Cass. Sez. III n. 38495 del 10 ottobre 2007 (Ud. 25 set. 2007)
Pres. Lupo Est. Squassoni Ric. Castelnuovo ed altri
Rifiuti. Materie prime secondarie

La categoria delle materie prime secondarie è stata introdotta dal D.Lv. 152-2006 al fine di escludere dalla disciplina dei rifiuti quelle sostanze che, fino dalla origine o dopo adeguate operazioni, presentano specifiche caratteristiche tecniche, fissate con decreto ministeriale, e sono idonee ad essere usate in un processo produttivo industriale o ad essere commercializzate.
La definizione non è applicabile in caso di rifiuti non destinati ad essere trasformati e reimpiegati dal momento che i detentori se ne sono disfatti mediante l'abbandono.
Anche le m.p.s. sono soggette alla normativa sulla gestione dei rifiuti sino al loro recupero completo (coincidente con il momento in cui non occorrono ulteriori trasformazioni per il successivo uso)

Motivi della decisione

Con sentenza 22 marzo 2005, il Tribunale di Como ha ritenuto Castelnuovo Claudio Salvatore, Castelnuovo Roberto e Castagna Carla responsabili dei reati previsti dagli artt. 163 D.L.vo 490/1999, 734 cp (per avere eseguito un intervento non autorizzato, accumulo di rifiuti non pericolosi, in zona protetta alterando la bellezza del luogo) e dall’art. 50 c. 2 D.L.vo 22/1997 (per non avere ottemperato alla ordinanza sindacale 29 maggio 2002 che intimava rimozione dei rifiuti).

In parziale riforma della decisione del primo Giudice, la Corte di Appello di Milano, con sentenza 6 luglio 2006, ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 734 cp ed ha rideterminato la pena.

Per giungere a tale conclusione, i Giudici hanno disatteso la prospettazione della difesa sulla applicabilità della legge sul condono (non essendo stati contestati reati edilizi), sulla non qualità di rifiuto del materiale (trattandosi di oggetti di scarto in parte riutilizzabili previa estrazione dei metalli) e sulla non configurabilità delle contravvenzioni; in tale modo, hanno superato la tesi della difesa secondo la quale la statuizione di condanna era incompatibile con l’assenza di una discarica abusiva e di un reato edilizio.

Per l’annullamento della sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo difetto di motivazione e violazione di legge, in particolare, rilevando:

- che gli oggetti rinvenuti non sono qualificabili come rifiuti in quanto trattasi di rottami ferrosi e scarti di lavorazione da considerarsi materie prime secondarie;

- che non si è realizzata una discarica né una opera edilizia né una modifica dello ambiente per cui il reato previsto dal D.L.vo 490/1999 non è configurabile;

- che il vincolo paesaggistico non esisteva perché la zona era edificata e priva di bellezze naturali;

- che il reato ambientale è ipotizzabile solo a seguito di abuso edilizio per cui i Giudici avrebbero dovuto sospendere il processo per condono;

- che l’ordinanza sindacale era illegittima: inoltre, il provvedimento è stato rispettato dal momento che imponeva la eliminazione dei rifiuti e non delle materie prime;

- che la Corte non ha considerato come il ripristino ambientale avvenuto prima della sentenza di condanna configurasse una causa estintiva del reato.

Le censure dei ricorrenti non sono fondate.

Deve, innanzi tutto, precisarsi come i Giudici di merito (con motivato accertamento fattuale che non può essere messo in discussione in questa sede) abbiano concluso che in un sito soggetto a vincolo ambientale (a sensi del DM 6 aprile 1973 emanato in attuazione della L.1497/1939) giacessero oggetti di vario tipo destinati allo abbandono (costituiti da cappe, lavelli, collettori di veicoli a motore, radiatori ed altro).

Tale materiale - passibile di limitato riutilizzo previa estrazione delle materie ferrose - deve essere qualificato rifiuto e la conclusione della Corte territoriale non è meritevole di censure.

Non può essere invocata la previsione dell’art. 14 D.L. 138/2002 conv. L. 178/2002, vigente all’epoca dei fatti, che fornisce una interpretazione autentica della nozione di rifiuto; ciò per la decisiva ragione (che supera la vexata quaestio del contrasto della norma con le direttive comunitarie) che il materiale doveva essere sottoposto prima dello eventuale (e non certo nella ipotesi in esame) riuso, ad una delle operazioni di recupero previste dallo allegato C del D.L.vo 22/1997.

Né potrebbe venire in rilievo la categoria di materia prima secondaria, che è stata introdotta dal D.L.vo 152/2006 al fine di escludere dalla disciplina dei rifiuti quelle sostanze che, fino dalla origine o dopo adeguate operazioni, presentano specifiche caratteristiche tecniche fissate con decreto ministeriale, e sono idonee ad essere usate in un processo produttivo industriale o ad essere commercializzate. Invero i rifiuti non erano destinati ad essere trasformati e riempiegati dal momento che i detentori se ne erano disfatti mediante l’abbandono; inoltre, anche le materie in esame sono soggette alla normativa sulla gestione dei rifiuti sino alloro recupero completo (coincidente con il momento in cui non occorrono ulteriori trasformazioni per il successivo uso) che è carente nel caso che ci occupa.

La circostanza che la giacenza dei rifiuti - per l’entità del materiale e la permanenza temporale dell’accumulo - non integrasse l’ipotesi di una discarica abusiva non ha influenza alcuna sulla configurabilità del reato ambientale.

Per raggiungere il risultato di un equilibrato sviluppo degli interventi su territori vincolati, l’art. 163 D.L.vo 490/1999 (ora art. 181 TU 157/2006) stabilisce che le modifiche su di essi si svolgano secondo linee preordinate dalla autorità amministrativa; il reato si realizza con l’impedimento del preventivo controllo che, secondo la comune esperienza, pone in pericolo il paesaggio che è il bene giuridico tutelato in via mediata.

Di conseguenza, integra la fattispecie di reato ogni modifica del territorio posta in essere senza la necessaria autorizzazione della autorità preposta alla tutela del vincolo; pertanto, è priva di consistenza giuridica l’assunto dei ricorrenti secondo i quali solo con la costruzione di opere edilizie possa perfezionarsi l’illecito de quo.

Il reato si configura con ogni intervento idoneo ad incidere, modificandolo, sullo originario assetto del territorio vincolato e, quindi, anche con la realizzazione di un deposito incontrollato di rifiuti (Conf. Cass. Sezione 3 sentenza 43955/2004).

Tuttavia la condotta, per il principio di necessaria lesività sotteso ad ogni tipo di illecito, deve essere idonea a porre in pericolo l’interesse protetto; si deve escludere dal novero degli interventi penalmente sanzionati quelli che si prospettano, pur in astratto, inidonei a compromettere o alterare il paesaggio.

Tale non è il caso concreto ove l’accumulo non autorizzato di rifiuti era di notevole entità e consistenza sì da deturpare la bellezza naturale del luogo come dimostra l’esistenza del reato previsto dall’art.734 cp (pur dichiarato estinto per prescrizione).

L’area su cui giacevano i rifiuti è stata bonificata nel settembre 2004 come risulta dal testo del provvedimento impugnato (e, sul punto, i ricorrenti non hanno formulato censure); di conseguenza, il ripristino ambientale, avvenuto dopo la sentenza di condanna del Tribunale, non integra la speciale scriminante prevista dall’art. 181 c. 1 bis D.L.vo 42/2004 (introdotto con la L. 308/2004).

Dal momento che nessun intervento di natura edilizia è stato contestato agli imputati, tutte le deduzioni sulla applicabilità del condono, e sulla necessaria sospensione del processo, sono inconferenti come già hanno correttamente evidenziato dai Giudici di merito.

Per quanto concerne il reato previsto dall’art.50 c. 2 D.L.vo 22/1997, l’ordinanza sindacale intimava agli imputati la rimozione dei rifiuti (tale era da considerarsi il materiale accumulato per quanto su precisato), giacenti su di un sito di loro proprietà, individuandoli quali responsabili dello abbandono.

Competeva ai soggetti interessati, al fine di evitare di rendersi responsabili della inottemperanza all’ordine, di ricorrere in via amministrativa per l’annullamento del provvedimento sindacale o di dimostrare in sede penale l’assenza delle necessarie condizioni soggettive al fine di determinare la disapplicazione dell’atto da parte del Giudice ordinario; nulla di ciò è stato fatto dai ricorrenti.

Onere della accusa era solo quello dì provare l’esistenza della ordinanza del Sindaco, assistita da presunzione di legittimità, e l’inottemperanza dei suoi destinatari (Cass. Sezione 3 sentenza 31/03/2002).