CHE SIA PROPRIO COSI’ ? Il Consiglio di Stato vuole salvare i propri pareri e preservare la Pubblica Amministrazione da risarcimento dei danni (nota a margine della sentenza n. 15/2011 del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria in merito alla natura della D.I.A. con statuizioni valevoli anche per la S.C.I.A.)

di MASSIMO GRISANTI

 

Il Consiglio di Stato – con la sentenza n. 15/2011, est. Caringella, pronunciata in Adunanza Plenaria – si pronuncia sulla natura della D.I.A., con principi valevoli anche per la S.C.I.A.

 

Il Supremo Consesso aderisce, così, a quanto esposto dal Dott. Guido Greco nel suo saggio intitolato “La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell'Adunanza Plenaria: ma perché, dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento, non si può prendere in considerazione anche il silenzio diniego?” pubblicato il 2.3.2011 sul n. 3/2011 della rivista giuridica Giustizia Amministrativa (www.giustamm.it).

 

La decisione, a mio giudizio, non è convincente per i seguenti motivi.

 

L’analisi risente oltremodo della necessità di far salvo il parere n. 7 reso dal Consiglio di Stato in data 19/2/1989 sul disegno di legge poi confluito nella Legge n. 241/1990.

 

Già allora il Supremo Consesso indicava la denuncia di inizio attività come strumento di liberalizzazione dell’attività privata, che, oggi, diventa – nel giudizio della Plenaria – una semi-liberalizzazione.

 

Oltre ad essere, la semi-liberalizzazione, una contraddizione in termini, il giudizio della Plenaria oblitera in un sol colpo quanto sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 303/2003:

Giova premettere che i principî della legislazione statale in materia di titoli abilitativi per gli interventi edilizi non sono rimasti, nel tempo, immutati, ma hanno subito sensibili evoluzioni.

Dal generale e indifferenziato onere della concessione edilizia (legge n. 10 del 1977) si è passati all'autorizzazione per gli interventi di manutenzione straordinaria e fra questi al silenzio-assenso quando non siano coinvolti edifici soggetti a disciplina vincolistica (legge n. 457 del 1978). Il silenzio-assenso è stato successivamente ampliato ed esteso e fatto oggetto di specifiche previsioni procedurali (legge n. 94 del 1982, che ha convertito il decreto-legge n. 9 del 1982). Alle Regioni è stato poi attribuito (legge n. 47 del 1985) il potere di semplificare le procedure ed accelerare l'esame delle domande di concessione e di autorizzazione edilizia e di consentire, per le sole opere interne agli edifici, l'asseverazione del rispetto delle norme di sicurezza e delle norme igienico-sanitarie vigenti, secondo un modello che, in qualche modo, anticipa l'istituto della denuncia di inizio attività. Ed ancora (decreto-legge n. 398 del 1993, convertito nella legge n. 493 del 1993) sono state nuovamente regolate le procedure per il rilascio della concessione edilizia, eliminando il silenzio-assenso e prevedendo in sua vece la nomina di un commissario regionale ad acta con il compito di adottare il provvedimento nei casi di inerzia del Comune. Si è giunti quindi alla disciplina sostanziale e procedurale della denuncia di inizio attività (DIA) per taluni enumerati interventi edilizi, imponendo alle Regioni l'obbligo di adeguare la propria legislazione ai nuovi principî (legge n. 662 del 1996).

È dunque lungo questa direttrice, in cui lo Stato ha mantenuto la disciplina dei titoli abilitativi come appartenente alla potestà di dettare i principî della materia, che si muovono le disposizioni impugnate.

Le fattispecie nelle quali, in alternativa alle concessioni o autorizzazioni edilizie, si può procedere alla realizzazione delle opere con denuncia di inizio attività a scelta dell'interessato integrano il proprium del nuovo principio dell'urbanistica: si tratta infatti, come agevolmente si evince dal comma 6, di interventi edilizi di non rilevante entità o, comunque, di attività che si conformano a dettagliate previsioni degli strumenti urbanistici. In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure e ad evitare la duplicazione di valutazioni sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione.

Né può dirsi che le modificazioni introdotte nell'ultimo periodo del comma 12 dell'art. 1, e cioè l'attribuzione alle Regioni del potere di ampliare o ridurre le categorie di opere per le quali è prevista in principio la dichiarazione di inizio attività, abbiano comportato, nella disciplina contenuta nel comma 6, un mutamento di natura e l'abbiano trasformata in normativa di dettaglio. Vi è solo una maggiore flessibilità del principio della legislazione statale quanto alle categorie di opere a cui la denuncia di inizio attività può applicarsi. Resta come principio la necessaria compresenza nella legislazione di titoli abilitativi preventivi ed espressi (la concessione o l'autorizzazione, ed oggi, nel nuovo testo unico n. 380 del 2001, il permesso di costruire) e taciti, quale è la DIA, considerata procedura di semplificazione che non può mancare, libero il legislatore regionale di ampliarne o ridurne l'ambito applicativo.”.

 

La Consulta fu estremamente chiara:

  1. La denuncia di inizio attività è un istituto di semplificazione del procedimento (giammai in sostituzione del provvedimento) e non uno strumento di liberalizzazione delle attività.

  2. La denuncia di inizio attività è un titolo alternativo al provvedimento espresso.

  3. La denuncia di inizio attività è un titolo a portata limitata, in quanto abilitante l’inizio dell’attività, senza che ne se ne possa ricavare il principio della stabilizzazione degli effetti.

 

La Consulta, nella ricostruzione dei titoli abilitativi edilizi, ha avuto modo anche di definire la relazione asseverata di cui all’art. 26 della Legge n. 47/1985 un prototipo della d.i.a.

 

Tuttavia la Corte non ha rimarcato, forse perché il tema non era lo svisceramento della genesi dei titoli edilizi, che la relazione asseverata dell’art. 26 della Legge n. 47/1985 non veniva presentata in sostituzione dell’autorizzazione amministrativa, ma funzionava come liberalizzazione condizionata dell’attività (come ora sono strutturati gli interventi di edilizia libera ex art. 6, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii.), in quanto il legislatore disse apertamente che talune opere non erano soggette ad autorizzazione amministrativa, che è cosa ben diversa dal dire (come nell’art. 19 della Legge n. 241/1990) che ogni atto autorizzativo è sostituito dalla d.i.a.

Il surrogato non fa scomparire l’originale !

E con la sostituzione non vi è liberalizzazione, perché l’autorizzazione amministrativa c’è ancora, anche se non si vede (o meglio, la P.A. non intende rilasciarla nel concreto) !

 

Al fine di comprendere al meglio la questione vengo a riportare per extenso il testo dell’allora vigente art. 26 della Legge n. 47/1985:

Non sono soggette a concessione ne' ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con i regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della sagoma ne' aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari, non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari, non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile e, per quanto riguarda gli immobili compresi nelle zone indicate alla lettera A dell'articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, rispettino le originarie caratteristiche costruttive.

Nei casi di cui al comma precedente, contestualmente all'inizio dei lavori, il proprietario dell'unita' immobiliare deve presentare al sindaco una relazione, a firma di un professionista abilitato alla progettazione, che asseveri le opere da compiersi e il rispetto delle norme di sicurezza e delle norme igienico-sanitarie vigenti.

Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano nel caso di immobili vincolati ai sensi delle leggi 1 giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni ed integrazioni.

Gli spazi di cui all'articolo 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli articoli 817, 818 e 819 del codice civile.”.

 

E’ sulla scorta della suddetta pronuncia della Corte Costituzionale che ho già avuto modo di dire come la d.i.a. costituisca, a mio avviso, un titolo abilitativo provvisorio abilitante il mero inizio dell’attività, i cui effetti sono stabilizzati dal sopravvenire del provvedimento espresso o per silentium della Pubblica Amministrazione.

In sostanza, la denuncia di inizio attività costituisce, per mezzo dell’asseverazione del professionista ed in ottica della responsabilizzazione del privato, una sorta di anticipazione degli effetti provvedimentali (che deve comunque arrivare, in via espressa o per silentium, a conclusione del procedimento avviato con la presentazione dell’istanza) e quindi una forma di semplificazione del procedimento.

 

Dire, coma ha fatto il Consiglio di Stato, che la d.i.a. è una liberalizzazione dell’attività è un ossimoro, in quanto se l’attività è libera trova il suo presupposto legittimante nella legge e non ha bisogno di alcuna attività, nemmeno di verifica, della Pubblica Amministrazione.

Altrimenti, ad esempio, in edilizia cosa finirebbe per differenziare la s.c.i.a. dall’attività libera ex art. 6, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii.?

Dal momento che, invece, la s.c.i.a. (e prima la d.i.a.) è un titolo, allora non può esservi stata liberalizzazione.

Né, tantomeno, il legislatore ha inteso conferire al Consiglio di Stato il potere di creare ex abrupto - per via giurisprudenziale – un istituto di dichiarata semi-liberalizzazione (vedi penultimo comma del punto 5.2 della sentenza n. 15/2011 della Plenaria).

 

Ecco, quindi, che suona come un excusatio non petita quanto ha affermato il Dott. Guido Greco nel suo saggio:

Va da sé che la costruzione proposta può andare incontro ad una serie di obbiezioni, di cui almeno una è facilmente prevedibile. E si potrebbe, così, obbiettare che parlare di silenzio diniego, anziché di silenzio assenso, costituisca un mero gioco di parole e un apparente capovolgimento dei risultati, cui è pervenuta, appunto, la giurisprudenza del silenzio-assenso. Infatti, il mancato esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori equivarrebbe pur sempre ad assentire l'attività oggetto della SCIA e la tesi qui prospettata

finirebbe per assumere i caratteri di un restyling meramente formale.”.

 

Personalmente ritengo che la decisione del Consiglio di Stato sia stata viziata anche dalla sentita necessità di differenziare la d.i.a. dal silenzio assenso: necessità giusta perché sono due istituti diversi, ma la cui soluzione è partita da un errato angolo di lettura degli articoli 19 e 20 della Legge n. 241/1990.

 

Come già affermato in un mio precedente intervento sulla natura della S.C.I.A., ritengo che per comprendere al meglio l’architettura della semplificazione del procedimento avvenuta con la Legge n. 241/1990 e per comprendere l’effettiva natura della d.i.a. occorra partire dall’articolo 20 e tenere ben saldi i principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 303/2003.

 

La Consulta ha statuito che la d.i.a. è alternativa all’autorizzazione espressa al fine dell’attivazione della fase esecutiva dell’opera, ma non ha detto che non occorre – a conclusione del procedimento – l’autorizzazione promanante dalla P.A.

 

L’ottenimento a posteriori dell’autorizzazione amministrativa, in tal caso, ha funzione di controllo per attività che ex lege il legislatore ha giudicato non sufficientemente connaturate di valori costituzionali da proteggere con il controllo preventivo.

Con conseguente obbligo – in uno sforzo di contemperamento di interessi – di far arretrare l’intervento della P.A. e dare spazio immediatamente all’esercizio di diritti in attesa di espansione (anch’essi costituzionalmente da tutelare), anche in virtù del fatto che l’attività per cui è permesso l’inizio deve, comunque, avvenire in conformità a scelte discrezionali già compiute dalla P.A. e contenute nella pianificazione e programmazione settoriale.

 

La Consulta ha detto, seppur implicitamente, che il Cittadino può scegliere se, una volta fatta domanda per ottenere il titolo espresso, procedere motu proprio all’esecuzione dell’opera in attesa di conseguire il provvedimento oppure attendere il provvedimento (espresso o per ficto iuris, e comunque fatto salvo ugualmente, in quest’ultimo caso, il diritto di ottenere l’atto formale in applicazione del principio della certezza dei rapporti giuridici) per dare corso all’attività.

 

Una volta ben compreso il significato di quanto espresso dalla Corte Costituzionale, ecco che l’art. 20 della Legge n. 241/1990 ci svela come funziona la d.i.a. e la sua natura.

 

Recita l’art. 20:

Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2.”.

 

Quando il legislatore statale ha stabilito che viene fatta salva l’applicazione della d.i.a. (oggi s.c.i.a.) si riferisce, a mio avviso, alla facoltà concessa al privato – dietro asseverazione di un professionista dell’esistenza dei presupposti di legge - di poter iniziare l’opera per la quale è stato richiesto il titolo abilitativo prima ancora che sulla domanda si sia formato il silenzio assenso.

 

Il legislatore ha voluto dire che non esiste preclusione al fatto che in attesa del pronunciamento sull’istanza l’attività possa essere iniziata mediante d.i.a.

 

Così interpretata la voluntas legis si spiega perché nell’art. 19 è stato previsto che “Il relativo ricorso giurisdizionale, esperibile da qualunque interessato nei termini di legge, può riguardare anche gli atti di assenso formati in virtù delle norme sul silenzio assenso previste dall'articolo 20.”.

 

Con la conseguenza che ciò che viene impugnato, nella forma demolitoria del processo amministrativo, può essere:

  • l’assenso tacito formatosi ai sensi dell’art. 20 sull’istanza tendente ad ottenere l’autorizzazione espressa (di cui la d.i.a. costituisce titolo provvisorio).

  • oppure il provvedimento di rigetto che la P.A. adotta a conclusione del procedimento avviato con l’istanza di autorizzazione espressa.

 

In caso di provvedimento di rigetto, la P.A. è tenuta ad attivare – riguardo alla d.i.a. presentata dal privato nelle more del procedimento ed in esercizio delle facoltà concesse dall’ordinamento – i poteri sanzionatori previsti dall’art. 21 della Legge n. 241/1990 (che ineriscono sia le attività iniziate con d.i.a. o per mezzo del silenzio assenso), in quanto il provvedimento di diniego contiene anche le motivazioni afferenti l’accertamento dell’insussistenza dei presupposti legittimanti.

 

In caso, invece, di formazione del silenzio assenso sull’istanza di autorizzazione espressa (nelle cui more del procedimento è stata presentata la d.i.a.) ecco che la P.A. – come prevede anche l’art. 19 – può fare esercizio del potere di annullamento o di revoca in autotutela qualora riscontri ex post l’insussistenza dei presupposti legittimanti oppure non condivida più le valutazioni operate dal privato nel procedimento.

 

Con la differenza che:

  • Laddove la d.i.a. è stata utilizzata per l’inizio di attività a carattere vincolato, la P.A. non risponde dei danni conseguenti alla sospensione dei lavori o alla restituzione in pristino, in quanto evidentemente non sussistevano ab origine i presupposti legittimanti e la dichiarazione in tal senso si è rivelata mendace (art. 21).

  • Laddove la d.i.a. sia in realtà una super-d.i.a. - ossia una denuncia di inizio attività con valutazioni operate dal professionista in luogo della P.A. - e la P.A. diverga, dopo la formazione del silenzio assenso, sul giudizio operato dal privato ecco che la stessa P.A. può essere chiamata al risarcimento del danno causato dal comportamento colpevole (per valutazione discrezionale tardiva) in quanto ha ingenerato nel Cittadino (proprietario e/o professionista) la legittima convinzione di aver operato nella correttezza e nella legalità.

 

La dimostrazione che il silenzio assenso è applicabile, in via generale, alle denunce di inizio attività è l’ancora attuale vigenza:

  • Del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 411 “Regolamento recante disciplina dei casi di esclusione del silenzio-assenso per le denuncie di inizio attività subordinate al rilascio dell'autorizzazione o atti equiparati”, per il quale il Consiglio di Stato ha espresso il proprio parere nella Adunanza Generale del 28 aprile 1994.

  • Del D.P.R. 31 luglio 1996, n. 468 “Regolamento riguardante integrazione della tabella A annessa al regolamento recante la disciplina dei casi di esclusione del silenzio-assenso per le denunce di inizio di attività subordinate al rilascio dell'autorizzazione o atti equiparati, adottato con d.del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 411.”.

 

Una dimostrazione che appalesa, anche, la contraddittorietà delle decisioni del Consiglio di Stato, senza che nella sentenza n. 15/2011 la Plenaria abbia speso una parola per giustificare il repentino mutamento.

 

Dire, come ha fatto la Plenaria, che il silenzio serbato nei termini concessi dal legislatore per l’esercizio dei poteri inibitori non sia un silenzio assenso è un vero è proprio bizantinismo (di cui, oggi e di questi tempi, non se ne sentiva proprio la necessità) che avvalora ancor più il detto riportato dal Consigliere di Stato Dott. Sergio De Felice nel proprio saggio intitolato “Della nullità del provvedimento amministrativo”:

Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti.

Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).”.

 

Da qui il mio parere che il Consiglio di Stato non abbia deciso con la mente libera da ogni pregiudizio di sorta ed abbia finito per offrire una ciambella di salvataggio alla Pubblica Amministrazione e per offrire un validissimo motivo a coloro i quali, da tempo, chiedono a gran voce la riforma della composizione del Consiglio di Stato.

 

Non voglio fare la sibilla, ma qualcosa (responsabilità civile della P.A.) mi dice che la Plenaria dovrà tornare sull’argomento perché, di questi tempi, con il vento dell’antipolitica e della lotta alle caste e ai privilegi che soffia forte, la decisione in commento non potrà che essere destinata ad essere “demolita”.

 

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Scritto il 06/08/2011