regionale i piani esecutivi senza varianti al Prg. Inoltre, ha istituito la categoria delle opere interne alle costruzioni per la cui esecuzione non è necessaria né concessione, né autorizzazione, ma è prescritta soltanto la presentazione di una relazione sui lavori, asseverata da un professionista abilitato alla progettazione.
I grandi temi urbanistici, dopo la sentenza costituzionale n. 5 del 1980, continuano a latitare, sia nel dibattito tra gli addetti ai lavori, sia in Parlamento.
Tuttavia viene a maturazione una questione di grandissimo rilievo territoriale, anche se settoriale, qual è l'ambiente. Con legge 8 luglio 1986 n. 349 viene istituito il Ministero dell'ambiente, con il compito di promuovere la conservazione e il recupero delle condizioni ambientali e la conservazione del patrimonio naturale. Si prevede che il nuovo Ministero, in considerazione del carattere settoriale della materia, adotti le iniziative necessarie per assicurare il coordinamento, ad ogni livello di pianificazione, delle funzioni di tutela dell'ambiente con gli interventi per la difesa del suolo e la tutela delle acque, d'intesa con il Ministero dei lavori pubblici. Il concerto tra i due Ministeri è previsto anche per l'identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio, da configurare, ameno in embrione, una politica di governo del territorio. La normativa riguarda le attività e i rapporti tra gli enti territoriali locali: lo Stato non appare, né come titolare di potestà e obblighi, né come parte nei rapporti tra gli enti che gestiscono il territorio. Tuttavia la legge crea, tra Regione, Provincia, Comune, un rapporto nuovo sotto il profilo urbanistico. Essa, infatti, nell'attribuire alla Provincia importanti compiti nella materia, unisce la programmazione (economica, territoriale, ambientale) alla pianificazione territoriale, per I'una prevedendo l'adozione di programmi pluriennali di carattere generale o settoriale, per l'altra istituendo il piano territoriale di coordinamento provinciale. I primi vengono redatti e adottati raccogliendo e coordinando le proposte dei Comuni «ai fini della programmazione economica, territoriale ed ambientale della regione»: la Provincia «concorre alla determinazione del programma regionale di sviluppo» e «promuove il coordinamento dell'attività programmatoria dei Comuni». Il piano territoriale di coordinamento, ferme restando le competenze dei Comuni, è redatto in attuazione di programmi regionali. In tal modo, da una parte si sottolinea, anche normativamente, l'esigenza di connettere economia e assetto territoriale, in una visione organica che supera i confini degli enti; dall'altro si crea un circuito virtuoso, in cui gli enti sottordinati contribuiscono, con le loro proposte, alla formazione di piani e programmi degli enti sovraordinati e questi indirizzano e coordinano quelli sulla base di strumenti non autoritativi. Resta un ordinamento gerarchico di piani e programmi, ma questi tengono conto di tutte le esigenze manifestate sul territorio e non impongono soluzioni che non abbiano un minimo di consenso, compatibilmente con la necessità di effettuare scelte razionali.
Da questo circuito virtuoso è escluso lo Stato al quale, peraltro, non è preclusa la possibilità di disciplinare in questo senso la propria attività, anche a livello soltanto regolamentare. La legge n. 142/1990 istituisce le aree metropolita ne e, nel loro ambito, le città metropolitane come soggetti di pianificazione territoriale.
Qualche anno dopo viene approvata la legge 8 giugno 1990 n. 142 che, nel dettare i principi dell'ordinamento delle autonomie locali, introduce importanti innovazioni in materia urbanistica, tali, anzi, da configurare, ameno in embrione, una politica di governo del territorio. La normativa riguarda le attività e i rapporti tra gli enti territoriali locali: lo Stato non appare, né come titolare di potestà e obblighi, né come parte nei rapporti tra gli enti che gestiscono il territorio. Tuttavia la legge crea, tra Regione, Provincia, Comune, un rapporto nuovo sotto il profilo urbanistico. Essa, infatti, nell'attribuire alla Provincia importanti compiti nella materia, unisce la programmazione (economica, territoriale, ambientale) alla pianificazione territoriale, per I'una prevedendo l'adozione di programmi pluriennali di carattere generale o settoriale, per l'altra istituendo il piano territoriale di coordinamento provinciale. I primi vengono redatti e adottati raccogliendo e coordinando le proposte dei Comuni «ai fini della programmazione economica, territoriale ed ambientale della regione»: la Provincia «concorre alla determinazione del programma regionale di sviluppo» e «promuove il coordinamento dell'attività programmatoria dei Comuni». Il piano territoriale di coordinamento, ferme restando le competenze dei Comuni, è redatto in attuazione di programmi regionali. In tal modo, da una parte si sottolinea, anche normativamente, l'esigenza di connettere economia e assetto territoriale, in una visione organica che supera i confini degli enti; dall'altro si crea un circuito virtuoso, in cui gli enti sottordinati contribuiscono, con le loro proposte, alla formazione di piani e programmi degli enti sovraordinati e questi indirizzano e coordinano quelli sulla base di strumenti non autoritativi. Resta un ordinamento gerarchico di piani e programmi, ma questi tengono conto di tutte le esigenze manifestate sul territorio e non impongono soluzioni che non abbiano un minimo di consenso, compatibilmente con la necessità di effettuare scelte razionali.
Da questo circuito virtuoso è escluso lo Stato al quale, peraltro, non è preclusa la possibilità di disciplinare in questo senso la propria attività, anche a livello soltanto regolamentare. La legge n. 142/1990 istituisce le aree metropolita ne e, nel loro ambito, le città metropolitane come soggetti di pianificazione territoriale.
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Dopo questa citazione, necessaria per la prosecuzione di questo lavoro, mi preme ricordare che il c.d. condono edilizio (Legge n. 47/1985 ss.) non ha previsto il generalizzato rilascio della concessione edilizia a sanatoria per opere realizzate all’indomani dell’entrata in vigore di previsioni edificatorie dei PRG.
Invero, l’art. 33 non ammette a sanatoria le opere che sono in contrasto con vincoli di inedificabilità assoluta contenuti negli strumenti urbanistici, realizzate dopo la loro entrata in vigore.
In sostanza il legislatore statale non ha inteso operare un condono generalizzato, ma l’ha graduato con l’indefettibile principio di pianificazione che – come riconosciuto con la nuova definizione di urbanistica del DPR n. 616/1977, conosciuti i rischi derivanti dall’utilizzazione del territorio e gravanti, poi, sulle persone che lo abitano – limita, fino ad azzerandolo, lo ius aedificandi.
In definitiva, il condono edilizio è una deroga alla capacità edificatoria massima riconosciuta dal PRG; una deroga da concedersi nei limiti di edificabilità sanciti dagli articoli 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444/68, in quanto tutti inerenti anche alla sicurezza degli edifici (come riconosciuto dalla Corte costituzionale , dal Consiglio di Stato e dalla Cassazione civile).
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Detto ciò, proprio in ragione dell’avvertita nuova funzione dell’urbanistica (D.P.R. n. 616/1977) la concessione edilizia non costituisce una licenza, come la generalità degli appartenenti al settore hanno sostenuto dopo la sentenza della Corte costituzionale.
Essa, in realtà, come suggerito da SANDULLI, è un’abilitazione che si atteggia a licenza, ma che ha il precipuo fine di accertare l’effettiva edificabilità dei suoli dopo che il Consiglio comunale (organo elettivo che esercita il potere di sovranità locale) l’ha concessa a mezzo dei piani regolatori al termine di un processo valutativo che:
-
ha riconosciuto la loro (dei suoli) potenziale edificabilità in ragione dello statuto dei luoghi (derivante dall’effettuazione di un quadro conoscitivo dei vincoli gravanti e dalla necessità di tutela del paesaggio);
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ha stabilito la quantità del diritto (in funzione delle necessità derivanti sempre dai quadri conoscitivi e dalle politiche economiche che l’Ente locale vuole imprimere allo sviluppo del proprio territorio);
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ha localizzato le volumetrie (ragionevolmente in base ad una comparazione tra vocazione edificatoria dei suoli, estensibilità delle urbanizzazioni, costi (nel tempo) dei servizi che il Comune deve obbligatoriamente assicurare agli abitanti e alle attività insediate.
In definitiva, la concessione edilizia è l’atto conclusivo di un processo regolatore volto a trasmutare la naturale vocazione edificatoria dei suoli in loro edificabilità.
Essa ne accerta l’edificabilità anche sotto il profilo costruttivo al fine dare le idonee garanzie ai Cittadini in ordine alla salubrità e sicurezza dell’edificato (limiti di altezza, di densità, di distanze, di rispondenza dei calcoli strutturali alle norme tecniche edilizie, di rispondenza della suddivisione degli ambienti e delle modalità costruttive alle regole igienico-sanitarie fissate dai regolamenti locali), precipuamente in ragione della particolarità dei vincoli (idraulici, sismici ecc.) a cui è sottoposto il territorio.
Negare che il Comune ha l’Autorità per limitare l’esercizio del diritto è un atto eversivo, giacché non esiste sovranità senza il potere di disporre del territorio.
L’abilitazione – insegna SANDULLI – “è da ricondurre allo schema dell’autorizzazione in quanto sono provvedimenti amministrativi che operano su diritti (n.d.r. che quindi preesistono), condizionandone l’esercizio.”.
Quindi, inquadrando la questione sotto questo punto di vista le statuizioni della Corte costituzionale contenute nella sentenza n. 5/1980 non sono assolutamente in contrasto con la natura della concessione edilizia.
Invero, la Corte costituzionale statuì sì che “… relativamente ai suoli destinati dagli strumenti urbanistici alla edilizia residenziale privata, la edificazione avviene ad opera del proprietario dell'area, il quale, concorrendo ogni altra condizione, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell'area ed è irrevocabile, fatti salvi casi di decadenza previsti dalla legge (art. 4 legge n. 10 del 1977). Da ciò deriva che il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire …”, ma precisando “… anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici.”.
Ecco che della c.d. Legge Bucalossi, recante norme per l’edificabilità dei suoli (e non specificamente disciplinante la fase valutativa del progetto edilizio) non ne può essere data un’interpretazione convenientemente RIDUTTIVA, in quanto le relative disposizioni – a ben vedere, peraltro - non incidono sull’entità del diritto ad edificare così come riconosciuto attraverso la pianificazione in attuazione della Legge n. 1150/1942.
Diversamente saremmo in presenza di un COMPROMESSO STORICO di fatto, mai approvato dal Popolo Italiano nelle aule parlamentari, e quindi posti davanti ad un quotidiano esercizio di violazione della Costituzione e della forma repubblicana che ci siamo dati.
Né la legge Bucalossi poteva intervenire sulla LUN senza introdurre espresse disposizioni modificative, come è avvenuto con la legge n. 765/1967, perché ai sensi dell’art. 4 della Legge n. 1150/1942 la disciplina urbanistica si attua unicamente con la LEGGE URBANISTICA stessa oppure con la pianificazione (operata in forza di essa) oppure attraverso i regolamenti (come il D.P.R. n. 380/2001).
In sostanza, il legislatore statale aveva – ed ha – blindato i modi di attuazione della disciplina.
Ben presente il problema, ecco che l’allora Ministro Bucalossi – reduce dall’esperienza amministrativa di Milano (vedi note bibliografiche) e recependo l’illuminato suggerimento di SANDULLI – introdusse una nuova forma di titolo abilitativo, diverso dalla licenza edilizia (che attiene precipuamente ai controlli preventivi della progettazione del fabbricato), avente anche il compito di attuare la pianificazione in ragione della programmazione, applicando quel tertium genus di strumento programmatorio di contestuale nuova istituzione chiamato P.P.A. (programma pluriennale di attuazione), tutt’oggi in vigore.
L’eliminazione dell’approvazione regionale e l’obbligo generalizzato di adozione per tutti i Comuni – poi disposte con la Legge n. 94/1982 – fanno del P.P.A. un vero e proprio regolamento (che in varie regioni ha preso l’appellativo di “regolamento urbanistico”, compreso la migliorista Toscana).
La Corte costituzionale con la sentenza n. 13/1980 statuì che legittimamente la legge n. 10/1977 “introduce con i programmi quinquennali di attuazione un nuovo strumento di disciplina dell'utilizzazione dei suoli e, per altro verso, sottrae ai proprietari dei suoli, edificabili e no, la scelta del modo e del tempo della loro utilizzazione”. Attribuì a tale disposizioni caratteri di fondamentale riforma economico-sociale, così da potersi imporre anche alla Regione Siciliana.
Concetto ribadito con la sentenza n. 1033/1988, laddove la Corte statuisce:
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., ad esempio, sentt. nn. 4 e 13 del 1964, 37 del 1966, 92 del 1968, 160 del 1969, 13 del 1980, 219 del 1984, 151 del 1986, 99 del 1987), il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali si caratterizza sotto un triplice profilo:
a) si deve trattare di norme legislative dello Stato che - in considerazione del contenuto, della motivazione politico-sociale e degli scopi che si prefiggono - presentino un carattere riformatore, diretto a incidere significativamente nel tessuto normativo dell'ordinamento giuridico o nella vita della nostra comunità giuridica nazionale (v., spec., sent. n. 219 del 1984);
b) le stesse leggi, tenuto conto della tavola di valori costituzionali, devono avere ad oggetto settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza, quali, ad esempio, "la soddisfazione di un bisogno primario o fondamentale dei cittadini" (sent. n. 4 del 1964) o un "essenziale settore economico del paese" (sentt. n. 13 del 1964, e, analogamente, n. 219 del 1984);
c) si deve trattare, inoltre, di "norme fondamentali", vale a dire della posizione di norme-principio o della disciplina di istituti giuridici - nonché delle norme legate con queste da un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione - che rispondano complessivamente ad un interesse unitario ed esigano, pertanto, un'attuazione su tutto il territorio nazionale (sent. n. 160 del 1969) e che, in ogni caso, lascino alle Regioni, nelle materie di propria competenza, uno spazio normativo sufficiente per adattare alle proprie peculiarità locali i principi e gli istituti introdotti dalle leggi nazionali di riforma (sent. n. 219 del 1984).
Analizzata sulla base dei criteri appena accennati, la normativa oggetto delle presenti impugnazioni risponde alle condizioni ivi stabilite. E ciò si afferma non certo perché tutte le disposizioni impugnate sono rivolte a modificare, direttamente o indirettamente, una legge, come la n. 10 del 28 gennaio 1977 ("Norme per la edificabilità dei suoli"), che questa Corte ha già giudicato nel suo complesso come legge di riforma economico-sociale (sent. n. 13 del 1980).
Infatti, come ha esattamente osservato la difesa della Regione Sardegna, un ragionamento del genere sarebbe viziato, in quanto farebbe dipendere da un carattere esteriore e relazionale - cioè dal rapporto della norma abrogativa o modificativa rispetto a quella abrogata o modificata - una qualificazione sostanziale, come il carattere riformatore di una disciplina, la cui sussistenza va verificata per ogni norma in sé considerata. Al contrario, il riconoscimento delle norme impugnate come appartenenti al genere delle riforme economico-sociali dipende dalla ricorrenza in concreto, in ognuna di esse, dei caratteri che la giurisprudenza di questa Corte ha individuato come propri di tale categoria di norme.
4.1. - Secondo l'insindacabile giudizio del legislatore, chiaramente desumibile dalla relazione al disegno di legge di conversione e dai lavori preparatori parlamentari, il decreto-legge n. 9 del 1982 e la conseguente legge (di conversione) n. 94 del 1982 hanno il precipuo scopo di far fronte a una grave crisi nella disponibilità degli alloggi e a una situazione di emergenza, caratterizzata dal blocco dell'attività edilizia, attraverso la previsione di norme dirette ad agevolare l'acquisizione di alloggi e, soprattutto, la ripresa dell'attività produttiva del settore. Sempre secondo l'insindacabile giudizio del legislatore, una parte non secondaria della responsabilità della situazione appena ricordata era da attribuire al ritardato corso delle pratiche edilizie, dovuto alle lentezze delle amministrazioni comunali competenti al rilascio degli atti di assentimento che devono precedere i permessi rilasciati dagli stessi comuni, nonché alla concorrente macchinosità delle procedure legate all'istituto del silenzio-rigetto, allora pressoché assolutamente dominante in tal campo.
È sulla base di tale motivazione politico-sociale che lo scopo preminente della legge n. 94 del 1982 è costituito da un significativo e sostanziale allargamento delle ipotesi del silenzio-assenso (o silenzio accoglimento) sulle istanze di autorizzazione gratuita e su quelle di concessione ad edificare per interventi di edilizia residenziale, rispettivamente previsto dagli artt. 7, terzo comma, e 8, primo comma, del predetto decreto-legge n. 9 del 1982, convertito, sul punto, senza modificazioni. Tali disposizioni, infatti, hanno esteso in modo rilevante l'area delle ipotesi in cui il silenzio serbato dal Sindaco sulle istanze per ottenere permessi di costruire a fini residenziali equivale ad accoglimento delle stesse, un'area che, per l'innanzi, era circoscritta, nella legislazione nazionale della materia, al caso previsto dall'art. 48 della legge 5 agosto 1978, n. 457 ("Norme per l'edilizia residenziale"), in base al quale l'istanza al Sindaco per ottenere l'autorizzazione a eseguire interventi di manutenzione straordinaria in un immobile si ha per accolta qualora il Sindaco stesso non si pronunzi entro novanta giorni. E l'estensione è tale che, nel settore considerato, l'istituto del silenzio-assenso ha sostituito il proprio regime a quello del silenzio rifiuto: un regime che innova profondamente tanto il versante dei rapporti tra amministrazione e cittadino, quanto il sistema di programmazione urbanistica, che, dato il carattere dovuto o limitatamente discrezionale del titolo di legittimazione a costruire nei casi contemplati dalla legge impugnata (carattere che costituisce, per l'appunto, il presupposto dell'operatività del silenzio-assenso), è messo in grado di funzionare in modo più rapido ed efficiente.
Sulla scorta dei motivi appena accennati, non si può dubitare che l'introduzione del nuovo regime fondato sull'istituto del silenzio accoglimento in un settore di vitale importanza, sia per la soddisfazione di elementari e fondamentali bisogni dei cittadini (v., sentt. nn. 49 del 1987, 217 e 404 del 1988), sia per l'attività produttiva e lavorativa del sistema economico del nostro Paese (sent. n. 13 del 1980), rientri, in base ai criteri elaborati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, fra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali. Come tale, il nuovo regime non può non vincolare l'esercizio delle competenze legislative regionali, compresa quella esclusiva, nel campo dell'edilizia residenziale, salva sempre la libertà del legislatore regionale, commisurata al proprio grado di autonomia, di regolare le modalità attuative dell'istituto del silenzio-assenso, in conformità, ovviamente, con i motivi che ne hanno suggerito l'estensione.
4.2. - Analogo discorso va fatto anche in relazione alle censure che la Regione Sardegna muove all'art. 6 della legge impugnata.
Quest'ultimo articolo contiene alcune deroghe all'art. 13 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, che aveva istituito e disciplinato i programmi pluriennali di attuazione. In particolare, la norma impugnata, oltre a esonerare i piccoli comuni (con popolazione fino a 10.000 abitanti) dal dotarsi del programma pluriennale di attuazione e a prevedere lo snellimento delle procedure di formazione dei predetti programmi (eliminazione dell'approvazione regionale e dei pareri preventivi di altre amministrazioni statali o sub-regionali), prevede, con norme temporanee applicabili fino al 31 dicembre 1984, le opere che possono essere realizzate nelle aree non comprese nei programmi pluriennali di attuazione, identificandole negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e negli interventi da realizzare su aree comprese nei piani di zona e su aree di completamento che siano dotate di opere di urbanizzazione primaria collegate funzionalmente con quelle comunali.
Con la sentenza n. 13 del 1980, questa Corte ha definito la legge n. 10 del 1977 come legge fondamentale di riforma economico-sociale proprio con specifico riferimento, fra l'altro, alla previsione dei programmi pluriennali di attuazione. Ed, invero, l'introduzione di questo strumento urbanistico, com'è ampiamente riconosciuto, è diretta a modificare profondamente le tecniche del governo pubblico del territorio, in quanto, affiancando all'ordinaria pianificazione spaziale di vincoli o di scelte conformatrici della proprietà una programmazione temporale di attività, ne ha trasformato radicalmente il senso, convertendole da strumenti essenzialmente negativi e impeditivi a strumenti di impulso, che esigono un'interazione con le attività e i progetti dei privati. A buon diritto, pertanto, l'art. 13 della legge n. 10 del 1977 è stato qualificato come norma fondamentale delle riforme economico-sociali.
Di questa natura partecipano anche le disposizioni oggetto della presente impugnazione, non solo per la parte che modifica il procedimento di formazione dei programmi pluriennali di attuazione, ma anche per quelle che determinano i comuni esonerati dalla adozione dei medesimi e stabiliscono eccezioni temporanee al principio di edificazione soltanto nelle aree comprese negli stessi programmi. La caratterizzazione di un istituto giuridico, infatti, non è data soltanto dalla definizione del tipo e del principio che l'ispira, ma anche dalla sua estensione e dalla sua sfera di efficacia in tutte le connotazioni essenziali che concorrono a definirle. Le eccezioni alla piena espansione di un principio non sono, da questo punto di vista, accidenti insignificanti, ma piuttosto elementi essenziali che concorrono a definire il principio stesso nella sua effettiva portata e, quindi, nella sua caratterizzazione positiva. In tal senso è, del resto, la costante giurisprudenza di questa Corte, che ha voluto significare anche questo quando, a proposito delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, ha affermato che "non si può escludere l'estensione di tale qualifica a norme diverse da quelle contenenti i principi fondamentali della riforma, purché legate con queste ultime da un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione" (sentt. nn. 219 del 1984, 151 del 1986, 99 del 1987).
Né si può sostenere, in senso contrario, che la temporaneità delle deroghe previste dall'art. 6, come del resto quella relativa al silenzio-assenso sulle istanze di concessione (art. 8, primo comma), rappresenti un ostacolo insormontabile al fine di considerare le une e l'altra come parti integranti delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali. L'idea che debbano essere "fondamentali" soltanto le riforme che non hanno limiti di tempo, patrocinata in tal caso dalla Regione Sardegna, non è accettabile, sia perché, se fosse vera, verrebbe espunta dalla categoria delle leggi in questione proprio l'ipotesi più importante per la quale tale categoria è stata pensata in Assemblea Costituente, cioè la programmazione economica (che è sempre a termine), sia perché il carattere riformatore di una legge è sempre commisurato, spazialmente o temporalmente, alla concreta situazione che il legislatore intende cambiare.
Più in particolare, le due ipotesi contestate dalla Regione Sardegna sono direttamente legate alle due cause che, nell'insindacabile valutazione del legislatore, avevano portato alla crisi degli alloggi e alla stasi dell'attività di costruzione: il ritardo della grande maggioranza delle Regioni nell'adottare i programmi pluriennali di attuazione e la già ricordata lentezza e macchinosità delle procedure comunali nel rilascio delle concessioni. Appare allora chiaro che la temporaneità delle riforme in discussione - vale a dire la previsione di eccezioni al principio dell'edificazione in aree comprese nei programmi pluriennali di attuazione e l'applicabilità del silenzio-assenso anche alle concessioni edilizie - mirano a riattivare un meccanismo che si riteneva inceppato momentaneamente, per un insieme di cause temporanee che hanno portato a una situazione di emergenza.
Per tali ragioni, anche le deroghe temporanee previste dall'art. 6 della legge n. 94 del 1982 si impongono, quali norme fondamentali delle riforme economico-sociali, alle Regioni ad autonomia comune e a quelle ad autonomia differenziata, che in ogni caso conservano in proposito un ampio spazio normativo, poiché le ipotesi previste dall'articolo impugnato costituiscono semplicemente un minimo al di sotto del quale le Regioni non possono andare.
4.3. - Restano, infine, da considerare le altre censure che sia la Regione Emilia-Romagna, sia la Regione Sardegna muovono all'art. 7 e all'art. 9 della legge n. 94 del 1982.
Per quel che in questa sede rileva, l'art. 7 - non modificato in sede di conversione - prevede (primo e secondo comma) alcune ipotesi di deroga al principio di onerosità della concessione edilizia, stabilito dall'art. 3 della legge n. 10 del 1977. Del pari, l'art. 9 prevede, tanto nel testo originario, quanto in quello risultante dalla legge di conversione, norme in deroga allo stesso principio, determinando alcuni casi in cui il contributo per il rilascio della concessione edilizia è dovuto in misura ridotta rispetto al suo ammontare ordinario, che, ai sensi del suddetto art. 3 della legge n. 10 del 1977, va commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. In altre parole, l'uno e l'altro articolo prevedono eccezioni o deroghe a un medesimo principio, il quale rientra indubbiamente fra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, non tanto perché stabilito in una legge che questa Corte ha già assegnato nella sua totalità a tale categoria di norme (sent. n. 13 del 1980), ma piuttosto perché il principio di onerosità della concessione incide profondamente su un punto nevralgico della disciplina della rendita fondiaria, modificando radicalmente il precedente regime. Pertanto, anche in tal caso vale il discorso svolto nel punto precedente della motivazione, in base al quale anche le deroghe o le limitazioni di un principio, legate da un rapporto di coessenzialità o di integrazione necessaria con lo stesso, partecipano della sua stessa natura di norma fondamentale delle riforme economico-sociali, in quanto concorrono a determinare l'effettiva portata e la caratterizzazione positiva del principio medesimo.
In definitiva, nel corpo della concessione edilizia viveva – e continua a vivere, nonostante tutto, secondo il prospettato ordine –:
-
la valutazione tecnica dell’opera progettata (licenza edilizia, oggi permesso di costruire);
-
la determinazione del valore delle aree di urbanizzazione secondaria (monetizzazione) che devono essere espropriate dal Comune per la successiva realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria (funzionali ad assicurare il livello essenziale prestazionale minimo stabilito dall’art. 3 del D.M. n. 1444/68 per l’insediamento degli abitanti);
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la determinazione degli oneri di urbanizzazione, che sono afferenti solamente alla realizzazione delle opere da costruirsi sulle aree già cedute gratuitamente per quelle di primaria e su quelle da espropriarsi per quelle di secondaria;
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la determinazione del costo di costruzione, tassa locale;
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la proposta di adozione della licenza edilizia, oggi permesso di costruire, formulata dal dirigente dell’Ufficio tecnico comunale;
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l’autorizzazione sindacale relativa alla proposta di licenza edilizia (oggi permesso di costruire), che viene concessa (appunto dal sindaco) prima della formazione dell’atto e che incide sulla validità della licenza;
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l’adozione finale della licenza edilizia;
-
il controllo finale della regolarità dell’azione amministrativa prima di procedere nel rilascio all’avente titolo.
Mentre prima della Legge n. 142/1990 il provvedimento era di competenza unicamente del Sindaco (per cui non si poneva il problema della competenza e dell’esatta scansione procedimentale), all’indomani della c.d. Legge Bassanini (n. 59/1997) – che ha operato la scissione delle competenze in applicazione del principio inderogabile di separatezza tra sfera politica e sfera gestionale, e ricordando (vedi prima parte di questo lavoro) che il Testo Unico dell’Edilizia non ha inciso sulle norme, ma sulle loro disposizioni – ecco che la concessione edilizia diventa un atto endoprocedimentale condizionante l’esercizio del potere dirigenziale al rilascio del permesso di costruire.
Al dirigente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 “Competenza al rilascio del permesso di costruire” del D.P.R. n. 380/2001, il legislatore statale non ha attribuito la competenza se non vengono rispettate anche le leggi e i regolamenti.
Pertanto, non costituiscono atti amministrativi, soggetti alla giurisdizione del G.A., i permessi di costruire rilasciati in violazione di essi, poiché assunti in assenza di potere.
La Corte costituzionale insegna (cfr. sentenza n. 208/1992) che la limitazione dei poteri da parte del legislatore ordinario è posta a tutela dei principi desumibili dall’art. 97 Cost. e, quindi, quando il soggetto astrattamente competente adotta un provvedimento al di fuori dell’ambito dei poteri ad esso spettanti (così come limitati nel tempo e nell’oggetto) non agisce in eccesso di potere, ma in assenza. I relativi atti sono nulli. Né il Giudice amministrativo può essere il Giudice dell’Amministrazione.
Il provvedimento di permesso di costruire che viola il principio di programmazione delle opere pubbliche è indubbiamente di competenza del Giudice Ordinario laddove sussista la violazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei Cittadini (ex art. 3 del D.M. n. 1444/68) che assurgono a standards della qualità della vita (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 644 del 4/2/2013, Pres. Giaccardi, Est. Sabatino, nella quale, dopo aver accertato che la L.R. Piemonte n. 56/1977 si discosta da quella statale in ordine alla fissazione degli standards del D.M. n. 1444/68 recita:
“(…) Nel caso in esame, va rimarcato come il piano regolatore generale comunale di Torino non sia stato oggetto d’impugnazione e, conseguentemente, non è possibile nemmeno sindacare la compatibilità del sistema normativo sopra evidenziato con il nuovo quadro costituzionale (con particolare riferimento ai temi dell’art. 117 ed ai concetti di ordinamento civile, governo del territorio e livelli essenziali di prestazione). Ciò a proposito della circostanza che questi meccanismi di attribuzione, di fatto, trasferiscono sul livello minimo dell’organizzazione territoriale della Repubblica i poteri di determinazione in concreto della qualità della vita urbana, con possibilità di una non uniforme disciplina sul piano nazionale. È, infatti, valido nella questione in esame il principio per cui, anche nei casi d’intervenuta declaratoria d’incostituzionalità, il giudice amministrativo, nel giudizio impugnatorio, può procedere all'annullamento dell'atto fondato su norma dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con propria sentenza di annullamento, solo se, attraverso un motivo di ricorso, il rapporto tra l'atto impugnato e la norma predetta sia portato a sua conoscenza e, quindi, l'esame della norma stessa sia necessario ai fini del decidere (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 25 agosto 2009 n. 5058), cosa che nel caso non sussiste.”).
Altrettanto è ravvisabile la competenza dell’A.G.O. allorquando si è in presenza di un potenziale vulnus alla pubblica incolumità, non occorrendo che la pericolosità debba essere accertata nel concreto per poter adottare provvedimenti cautelari visto che si verte in tema di reati di pericolo.
Pertanto, l’ordinamento non attribuisce il potere al dirigente di rilasciare il permesso di costruire:
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se l’attività edificatoria NON si svolge entro la programmazione (P.P.A.);
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se l’attività edificatoria si svolge su terreni sottoposti a vincoli di tutela ambientale e di tutela della pubblica incolumità (sismica e costruzioni in cemento armato ed armatura metallica, quest’ultimi attinenti alla sicurezza delle costruzioni) e il permesso non inglobi la concessione del Sindaco, quale Autorità di Protezione Civile (a cui spetta di far previamente valutare la staticità della costruzione).
A siffatta interpretazione non ostano le disposizioni contenute nell’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001:
“Art. 94 (L) - Autorizzazione per l'inizio dei lavori (Legge 3 febbraio 1974, n. 64, art. 18)
1. Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
2. L'autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il rilascio, per i provvedimenti di sua competenza.
(…)”.
Invero, attraverso un’opera di contemperamento dei valori costituzionali che assicuri un’uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale (art. 118 Cost.), lo Stato ha mantenuto in capo alle Regioni le competenze di vigilanza preventiva (controllo progetti ed autorizzazione) rispetto all’esecuzione dell’opera, ma solamente per le zone sismiche diverse da quelle di bassa sismicità (che nella Regione Toscana sono state individuate con apposita ri-classificazione approvata con deliberazione della Giunta regionale n. 878 del 8/10/2012, a cui, tuttavia, non è stata ancora data esecuzione attraverso la modalità del decreto prescritta dal legislatore statale ex artt. 83 e 94 del D.P.R. n. 380/2001, e perciò inoperante, con l’effetto che i 106 comuni asseritamente declassati in zona 3 sono ANCORA in zona 2 – sismicità media – con conseguente obbligo dell’Ufficio tecnico regionale di rilasciare l’autorizzazione sismica preventiva).
Altre sono state le Regioni che hanno operato egualmente, al fine di dispensare i propri dirigenti dall’assunzione delle responsabilità conseguenti alla valutazione tecnica degli interventi edilizi (che necessariamente, nel caso in cui si opera su costruzioni esistenti, presuppone l’accertamento del grado di sicurezza dell’edificio).
INDISCUTIBILMENTE siamo dinanzi ad un GRAVISSIMO comportamento dei Presidenti delle Regioni, del MINISTRO delle infrastrutture e del PRESIDENTE del Consiglio dei Ministri che hanno svenduto la pubblica incolumità ai componenti gli Ordini professionali, continuando a lavarsi la coscienza con le enunciazioni dell’Avvocatura di Stato contenuti nei ricorsi alla Corte costituzionale (cfr. n. 95 del 18/6/2012), “(…) solo l'intervento di un'Amministrazione pubblica, che vigila e controlla quanto rappresentato dai privati, può fornire idonee garanzie sull'effettiva tutela di interessi pubblici di fondamentale importanza quali la sicurezza (…)”.
E’ un complessivo comportamento EVERSIVO, volto a far scomparire la tutela penale accordata dall’Ordinamento alle violazioni della normativa antisismica (norme di pericolo) attraverso una proliferazione di atti e disposizioni, realmente non applicabili, che hanno l’intento non dichiarato di far perdere l’attribuzione della competenza al rilascio dell’autorizzazione sismica preventiva.
Ciò che Vasco Errani (quale Presidente della Conferenza delle regioni ed anche con l’ausilio dell’intervento dell’ex Ministro Linda Lanzillotta) non è riuscito ad ottenere dall’ex Ministro Antonio Di Pietro all’indomani della sentenza n. 182/2006 della Corte costituzionale, lo ha ottenuto con i governi successivi. Si allegano copie delle lettere:
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nota dell’Ing. Tortoioli della Regione Umbria, prot. 0172259 del 6/11/2006;
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prot. 0007164-23/05/2007 da Antonio Di Pietro a Linda Lanzillotta;
-
prot. 2653/07/3.4.2 del 26/5/2007 della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
-
ulteriore nota del 31/05/2007 dell’Ing. Tortoioli della Regione Umbria, che lamenta l’intransigenza del Ministro Di Pietro alla modifica dell’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001;
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nota prot. 0087940 del 31/5/2007 della Presidente della Regione Umbria Maria Rita Lorenzetti;
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prot. 2676/A3ERP/CP10 del 15/6/2007, da Vasco Errani a Linda Lanzillotta;
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prot. 6156 /07/2.17.4.12 del 27/11/2007 della Presidenza del Consiglio dei Ministri che trasmette l’unito parere prot. 0016282-26/11/2007 dell’Ufficio legislativo del Ministero delle infrastrutture;
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nota prot. 5884/07/2.17.1.3 della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
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nota prot. 83248 del 29/5/2008 sempre di Maria Rita Lorenzetti, quale Presidente della Regione Umbria.
In assenza di una definizione di “bassa sismicità” da parte dello Stato le Regioni potrebbero finire per causare una diversità di trattamento se in tale accezione venissero incluse entrambe le classi sismiche 3 e 4 o solamente una di esse.
Tale disparità, tuttavia, è solo apparente se si accede all’interpretazione:
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che l’operazione di autorizzazione è solo tecnica;
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che deve essere eseguita esclusivamente da un ingegnere (ex art. 13 del R.D.L. n. 1915/1919), il quale di norma deve essere interno alla Pubblica Amministrazione preposta alla valutazione preventiva del rischio e dell’idoneità della costruzione e solo in via eccezionale mediante convenzionamento con altri Enti pubblici territoriali, come prevede l’art. 6, comma 1, della Legge n. 225/1992;
-
che lo Stato, attraverso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, si è riservato il potere di indirizzare e coordinare l’applicazione delle NN.TT.CC., attraverso le circolari o altri strumenti.
Giammai la P.A. può affidare tale incarichi a liberi professionisti, trattandosi di attività propria non esternabile, incombendo su quest’ultimi (purché in possesso delle competenze professionali previste dalla legge ed anche ai fini delle disposizioni ex art. 6 della Legge n. 225/1992) esclusivamente l’onere della rappresentazione dell’opera in progetto.
Pertanto:
-
atteso che l’autorizzazione preventiva ex art. 94 T.U.E. è solo quella rilasciabile dalla Regione;
-
atteso che:
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dall’intitolazione dell’art. 94 (Autorizzazione per l’inizio dei lavori);
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dall’incipit delle disposizioni ivi contenute [“Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio (…)”];
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dalle disposizioni contenute negli artt. 93 e 4 relative alla presentazione della denuncia-progetto allo sportello unico comunale e alla competenza dei relativi organi;
-
se ne ricava la conferma del principio fondamentale che in tutte le zone sismiche occorre la valutazione tecnica sismica dell’opera progettuale da parte di un ingegnere interno alla P.A.;
-
che per effetto delle modifiche all’art. 19 della legge n. 2241/1990 operate dal D.L. n. 35/2005 non è più possibile operare con D.I.A. (oggi S.C.I.A.) nelle zone sismiche, nemmeno si forma il silenzio assenso sull’istanza di permesso di costruire;
-
atteso che l’Autorità di Protezione Civile (Sindaco) può avvalersi di tecnici comunali o di altre PP.AA.;
ecco che se ne ricava il principio dell’indefettibilità e insostituibilità della preventiva autorizzazione sismica, la cui competenza al rilascio è dell’ufficio tecnico regionale (nel senso appartenente alla Regione) per i territori sismici di classe 1, 2 e 3 (atteso che per il principio di precauzione ed in assenza di norma positiva definitoria la “bassa sismicità” non può che riguardare la classe 4). La classificazione regionale è operante unicamente se resa esecutiva con decreto del Presidente della Giunta.
Nel senso dell’indefettibile valutazione sismica da parte della P.A. si è espresso esaurientemente il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3505/2011 riguardo ad attività edificatoria in un comune (Termoli) classificato a “bassa sismicità”, per il commento si consenta il rimando a:
e di cui si riporta un passo esaustivo:
“3.1. - Le censure sono fondate e vanno accolte.
Occorre in primo luogo evidenziare come, in linea di principio, l’argomentazione svolta dal T.A.R. debba essere condivisa quando traccia i limiti generali sui doveri di accertamento della pubblica amministrazione in relazione alle situazioni proprietarie.
Come correttamente afferma il T.A.R., “se infatti nel procedimento di rilascio del permesso di costruire l’amministrazione ha il potere dovere di verificare l’esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento dell’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, è pur vero che l’attività istruttoria condotta a tal fine deve ritenersi adeguata allorquando siano stati acquisiti tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione”. E ciò nella considerazione che nel nostro ordinamento l’unico soggetto deputato ad accertare i rapporti proprietari è il giudice civile, per cui all’amministrazione va riconosciuto unicamente un ruolo minore, esattamente nei termini indicati dal giudice di prime cure.
Tuttavia, dalla lettura degli atti e dalle difese delle parti, emerge che, in disparte la questione proprietaria, i rilievi e le censure maggiori si accentrano sulla circostanza che il Comune avrebbe autorizzato interventi attinenti la staticità dell’immobile e tendenzialmente idonei a pregiudicarla, in assenza di una corretta valutazione del progetto presentato ed anzi in assenza di un effettivo riscontro sulla correttezza tra la documentazione ricevuta e lo stato di fatto.
Questo aspetto, che è apparso alla Sezione prioritario, tanto da fondare l’accoglimento della domanda cautelare proposta ed accolta con ordinanza n. 1108/2010 proprio in ragione dei profili di rischio per la staticità dell’immobile, è stata messo in ombra nella sentenza.
Occorre invece sottolineare che le attribuzioni del Comune in tema di autorizzazione degli interventi edilizi comprendono espressamente gli obblighi di valutare i profili di sicurezza delle costruzioni, come si evince dalla lettura degli art. 2 comma 4 e 4 del testo unico sull’edilizia. Tali obblighi istruttori, appartenendo alle attribuzioni istituzionali dell’ente pubblico, non sono condizionati dalle valutazioni delle parti coinvolte, ma devono essere esperiti in ogni caso e, si noti, anche qualora vi fosse stato accordo delle parti private coinvolte. Infatti, gli interessi tutelati dalla normativa, coinvolgendo profili di sicurezza privata e pubblica, non sono disponibili dalle parti ed ineriscono ai compiti tipici dell’amministrazione.
È quindi compito proprio del Comune, e come tale non soggetto ad alcun impulso di parte, procedere autonomamente alla valutazione del progetto edilizio presentato dal punto di vista del rispetto dei regolamenti edilizi, non vertendosi in questo caso in nessuna situazione soggetta a disponibilità della parte privata.
Pertanto, se è certamente vero che l’azione amministrativa non può addentrarsi oltre i limiti indicati in sentenza nella valutazione degli assetti proprietari dell’immobile, è del pari vero che le questioni attinenti alla statica ed alla sicurezza dell’immobile non rientrano in questo ambito, dovendo essere invece oggetto di ponderazione autonoma ed ineludibile.
Sulla scorta di tale presupposto, fondato prima ancora che sulla lettura della legge dalle considerazioni in tema di completezza ed esaustività dell’istruttoria amministrativa, non può non notarsi come nel caso in specie tale azione sia mancata e il Comune di Termoli abbia rilasciato i titoli abilitativi impugnati non avendo in concreto riscontrato l’esistenza di un rischio per la staticità dell’immobile.
Infatti, dalla completa ricostruzione in fatto operata nel corso del giudizio di primo grado, anche tramite una verificazione ed una consulenza tecnica d’ufficio, ed in special modo dalla relazione del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche Campania – Molise, è emerso come effettivamente gli interventi autorizzati abbiano influito sulla rigidezza strutturale e sulla stabilità dell’intero complesso, e ciò in assenza di una completa valutazione di tali profili da parte del Comune di Termoli.
Si tratta quindi di un complesso di violazioni, di carattere non formale o procedurale, e quindi superabili con la successiva produzione documentale, ma riguardanti il contenuto stesso dell’intervento edilizio, che ben avrebbero dovuto condurre il Comune ad esaminare nel dettaglio i progetti presentati, senza arrestare la propria valutazione al solo dato proprietario.
Tali considerazioni spingono quindi all’accoglimento dei motivi di doglianza, con consequenziale annullamento dei due permessi di costruire impugnati in primo grado.”.
In conclusione, il mero deposito-progetto ex art. 93 del D.P.R. n. 380/2001, contenente i disegni esecutivi ed i calcoli dell’ingegnere libero professionista, non sono sufficienti per iniziare l’opera, in quanto, come ricordato dallo Stato nel ricorso alla Corte costituzionale n. 95 del 18/6/2012, “(…) solo l'intervento di un'Amministrazione pubblica, che vigila e controlla quanto rappresentato dai privati, può fornire idonee garanzie sull'effettiva tutela di interessi pubblici di fondamentale importanza quali la sicurezza (…)”.
Pertanto, le opere iniziate in zona sismica senza che l’ingegnere della P.A. abbia operato la positiva valutazione tecnica di quanto rappresentato dal professionista privato sono interamente abusive (ed incommerciabili).
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STATUIZIONI 1 e 3 della sentenza n. 182/2006 C.COST.
La Corte costituzionale implicitamente ricorda che la Legge n. 741/1981 riguardava solo la materia dell’edilizia pubblica (e non quella dell’edilizia privata) con conseguente illegittimità costituzionale delle leggi regionali che hanno esteso il regime della D.I.A. (deposito-progetto) anche alle opere private.
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STATUIZIONE 4 della sentenza n. 182/2006 C.COST.
La Corte costituzionale ha utilizzato come norma interposta la novella normativa dell’art. 19 della Legge n. 241/1990 (operata con D.L. n. 35/2005).
Ne consegue che la statuizione espressa di livello essenziale delle prestazioni alle disposizioni della D.I.A. (oggi S.C.I.A.) e del silenzio assenso (artt. 19 e 20 della Legge n. 241/1990 e ss.mm.ii.) ad opera dell’introdotto comma 2-ter all’art. 29 ha carattere meramente confermativo di requisiti già presenti in siffatte disposizioni.
Scritto il 11 settembre 2013
1 L’Autorità è preposta alla tutela di un “bene comune”, in questo caso la pubblica incolumità.
2 Sono i rapporti urbanistici ed i limiti edilizi fissati nel D.M. n. 1444/68.
Attraverso il D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “del Fare”), convertito dalla Legge n. 98/2013, il Ministro Maurizio LUPI – membro di “Comunione e Liberazione”, già consigliere comunale della DC a Milano durante il mandato di Formentini, nonché assessore allo sviluppo del territorio all’epoca della giunta Albertini (dati tratti da Wikipedia), oggi Ministro delle Infrastrutture nel Governo di Enrico LETTA (sostenuto, ad ora 10-9-2013, da PD-PDL) – fornisce alle Regioni le basi (poco) giuridiche per scardinare il sistema pianificatorio della Legge n. 1150/1942 su cui si è innestata la c.d. legge ponte.
Il c.d. decreto del Fare [innestandosi sui provvedimenti dell’ex Ministro Tremonti, candidato nelle liste del PSI alle politiche del 1987 in quanto vicino a Gianni De Michelis … chiamato nel secondo governo Berlusconi alla guida del neonato Ministero dell'Economia e delle Finanze (dati da Wikipedia)] amplia il raggio d’azione della Cassa Depositi e Prestiti al cui vertice siede Franco Bassanini [già membro, dal 1978 al 1981, del comitato centrale e della direzione del PSI, collaboratore alla redazione del progetto per l'alternativa di sinistra approvato dal Congresso socialista di Torino nel 1979. Esponente della sinistra socialista di Riccardo Lombardi e Claudio Signorile, ha diretto l'Ufficio legislativo del PSI dal 1977 al 1980. Nel 1981 fu espulso dal Partito Socialista per aver sottoscritto, con Enzo Enriquez Agnoletti, Tristano Codignola, Paolo Leon, Elio Veltri, Renato Ballardini ed altri, un "appello ai socialisti" fortemente critico nei confronti dell'allora gruppo dirigente del PSI, soprattutto per la gestione della vicenda P2, per il coinvolgimento di esponenti del partito in episodi di malaffare e per la forte riduzione degli spazi di dissenso democratico riconosciuti alle minoranze interne al partito. È stato così a capo di un'effimera Lega dei Socialisti, comprendente i socialisti espulsi. Alcuni dei suoi esponenti, tra i quali Bassanini, furono poi eletti come indipendenti nelle liste del PCI in occasione delle elezioni politiche del 1983. È stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nel 1979 e vi è rimasto ininterrottamente fino al 1996, per cinque legislature. Nel 1983 e nel 1987 vi è stato eletto come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, del quale peraltro non ha mai fatto parte. In questo lungo arco di tempo, ha presieduto, dal 1987 al 1990, il Comitato parlamentare per il controllo della politica monetaria e di bilancio; è stato vicepresidente e poi presidente del gruppo dei deputati della Sinistra Indipendente; ha fatto parte del Governo ombra costituito dall'opposizione nel biennio 1991-1992, come ministro dell'Interno, dei diritti civili, della informazione e della pubblica amministrazione. Nel 1996 e nel 2001 è stato eletto al Senato, sempre in quota PDS, nel collegio uninominale di Siena. È stato eletto per due volte nel Consiglio comunale di Milano e ha presieduto la Commissione consiliare per la redazione dello Statuto del Comune. Dal 1992 al 1996 ha fatto parte della Direzione nazionale e della Segreteria nazionale del Partito Democratico della Sinistra, come responsabile per lo Stato, le Regioni e le riforme istituzionali. Della Direzione nazionale dei Democratici di sinistra ha continuato a far parte fino al 2006. Dal 2007 al 2009 ha fatto parte della Direzione nazionale del Partito Democratico, nel quale si sono sciolti i Democratici di sinistra. (dati da Wikipedia)].
3 Notizie su Pietro Bucalossi, da Wikipedia:
Membro del Partito d'Azione, prese parte al secondo conflitto mondiale col grado di capitano medico fino al 1942. Durante la resistenza fece parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e del Corpo Volontari della Libertà. Il 26 luglio 1943 firmò con Antonio Banfi, Federico Brambilla e altri il manifesto che chiedeva l’immediata abolizione delle leggi razziali.
L’arresto di Mario Damiani, tradito dal falso generale Della Rovere, portò alla scoperta delle liste di un gruppo di componenti del CLNAI nel mirino del regime, fra cui Parri, Bucalossi, Monti, Amisano e altri, per cui dovette passare alla clandestinità, assumendo il nome di copertura di Guido. Nei convulsi giorni della caduta del fascismo il 30 aprile 1945 dopo l’autopsia di Mussolini il vice di Longo, Aldo Lampredi si presentò come il generale del CVL Pietro Bucalossi (Guido) ed impedì l’autopsia di Claretta Petacci.
Scioltosi il partito d’azione passò nel 1948 al Partito di Unità Socialista. Consigliere al comune di Milano dal 1951, fu eletto deputato al Parlamento nel 1948 con Unità Socialista e dal 1953 con il PSDI per tre legislature consecutive. Il 17 febbraio 1964 si dimise da deputato perché eletto sindaco di Milano, carica che gli venne riconfermata dopo le elezioni del novembre dello stesso anno.
La sua attività come sindaco è ricordata soprattutto per il particolare rigore economico, che portò dopo molti anni il bilancio comunale in pareggio, a costo tuttavia di contrasti anche all'interno del suo partito, a causa dei drastici tagli alle spese di rappresentanza ed alla sua contrarietà alla creazione dei cosiddetti parlamentini, da lui visti come un inutile proliferazione di cariche e, conseguentemente, di spese. Non va comunque dimenticato che, durante il suo mandato, vennero inaugurate a Milano importanti infrastrutture, fra cui spicca la linea 1 della metropolitana. L'unificazione tra PSI e PSDI, a cui era contrario, pose fine alla sua esperienza come sindaco il 17 dicembre 1967, quando si dimise.
Passato nelle file del PRI, ritrovò il mandato parlamentare nel 1968, venendo riconfermato nelle due legislature successive. Presidente di diverse commissioni, e vicepresidente della Camera dei deputati, è stato anche Ministro per la Ricerca Scientifica nel Governo Rumor IV e Ministro dei Lavori Pubblici nel Governo Moro IV; in queste ultime vesti, fu l'ispiratore della Legge 28 gennaio 1977 n. 10 sull'edificazione dei suoli che porta il suo nome.
Ancora una volta però la sua mentalità, spesso lontana dalle alchimie politiche, lo portò a forti contrasti con la dirigenza del suo partito; il culmine si ebbe nel 1977 quando, appellandosi alla propria coscienza, si espresse e votò contro la legge sull’aborto. Lasciato per questi contrasti il PRI, si presentò senza successo con il PLI alle elezioni del 1979 ed alle elezioni amministrative di Milano nel 1981 con una lista civica (che, tra i candidati, annoverava anche Umberto Bossi), ritirandosi quindi dalla vita pubblica.