Cass. Sez. III n. 32478 del 16 luglio 2018 (Ud 29 mar 2018)
Pres. Di Nicola Est. Zunica Ric. Dilena
Urbanistica.Responsabilità assuntore dei lavori

L’esecutore dei lavori edilizi ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l’accertamento negativo, e a titolo di colpa, nell’ipotesi in cui tale accertamento venga omesso, dovendosi ribadire che, trattandosi di una fattispecie contravvenzionale, l’elemento soggettivo può essere integrato anche dalla colpa, nei termini appena indicati.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8 marzo 2017, la Corte di appello di Genova  confermava la sentenza del Tribunale di Savona del 18 febbraio 2016, con la quale Vincenzo Dilena e Ahmed Ibnaiche erano stati condannati alla pena di giorni 20 di arresto ed € 12.000 di ammenda ciascuno, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, in ordine al reato ex art. 44 lett. B) del d.P.R. 380/2001, per avere realizzato, quali soci della Delta Costruzioni s.n.c., in concorso con il committente e il direttore dei lavori, per cui si è proceduto separatamente, un box auto assentito come interrato ma in realtà fuori terra e più alto di quanto previsto e, all’interno del box, un locale di forma irregolare e della superficie di circa 3 mq., piastrellato fino all’altezza di 2 mt., propedeutico, unitamente alla maggiore altezza del locale e alla presenza della finestra sulla facciata principale, a un cambio di destinazione d’uso del box in abitativo, fatti accertati in Andora l’11 luglio 2012, con lavori ancora da ultimare.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello ligure, Vincenzo Dilena e Ahmed Ibnaiche, tramite il loro comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi, tra loro coincidenti.
Con il primo, la difesa contesta la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e la violazione dell’art. 42 cod. pen. con riferimento al giudizio sulla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo ai ricorrenti; si rileva in proposito che il titolo edilizio (d.i.a. n. 2506 del 23 dicembre 2008) era stato rilasciato in favore dei proprietari, per cui i ricorrenti, nella loro veste di costruttori, sarebbero stati accomunati in modo indebito al direttore dei lavori, nonostante fossero ben diverse le rispettive competenze tecniche.
Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, maturata prima della sentenza impugnata.
Si osserva in proposito che la società Delta Costruzioni ha cessato la propria attività a fine estate del 2011, per cui era da quel momento che avrebbe dovuto iniziare a decorrere il termine di prescrizione, con la conseguenza che, alla data della sentenza di secondo grado (marzo 2017), il reato era già prescritto.
Sul punto la difesa lamenta che, a fronte di una specifica richiesta in sede di discussione in appello, non vi è stata alcuna risposta da parte della Corte.
Con il terzo motivo, infine, viene censurata la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., evidenziandosi che l’unica attività accertata in violazione delle norme edilizie era la realizzazione di un vano interno del box, con altezza interna maggiore di 2 cm., mentre le ulteriori opere addebitate dalla Corte di appello o non erano contestate, come la sopraelevazione del box, o non erano imputabili ai ricorrenti, come la creazione del bagno o la realizzazione della finestra.
CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza.
      1. Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che le due conformi sentenze di merito hanno ricostruito i fatti di causa in maniera puntuale e coerente con le risultanze probatorie raccolte, avendo in particolare la Corte territoriale rilevato che la realizzazione delle opere abusive era riferibile anche all’attività edilizia della società gestita dagli imputati, i quali avevano posto in essere la struttura portante della costruzione, edificando, in cemento armato, lo scheletro dell’opera abusiva, fuori terra e con dimensioni maggiori di quelle assentite, a nulla rilevando quindi che, per effetto di successivi avvicendamenti nel cantiere, i lavori siano stati poi proseguiti da altre imprese.
Le censure difensive circa l’estensione ai ricorrenti del giudizio di responsabilità per gli abusi edilizi posti in essere con il concorso del proprietario committente e del direttore dei lavori appaiono in tal senso manifestamente infondate, posto che l’ascrivibilità della condotta illecita anche ai soci dell’impresa incaricata dell’esecuzione dei lavori è avvenuta alla luce del consolidato indirizzo ermeneutico di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Rv. 263474), in forza del quale l’esecutore dei lavori edilizi ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l’accertamento negativo, e a titolo di colpa, nell’ipotesi in cui tale accertamento venga omesso, dovendosi ribadire che, trattandosi di una fattispecie contravvenzionale, l’elemento soggettivo può essere integrato anche dalla colpa, nei termini appena indicati.
I giudici di merito hanno applicato correttamente al caso di specie i canoni interpretativi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità dei costruttori per gli illeciti edilizi, evidenziando che gli imputati, nell’eseguire i lavori, avevano il dovere di verificare compiutamente e preventivamente l’originario titolo abilitativo rilasciato in favore del proprietario, non avendo alcuna efficacia scriminante il fatto di essersi limitati a seguire acriticamente le indicazioni del progettista, per cui, quantomeno a titolo di colpa, l’affermazione di colpevolezza (anche) dei ricorrenti risulta immune da censure.
2. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo.
Ed invero, premesso che la sentenza della Corte di appello risale all’8 marzo 2017 e che la data di accertamento dei fatti è quella dell’11 luglio 2012, data in cui i lavori non erano stati ultimati, deve rilevarsi che, al momento dell’emissione della sentenza impugnata, il termine di prescrizione massima della fattispecie contravvenzionale contestata, pari a cinque anni, non era ancora decorso.
La tesi difensiva, volta a retrodatare alla fine dell’estate del 2011 l’epoca di conclusione dei lavori riconducibili alla Delta Costruzione, è rimasta meramente assertiva, scontando sul punto i ricorsi chiari limiti di autosufficienza, dovendosi peraltro rilevare che la questione della retrodatazione dell’epoca di commissione dei fatti non è stata sollevata dagli imputati nel giudizio di appello.
Al riguardo deve quindi richiamarsi la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez.  4, n. 47744 del 10/09/2015, Rv. 265330), secondo cui il ricorrente che invochi nel giudizio di cassazione la prescrizione del reato, assumendo per la prima volta in questa sede che la data di consumazione è antecedente rispetto a quella contestata, ha l’onere di riscontrare le sue affermazioni fornendo elementi incontrovertibili, idonei da soli a confermare che il reato è stato consumato in data anteriore a quella contestata, e non smentiti né smentibili da altri elementi di prova acquisiti al processo, il che non può dirsi avvenuto nel caso di specie.
3. Venendo infine al terzo motivo, deve parimenti ritenersi che la sentenza impugnata non presenti vizi censurabili in questa sede.
Ed invero, nell’escludere la configurabilità dell’ipotesi di particolare tenuità del fatto, i giudici di merito hanno rimarcato sia la pluralità e la significativa entità delle violazioni edilizie accertate, sia l’elevato grado di colpa degli imputati, la cui attività professionale imponeva di verificare con attenzione il rispetto della disciplina urbanistica; tale valutazione, in quanto fondata su argomenti logici, resiste alle obiezioni difensive, concretizzatesi in questa sede in considerazioni soprattutto fattuali, peraltro rimaste prive di adeguata dimostrazione.
4. In definitiva, stante la manifesta infondatezza delle doglianze proposte, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Tenuto poi conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 2.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 29/03/2018