Cass. Sez. VI n. 25296 del 1 luglio 2021 (UP 11 feb 2021)
Pres. Petruzzellis Rel. Costanzo Ric. Parte civ. in proc. Grisanti
Ambiente in genere.Accesso agli atti atti e interruzione di pubblico servizio

L'esercizio legittimo del diritto d'accesso previsto dalla L. n. 241 del 1990, art. 22 e ss., non integra, anche quando esercitato con plurime richieste, l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 340 c.p., se non è dimostrato il nesso di causalità fra le plurime richieste e il turbamento dell'attività del pubblico ufficio o servizio, nè l'elemento soggettivo, se non sia accertata la coscienza e volontà, anche nella forma del dolo eventuale, del privato di strumentalizzare il diritto d'accesso per turbare il regolare funzionamento delle attività contemplate dall'art. 340 c.p..

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 6690/2019 del 28/11/2019 la Corte di appello di Firenze, riformando la decisione del Tribunale di Firenze, ha assolto l'appellante Massimo Grisanti dal reato residuo ascrittogli ex artt. 81 e 340 c.p. - per avere turbato con condotte intimidatorie la regolarità dei servizi del Comune di Barberino Val d'Elsa con continue e immotivate richieste di accesso agli atti così da impegnare totalmente (dal luglio del 2011 al gennaio del 2014) i servizi tecnici e legali a copiare gli atti per rispondere ai quesiti da lui posti circa svariate pratiche edilizie - e ha conseguentemente revocato le statuizioni civili.

2. Nei ricorsi congiunti presentati dal difensore delle parti civili costituite Maurizio Semplici, Alberto Masoni e Comune di Barberino Tavernelle (già Comune di Barberino Val d'Elsa) si chiede l'annullamento della sentenza deducendo: a) vizio della motivazione per non essersi adeguatamente confrontata con le argomentazioni sviluppate nella sentenza di condanna ritenendo le richieste di Grisanti legittimamente avanzate; b) travisamento della prova nel ritenere che la difficoltà nel funzionamento dell'ufficio pubblico non fosse causato dalle richieste, dai toni anche intimidatori, di Grisanti in contrasto con quanto dichiarato dai testimoni (Masoni, Trentanovi, Semplici, Cassano, Agresti, Fontani); c) vizio della motivazione in ordine all'elemento oggettivo del reato nel limitarsi a rimarcare la sussistenza del diritto di accesso agli atti dell'imputato nell'attribuire a insufficienze dell'ufficio le difficoltà incontrate nell'evadere le richieste di Grisanti, trascurando la palese strumentalizzazione di facoltà procedurali previste dall'ordinamento (quali il diritto di accesso e il diritto di querela).

Va dato atto che l'istanza di trattazione orale del processo presentata dalle parti civili - alle quali, comunque, è stata trasmessa la requisitoria scritta della Procura generale - risulta tardiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Secondo l'imputazione, la condotta di Massimo Grisanti avrebbe turbato, mediante plurime richieste di accesso agli atti amministrativi formulate esercitando il diritto previsto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 22, la regolarità dei servizi del Comune di Barberino Val d'Elsa.

In questo contesto, non può trascurarsi che il diritto all'accesso ai documenti amministrativi (mediante esame o estrazione di copie) è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse e "attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza" (L. n. 241 del 1990, art. 22, comma 2).

Ne deriva che la pubblica amministrazione deve accertare la sussistenza di un motivato interesse alla richiesta e, in caso di accertamento positivo (da ritenersi implicito una volta che sia stato consentito l'accesso), ha l'obbligo di adottare le misure organizzative idonee a garantire l'esercizio del diritto previsto dalla norma.

Solo se sia accertato che la mancanza di un motivato interesse e le continue richieste di accesso e di copia dei più disparati documenti abbiano comportato alterazione nella regolarità dell'ufficio può configurarsi il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico ex art. 340 c.p., (Sez. 6, n. 13451 del 12/10/2000, Castagna, Rv. 217634), diversamente vale il principio secondo cui "l'esercizio di un diritto (...) esclude la punibilità" (art. 51 c.p., comma 1).

La L. n. 241 del 1990, art. 24, comma 1, prevede "Il diritto di accesso si esercita (...) nei modi e nei limiti indicati dalla presente legge" e che, in caso di diniego dell'accesso, il richiedente non esercita il suo diritto reiterando la richiesta ma presentando ricorso al tribunale ammnistrativo regionale (L. n. 241 del 1990, art. 24, commi 4 e 5).

In altri termini, presupposto necessario per configurare il reato ex art. 340 c.p., è che le richieste di accesso L. n. 241 del 1990, ex art. 22, non siano sorrette da alcun interesse o, pur sorrette da un interesse, siano esercitate sempre per gli stessi atti senza adire l'autorità competente a decidere, secondo le norme regolatrici della materia, sui dinieghi opposti.

2. Il Tribunale non ha negato la legittimità delle richieste di accesso avanzate da Grisanti ma ha ritenuto che l'imputato abbia volontariamente provocato un turbamento nella regolarità dei servizi del Comune con richieste caratterizzate da anomala frequenza e intensità, spesso senza effettiva motivazione, così compiendo un "abuso" nell'esercizio del diritto pur riconosciuto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 22.

Nella sentenza di primo grado sono indicate: la denuncia e le 16 segnalazioni presentate da Grisanti al Comune tra il 19 luglio e il 20 agosto 2011 (vicenda della Eternedil), in relazione alle quali il responsabile dell'area tecnica successivamente annullò d'ufficio la attestazioni di conformità della quale Grisanti  aveva denunciato l'illegittimità (p. 3-6); la denuncia presentata da Grisanti in relazione al piazzale di parcheggio in località Chiano, con accuse all'architetto Masoni (all'epoca responsabile dell'unità operativa e urbanistica del Comune) e le attività di indagine che ne seguirono, in relazione alle quali il Tribunale amministrativo regionale "disattese un parere espresso dall'architetto (pp.6-7). Inoltre, si rileva (p.7) che aspetti simili a quelli che hanno caratterizzato le due vicende ricordate "si rinvengono nella vicenda ATOP e nella pratica  La Torricella", delle quali, però nulla si riporta circa le specifiche condotte dell'imputato e i loro effetti sull'andamento dei servizi comunali Inoltre, la sentenza di primo grado contiene anche una digressione sul concetto di "abuso di diritto" (pp. 8-11) e opina che esso possa applicarsi nel diritto penale come limite alla causa di giustificazione dell'esercizio del diritto prevista dall'art. 51 c.p..

Conclude ritenendo che vi sia stato un "turbamento" dell'attività dell'ufficio perchè alcuni testi hanno ricordato difficoltà materiali a rispondere alle istanze di altri utenti (sino a chiudere l'ufficio per valutare come rispondere a Grisanti) e che la complessità delle questioni provocò uno stato d'ansia nei dipendenti del Comune (pp.11-12). Assume - senza chiarire su quali basi - che il vero scopo di Grisanti fosse di tipo ostruzionistico, ma non precisa rispetto a che cosa.

Per altro verso, il Tribunale ha assolto l'imputato dal reato di calunnia continuata (capo B), ritenendo non provato l'elemento soggettivo del reato e dando atto della dovizia di particolari contenuti nelle sue 38 denunce penali (non riguardanti le vicende oggetto delle condotte di cui al capo A).

3. Il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado ha l'obbligo di fornire, con una motivazione puntuale e adeguata, una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata.

Il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio vale nel caso della pronuncia di una sentenza di condanna ex art. 533 c.p.p., mentre dall'art. 530 c.p.p., che disciplina la decisione assolutoria, emerge un criterio di giudizio opposto: è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non - invece - l'assoluzione, possibile anche ex art. 530 c.p.p., comma 2. Ne deriva, che - mentre quando riforma la sentenza di assoluzione, il giudice d'appello deve argomentare circa la ricostruzione che approva la ipotesi accusatoria come l'unica al di là di ogni ragionevole dubbio - nel caso di riforma della sentenza di condanna il giudice d'appello può limitarsi a giustificare ricostruzioni alternative del fatto che siano plausibili e ancorate alle risultanze processuali, confutando in modo specifico e completo i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza e dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229).

Nel caso in esame, la Corte di appello ha rilevato (p. 8) che dai contenuti delle testimonianze acquisite si ricava che: a) l'imputato (che agì rappresentando soggetti che avevano interessi specifici in relazione alle situazioni oggetto delle istanze e che esercitavano il diritto riconosciuto dalla L. n. 241 del 1990, art. 22) si è sempre comportato educatamente, ha rispettato i protocolli - senza pretendere trattamenti di favore o risposte prima dello scadere dei termini fissati dalla legge - e non ha formulato istanze pretestuose o richiesto atti inesistenti; b) l'ufficio comunale non è mai stato costretto a chiudere a causa della condotta di Grisanti, nè, in conseguenza dei colloqui fra gli impiegati e l'imputato si sono mai formate code tali da congestionare l'uffici impedendone il normale funzionamento.

Inoltre, ha osservato che non è provato che il difficoltoso funzionamento dell'ufficio sia stato causato dalle istanze di Grisanti e ha considerato che le attività che ne sono derivate non possono ritenersi un "turbamento" dell'ufficio o del servizio solo per i loro contenuti complessi, perchè non possono attribuirsi a responsabilità dell'utente le eventuali problematiche di organico altre difficoltà dell'ufficio a provvede nei tempi richiesti (pp. 8-9).

La valutazione della Corte di appello risulta corretta perchè la mancata o insoddisfacente organizzazione dell'attività di un servizio pubblico non può condurre a configurare l'elemento oggettivo del reato ex art. 340 c.p. perchè la norma sanziona esclusivamente la volontaria alterazione, anche temporanea, del funzionamento di tale servizio, incidente sulla sua complessiva regolarità (Sez. 6, n. 4908 del 06/11/2018, dep. 2019, Gallucci, Rv. 274933). In altri termini, occorre che sia dimostrata che il privato fosse consapevole che il proprio comportamento potesse determinare l'interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando il relativo rischio (Sez. 6, n. 39219 del 09/04/2013, Trippitelli, Rv. 257081; Sez. 6, n. 8996 del 11/02/2010, Notarpietro, Rv. 246411).

4. Costituisce interruzione di ufficio o di pubblico servizio ogni condotta che determini una qualunque temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell'ufficio o del servizio, anche se coinvolgente un settore e non la totalità delle attività (Sez. 6, n. 1334 del 12/12/2018, dep. 2019, Carannante, Rv. 274836; Sez. 5, n. 1913 del 16/10/2017, dep. 2018, Andriulo, Rv. 272321; Sez. 6, n. 19676 del 16/04/2014, Musolino, Rv. 259768), il che particolarmente vale quando il settore si inserisce in un ufficio di non grandi dimensioni (Sez. 6 n. 6412 del 2 febbraio 2016, Caminiti, non mass.). Tuttavia, il reato ex art. 340 c.p., non è configurabile se il servizio pubblico nel suo complesso continua a funzionare regolarmente adempiendo allo scopo per il quale è stato predisposto (Sez. 6, n. 9422 del 17/02/2016, non mass.).

Vale il principio di diritto secondo cui l'esercizio legittimo del diritto d'accesso previsto dalla L. n. 241 del 1990, art. 22 e ss., non integra, anche quando esercitato con plurime richieste, l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 340 c.p., se non è dimostrato il nesso di causalità fra le plurime richieste e il turbamento dell'attività del pubblico ufficio o servizio, nè l'elemento soggettivo, se non sia accertata la coscienza e volontà, anche nella forma del dolo eventuale, del privato di strumentalizzare il diritto d'accesso per turbare il regolare funzionamento delle attività contemplate dall'art. 340 c.p..

Invece, il Tribunale ha erroneamente confuso il turbamento psicologico degli impiegati di un ufficio pubblico derivante dalla difficoltà, magari incolpevole, a fronteggiare le richieste di un utente, con l'oggettivo turbamento della regolarità del servizio causato da una volontaria alterazione, anche temporanea, del funzionamento di tale servizio, incidente sulla sua complessiva attività (Sez. 6, n. 4908 del 06/11/2018, dep. 2019, Gallucci, Rv. 274933).

Su queste basi, i ricorsi risultano infondati e dal loro rigetto deriva la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2021.