Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19249 del 04/05/2006 Ud. (dep. 01/06/2006 ) Rv. 234336
Presidente: Papa E. Estensore: Lombardi AM. Relatore: Lombardi AM. Imputato: Iacca. P.M. Favalli M. (Conf.)
(Rigetta, App. Taranto, 7 aprile 2005)
PATRIMONIO ARCHEOLOGICO, STORICO O ARTISTICO NAZIONALE (COSE D'ANTICHITÀ E D'ARTE) - IN GENERE - Contraffazione di opere d'arte - Reato di cui all'art. 178 del D. Lgs. n. 42 del 2004 - Condizioni di esclusione - Individuazione.

In tema di contraffazione di opere d'arte, punita dall'art. 127 del D.Lgs. n. 490 del 1999, ora sostituito dall'art. 178 del D.Lgs. n. 42 del 2004, le modalità con le quali deve essere resa nota ai terzi la non autenticità dell'opera non sono rimesse alla discrezionalità del produttore o del venditore, ma deve essere effettuata mediante annotazione scritta sul manufatto, se possibile tecnicamente, e comunque la pubblicizzazione di ciò deve essere effettuata già all'atto dell'esposizione dell'oggetto, ove questa preceda la vendita.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. PAPA Enrico - Presidente - del 04/05/2006
Dott. TARDINO Vincenzo - Consigliere - SENTENZA
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - N. 792
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere - N. 34539/2005
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Avv. IMPERIO Michele, difensore di fiducia di LACCA Demetrio, n. a Roccaforzata il 09/01/1931, e di LACCA Pasquale, n. a Roccaforzata il 18/02/1933;
avverso la sentenza in data 07/04/2005 della Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con la quale, a conferma di quella del Tribunale di Taranto in data 08/04/2003, vennero condannati alla pena di mesi tre di reclusione e Euro 200,00 di multa ciascuno, quali colpevoli del reato di cui al D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 127, comma 1, lett. b), così qualificato il fatto di cui al capo b) dell'originaria imputazione.
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in Pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Alfredo Maria Lombardi;
Udito il P.M., in persona del Sost. Procuratore Generale Dott. FAVALLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore, Avv. Michele Imperio, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. In subordine dichiararsi la prescrizione del reato.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha confermato la pronuncia di colpevolezza di Lacca Demetrio e Lacca Pasquale in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 127, comma 1, lett. b), così qualificato il fatto di cui al capo b) della originaria imputazione, loro ascritto per avere detenuto per il commercio reperti archeologici contraffatti.
La sentenza, nel rigettare i corrispondenti motivi di gravame, ha affermato che vi è piena continuità normativa tra l'ipotesi delittuosa di cui alla affermazione di colpevolezza degli imputati e quella di cui alla L. n. 1062 del 1971, art. 3, essendo stato trasfuso integralmente nel testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali il contenuto delle norme vigenti all'epoca del fatto, tra cui anche l'esimente di cui al L. n. 1062 del 1971, art. 8; che, tuttavia, nella specie non sussistono le condizioni per l'applicazione della esimente prevista da detto articolo, non essendo stata apposta dagli imputati sui reperti archeologici contraffatti l'attestazione della loro non originalità, a nulla rilevando l'assunto degli appellanti, secondo i quali nella successiva fase di commercializzazione dei manufatti veniva indicato nelle fatture che si trattava di riproduzioni, o la dedotta riconoscibilità della natura non originale per le loro caratteristiche o le modalità di esposizione per la vendita. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, che la denuncia per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, nonché per violazione ed errata interpretazione del D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 127, comma 1, lett. b), e art. 128. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con unico motivo di impugnazione i ricorrenti deducono che, ai sensi delle disposizioni citate, il commerciante di oggetti antichi ha l'obbligo di informare i clienti della non autenticità delle opere esposte in vendita, sempre che non sussistano condizioni particolari per cui l'acquirente possa rendersi conto immediatamente della natura del manufatto; che, inoltre, il legislatore non specifica i casi nei quali non sia possibile annotare per iscritto sul manufatto la mancanza di originalità, sicché le relative determinazioni sono rimesse alla discrezionalità del commerciante, la cui decisione in proposito non può essere censurata con valutazione ex post da parte del giudice di merito. Si osserva, quindi, che l'informazione circa la non autenticità dei reperti veniva fornita agli acquirenti all'atto della vendita mediante annotazione nelle fatture rilasciate e, peraltro, tale specificazione doveva ritenersi del tutto superflua, operando notoriamente i fratelli Lacca nell'ambito di una consolidata tradizione di ceramisti dediti alla vendita di manufatti riprodotti dell'era ellenistica, nonché per le stesse modalità della commercializzazione effettuata mediante esposizione per la vendita in un esercizio pubblico.
Con motivi nuovi, di cui alla memoria depositata in data 06/04/2006, i ricorrenti hanno altresì dedotto ulteriormente la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 127, comma 1, lett. b). Si deduce sul punto che i giudici di merito hanno erroneamente affermato che vi è piena continuità normativa tra la disposizione citata e quella di cui alla L. n. 1062 del 1971, art. 3, in quanto la norma abrogata richiedeva il fine specifico di trarre illecito profitto dalla commercializzazione di reperti archeologici contraffatti, mentre ai sensi della disposizione attualmente vigente è sufficiente il generico fine di lucro; che, pertanto, i giudici di merito hanno illegittimamente applicato al fatto ascritto agli imputati una norma non ancora vigente all'epoca della sua commissione, essendo stato riconosciuto in sentenza che i fratelli Lacca lucravano dalla vendita dei reperti solo il vantaggio economico derivante dal loro valore reale.
Si denuncia inoltre nei motivi aggiunti la illogicità della motivazione nella valutazione della prova, deducendosi che la Corte territoriale non ha ammesso la produzione di nuove prove in appello, in base al rilievo che la documentazione esibita già risultava acquisita agli atti del dibattimento, senza tener conto del fatto che in base alla documentazione in atti il giudice di primo grado aveva tratto il convincimento della colpevolezza degli imputati anche dal rilievo che gli stessi erano privi di qualsivoglia autorizzazione alla vendita, mentre dalla ulteriore documentazione che sì richiedeva di produrre emergeva la prova della assoluta regolarità e legalità dell'attività artigianale e commerciale esercitata dagli imputati.
Si deduce inoltre, sempre sotto il citato profilo del vizio di motivazione nella valutazione della prova, l'errata valutazione del fatto che i reperti archeologici venivano sottoposti ad un processo di invecchiamento, non essendo deducibile dallo stesso l'intento di attribuire carattere autentico ai manufatti esposti in vendita, considerata la notorietà del divieto assoluto di commercializzazione di questi ultimi. Il ricorso non è fondato.
Osserva preliminarmente la Corte che tuttora non si è verificata la prescrizione del reato ascritto agli imputati, essendo stato sospeso il decorso del relativo termine, ai sensi dell'art. 159 c.p., comma 1, in conseguenza del rinvio del dibattimento disposto ai sensi della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10, comma 5, per consentire agli imputati di esercitare la facoltà prevista dalla predetta disposizione di presentare motivi nuovi ai sensi dell'art. 8 della medesima legge. Il primo motivo di ricorso è infondato. Ai sensi della L. n. 1062 del 1971, art. 8, comma 1, riprodotto con identica formulazione nel D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 128 ed attualmente nel D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 179, costituisce causa di esclusione della fattispecie criminosa di cui alla contestazione la dichiarazione espressa della non autenticità dell'opera, che deve essere effettuata all'atto della esposizione o della vendita "mediante annotazione scritta sull'opera o sull'oggetto o, quando ciò non sia possibile per la natura e le dimensioni della copia o della imitazione, mediante dichiarazione rilasciata all'atto della esposizione o della vendita".
In base alla disposizione citata, pertanto, la scelta circa le modalità con le quali deve essere resa nota ai terzi la non autenticità dell'opera o del reperto non è affatto rimessa alla discrezionalità del produttore o del venditore, ma deve essere sempre effettuata mediante annotazione scritta sul manufatto a meno che ciò non sia reso impossibile dalla natura o dalle dimensioni dello stesso e, peraltro, in ogni caso detta pubblicizzazione deve essere effettuata all'atto della esposizione, se quest'ultima precede la vendita (cfr. sez. 3^, 200348695, Viglietta, riv. 226867; conf. sez. 3^, 200004084, Ginori, riv. 216161), sicché le deduzioni difensive dei ricorrenti relative alla circostanza di una successiva indicazione della non autenticità dei manufatti sono inconferenti, essendo stato accertato che i reperti contraffatti erano detenuti per la vendita senza alcuna indicazione che ne attestasse la non autenticità.
Inoltre, secondo la più recente, ma prevalente, giurisprudenza di questa Suprema Corte in materia "Il reato di cui alla L. 20 novembre 1971, n. 1062, art. 3 è plurioffensivo, essendo oggetto di tutela penale non solo il mercato delle opere d'arte, ma anche il patrimonio artistico e la pubblica fede. Dal che consegue la irrilevanza della riconoscibilità del falso, da parte del medio collezionista, quando può essere tratta in inganno la generalità dei terzi" (sez. 3^, 200004084, Ginori, riv. 216160; sez. 3^, 199511253, Bevilacqua, riv. 204202).
Trattasi, invero, di una fattispecie criminosa a consumazione anticipata rispetto alla analoga ipotesi della frode in commercio, configurata dal legislatore proprio in considerazione del duplice interesse che le disposizioni dettate in materia sono destinate a perseguire e, cioè, oltre a tutelare l'acquirente da possibili frodi, soprattutto il mercato delle opere d'arte dal pericolo di inquinamenti ed impedire che lo stesso patrimonio artistico e culturale siano compromessi dalla presenza e circolazione di falsi. Si palesano, pertanto, irrilevanti, al fine di escludere il reato, le ulteriori deduzioni dei ricorrenti in ordine alla notorietà della attività posta in essere di produzione e vendita di copie antichizzate di reperti archeologici ed alla riconoscibilità della loro non autenticità per le stesso modalità della vendita di cui al motivo originario ed all'ultimo motivo aggiunto di ricorso. Anche la ulteriore questione di diritto dedotta con il secondo motivo aggiunto è infondata. È stato affermato da una recente pronuncia di questa Corte, citata dai ricorrenti, che "L'ipotesi di reato di cui al D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 127, contraffazione di opere d'arte nelle diverse fattispecie di cui al comma 1, si pone in continuità normativa con la previgente disposizione di cui alla L. 20 novembre 1971, n. 1082, art. 3, atteso che trattasi dello stesso precetto, con eguale sanzione, con l'unica differenza che non si richiede più che il fine di trame profitto debba essere illecito, essendo sufficiente che il fatto sia stato commesso per trame comunque un profitto." (sez. 3^, 200348695, Viglietta, riv. 226866). La modificazione normativa esaminata dalla riportata pronuncia, però, deve essere riferita esclusivamente all'ipotesi di cui alla L. n. 1062 del 1971, art. 3, comma 1, che sanziona la contraffazione, alterazione o riproduzione di "un'opera di pittura, scultura o grafica, od un oggetto di interesse storico o archeologico", ipotesi attualmente prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 178, comma 1, lett. a), e non alla fattispecie di cui al comma 2 dello stesso articolo, che sanziona la commercializzazione o la detenzione per il commercio dell'esemplare contraffatto alterato o riprodotto, fattispecie in relazione alla quale non è richiesto dal legislatore il fine specifico di lucro, in quanto proprio della condotta materiale, connotandosi, peraltro, detto fine per la illiceità, in quanto diretto alla vendita dell'aliud pro alio, in assenza della pubblicizzazione della non autenticità dell'opera prescritta dalla norma.
Tale fattispecie criminosa è stata, invece, testualmente trasfusa nel D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 127, comma 1, lett. b) ed attualmente nel D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 178, comma 1, lett. b) (codice dei beni culturali e del paesaggio).
Orbene, poiché agli imputati è stata contestata l'ipotesi criminosa della detenzione per la vendita di reperti archeologici contraffatti, esattamente qualificata all'epoca della pronuncia di primo grado, quale violazione di cui al D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 127, comma 1, lett. b), sussiste piena continuità normativa tra le due ipotesi criminose, così come affermato dai giudici della Corte territoriale nella sentenza impugnata.
Nel resto, infine, i motivi aggiunti sono manifestamente infondati. Del quarto, infatti è stata già affermata la irrilevanza alla luce degli enunciati principi di diritto, mentre il terzo è inconferente, in quanto l'affermazione della colpevolezza degli imputati non si palesa affatto fondata sulla assenza delle autorizzazioni alla commercializzazione dei reperti contraffatti.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. al rigetto dell'impugnazione segue a carico dei ricorrenti l'onere del pagamento delle spese processuali. P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 4 maggio 2006. Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2006