Consiglio di Stato Sez. VI n. 642 del 14 febbraio 2017
Beni Culturali. Vendita a privati da parte di una parrocchia di un chiesa con campanile e dipinti senza autorizzazione ministeriale
Dall’art. 4 della legge n. 1089 del 1939, e salve le previsioni della precedente legge n. 364 del 1909, si desume che ciascuno dei beni appartenenti alle province, ai comuni e agli enti e agli stabilimenti «legalmente riconosciuti» (e, dunque, anche agli enti ecclesiastici) sia stato senz’altro ed immediatamente sottoposto alla disciplina di protezione prevista dagli articoli 1 e seguenti della medesima legge n. 1089 del 1939.
Pubblicato il 14/02/2017
N. 00642/2017REG.PROV.COLL.
N. 01375/2016 REG.RIC.
N. 01852/2016 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sull’appello n. 1375 del 2016, proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
contro
I signori Franco Guandalini e Carla Guandalini, rappresentati e difesi dall'avvocato Alberto Della Fontana, con domicilio eletto presso lo studio Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, n. 2;
nei confronti di
La «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano», in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;
Sull’appello n. 1852 del 2016, proposto dalla «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano», in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Francesco Romanelli e Rolando Pini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Guido Francesco Romanelli in Roma, via Cosseria, n. 5;
contro
I signori Franco Guandalini e Carla Guandalini, rappresentati e difesi dall'avvocato Alberto Della Fontana, con domicilio eletto presso lo studio Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, n. 2;
nei confronti di
Il Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma della sentenza del T.a.r. Emilia-Romagna, Sede di Bologna, Sez. I, n. 1159/2015, resa tra le parti, concernente la dichiarazione di interesse storico-artistico del complesso «Solignano Vecchio»;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori Franco Guandalini e Carla Guandalini, nonché l’atto di costituzione nel giudizio n. 1852 del 2016 del Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 gennaio 2017 il Cons. Francesco Mele e uditi per le parti l'avvocato dello Stato Andrea Fedeli, nonché gli avvocati Rolando Pini e Alberto Della Fontana;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con atti di data 27 maggio 2005 e 20 novembre 2006, la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici ha dapprima comunicato alla «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano» che va qualificato come nullo ipso iure il contratto di vendita da essa stipulato con gli appellati in data 28 gennaio 1971 (avente per oggetto la Chiesa di San Giorgio Martire in Solignano, con l’annesso campanile, e un attiguo podere agricolo, con sovrastanti fabbricati rurali) ed ha poi dichiarato di interesse storico-artistico il «Complesso di Solignano Vecchio».
Col ricorso di primo grado n. 980 del 2007 (proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna), gli odierni appellati hanno impugnato tali atti, chiedendone l’annullamento.
Il TAR, con la sentenza n. 1159 del 2015, ha accolto il ricorso di primo grado ed ha annullato gli atti impugnati.
2. Con gli appelli indicati in epigrafe, il Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo nonché la «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano» hanno chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, il ricorso di primo grado sia respinto.
Si sono costituiti nei giudizi gli appellati, i quali hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello n. 1852 del 2015 ed hanno chiesto che comunque le due impugnazioni siano respinte.
3. All’udienza del 12 gennaio 2017 le cause sono state trattenute per la decisione.
DIRITTO
1. Con rogito del 28 gennaio 1971, la Parrocchia di San Giorgio Martire ha venduto ai signori Fra. Gua. e San. Bor. un immobile sito nel territorio del Comune di Caselvetro (BO), costituito dalla Chiesa di San Giorgio Martire in Solignano (contenente un ossario, quadri antichi, fonti, acquasantiere di epoca bizantina e risalenti elementi architettonici), con l’annesso campanile, e da un attiguo podere agricolo, con sovrastanti fabbricati rurali.
La Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna, con l’atto n. 6419 del 27 maggio 2005, ha comunicato che il contratto di vendita doveva essere considerato nullo, ai sensi dell’art. 164 del codice n. 42 del 2004, perché stipulato in mancanza della autorizzazione del Ministero dei beni culturali.
Con il successivo decreto di data 20 novembre 2006, la medesima Direzione regionale – nel considerare tali beni di proprietà della «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano», alla quale il decreto è stato notificato – ha concluso il relativo procedimento ed ha dichiarato di interesse storico-artistico il «Complesso di Solignano Vecchio», ai sensi dell’articolo 10, comma 1, e dell’articolo 12 del codice n. 42 del 2004.
2. Col ricorso di primo grado n. 980 del 2007 (proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna), gli acquirenti dei beni in questione – che hanno stipulato il rogito del 28 gennaio 1971 - hanno chiesto l’annullamento degli atti sopra indicati, deducendo profili di violazione di legge e di eccesso di potere.
Nel corso del giudizio, si è costituita in giudizio la signora Car. Gua., quale erede del signor San. Bor.
3. Con la sentenza n. 1159 del 2015, il TAR ha accolto il ricorso ed ha annullato gli atti impugnati, rilevando che i beni in questione potevano essere venduti anche in assenza della autorizzazione prevista dall’art. 26 della legge n. 1089 del 1939, in quanto la loro valenza storica-artistica non era stata dichiarata con un provvedimento amministrativo.
Il TAR ha così condiviso il principio affermato da alcune sentenze di questo Consiglio di Stato (Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 20; Sez. VI, 8 febbraio 2000, n. 678; Sez. VI, 2 novembre 1998, n. 1479), secondo cui l’art. 4 della legge n. 1089 del 1939 avrebbe disciplinato allo stesso modo i «beni pubblici e i beni privati per quanto afferisce al momento prodromico dell’accertamento circa l’interesse da tutelare, esplicazione di discrezionalità tecnica di pertinenza dell’Amministrazione dei beni culturali».
4. La sentenza del TAR n. 1159 del 2015 è stata impugnata dal Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo (con l’appello n. 1375 del 2016) e dalla «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano» (con l’appello n. 1852 del 2015), i quali hanno chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, il ricorso di primo grado sia respinto.
Si sono costituiti nei giudizi gli appellati, i quali hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello n. 1852 del 2015 ed hanno chiesto che comunque le due impugnazioni siano respinte.
5. Ritiene la Sezione che - ai sensi dell’articolo 96, comma 1, del c.p.a. – si deve disporre la riunione degli appelli, perché proposti avverso la medesima sentenza.
6. Per ragioni di ordine logico, va preliminarmente esaminato l’appello n. 1375 del 2016, proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo, della cui ammissibilità non vi è questione.
7. Con l’unico articolato motivo d’appello, il Ministero ha lamentato che la sentenza impugnata non ha correttamente interpretato la normativa succedutasi nel tempo, riguardante la disciplina giuridica dei beni di proprietà degli enti ecclesiastici.
In particolare, il Ministero ha dedotto che gli articoli 1 e 2 della legge n. 1089 del 1939 (applicabile ratione temporis, al momento della vendita del 28 gennaio 1971) hanno disciplinato diversamente i beni mobili ed immobili di interesse artistico e storico:
- per i beni appartenenti a soggetti privati ‘persone fisiche’, le disposizioni della legge n. 1089 del 1939 si applicavano solo nel caso in cui essi, con uno specifico provvedimento, fossero stati riconosciuti di interesse culturale;
- per i beni «appartenenti allo Stato ed agli enti e agli istituti legalmente riconosciuti», le disposizioni della medesima legge si applicavano pur se non era stato redatto il loro elenco (la cui compilazione aveva effetti dichiarativi e non costitutivi).
L’Amministrazione appellante:
- ha rilevato come vi sia stata una continuità normativa tra le disposizioni della legge n. 1089 del 1939 e quelle del testo unico n. 490 del 1999 e inoltre con quelle del codice n. 42 del 2004;
- ha richiamato alcuni precedenti giurisprudenziali sulla natura ricognitiva e dichiarativa di tali elenchi;
- ha chiesto che, in riforma della sentenza impugnata, siano respinte le censure accolte dal TAR.
8. Così sintetizzate le censure dell’Amministrazione appellante, ritiene la Sezione che esse siano fondate e vanno accolte.
9. Sulla questione controversa tra le parti (e cioè sulla applicabilità delle disposizioni della legge n. 1089 del 1939 ai beni «delle province, dei comuni e degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti», quando essi non siano stati individuati negli elenchi che i rappresentanti dei medesimi enti avrebbero dovuto redigere) vi è stata effettivamente una divergenza nella giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato.
Il TAR per l’Emilia Romagna – nell’accogliere la tesi degli appellati - si è adeguato alle tre sentenze sopra richiamate (Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 20; Sez. VI, 8 febbraio 2000, n. 678; Sez. VI, 2 novembre 1998, n. 1479), secondo cui le disposizioni della legge n. 1089 del 1939 non si applicano quando i beni «delle province, dei comuni e degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti» non fossero stati individuati negli elenchi da redigere ai sensi dell’art. 4, primo comma, della medesima legge.
Il Ministero appellante ha invece richiamato l’opposto orientamento (Cons. Stato, Sez. VI, 14 febbraio 2007, n. 607; Sez. VI, 15 ottobre 1996, n. 1354; Cass. civ., Sez. I, 10 febbraio 2006, n. 2995; Cass. pen., Sez. V, 26 aprile 2005), secondo cui le disposizioni della legge n. 1089 del 1939 si applicavano anche quando i medesimi elenchi non fossero stati redatti (ovvero fossero stati redatti senza inserire un bene avente un obiettivo interesse culturale).
10. Ritiene la Sezione che vada riaffermato l’orientamento cui si è richiamato il Ministero appellante, orientamento che peraltro si era consolidato in giurisprudenza, sin da quando la questione è stata sottoposta all’esame del Consiglio di Stato.
In particolare, il Collegio – nel discostarsi dalle tre sentenze citate dalla sentenza appellata - intende riaffermare l’originario consolidato orientamento secondo il quale l’art. 4 della legge n. 1089 del 1939 aveva nettamente distinto la disciplina applicabile per i beni «delle province, dei comuni e degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti» (che avessero ottenuto la personalità giuridica, in applicazione delle disposizione dei codici del 1865 e del 1942), rispetto a quella applicabile per i beni delle persone fisiche (in terminis, oltre ai precedenti citati dal Ministero appellante, v. Cons. Stato, Sez. VI, 24 aprile 1979, n. 306; Sez. VI, 17 marzo 1970, n. 211; Sez. VI, 21 ottobre 1966, n. 701; Sez. VI, 12 novembre 1958, n. 843; Sez. VI, 6 febbraio 1957, n. 52; Sez. VI, 27 febbraio 1957, n. 96; Sez. VI, 6 febbraio 1957, n. 52; Sez. VI, 12 maggio 1954, n. 338; v. anche Sez. IV, 28 luglio 1971, n. 761; Cass., 14 marzo 1968, n. 826).
10.1. Per la comprensione delle questioni controverse tra le parti, va premesso che, tra gli enti e gli «istituti legalmente riconosciuti» (di cui agli articoli 4 e 26 della legge n. 1089 del 1939), rientravano senz’altro – prima ancora della precisazione disposta dal d.lg. n. 62 del 2008, riferita all’art. 10 del codice n. 42 del 2004 - tutti «gli istituti pubblici civili od ecclesiastici» indicati dapprima dall’articolo 2, secondo comma, del codice civile del 1865, e poi dagli articoli 11 e 12 del codice civile del 1942, e dunque anche gli enti ecclesiastici, tra cui le parrocchie.
Non occorrono in questa sede ulteriori approfondimenti sul punto, poiché tra le parti non è contestato né che la «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano» sia un ente ecclesiastico, né che, in quanto ente ecclesiastico, nei suoi confronti in linea di principio fossero applicabili le disposizioni della legge n. 1089 del 1939, dopo la sua entrata in vigore.
10.2. E’ invece controverso tra le parti se – malgrado l’assenza della redazione (e della trasmissione al Ministero) da parte della Parrocchia dell’elenco previsto dall’art. 4, primo comma, della legge n. 1089 del 1939 – i beni oggetto del contratto del 28 gennaio 1971 siano stati a suo tempo sottoposti alle disposizioni sulla tutela dei beni culturali di cui alla medesima legge n. 1089 del 1939 sulla tutela dei beni culturali e, conseguentemente, se legittimamente il Ministero appellante abbia constatato (ai sensi degli artt. 26 e 61 della stessa legge) la nullità di tale contratto, in quanto non preceduto dalla autorizzazione statale alla vendita.
11. Ciò posto, la fondatezza dell’appello del Ministero e la condivisibilità dell’orientamento di questa Sezione – riportato al precedente § 10 – si desumono dal testo e dalla ratio delle rilevanti disposizioni della legge n. 1089 del 1939.
12. Quanto al loro testo, giova riportare il contenuto dell’art. 3, primo comma, nonché quello dell’art. 4, primo e terzo comma, della legge n. 1089 del 1939 (rilevanti ratione temporis, perché in vigore alla data del 28 gennaio 1971, in cui è stato stipulata la vendita, di cui il Ministero ha rilevato la nullità).
Per l’art. 3, primo comma, «Il Ministero della pubblica istruzione notifica in forma amministrativa ai privati proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo, le cose indicate nell’art. 1 che siano di interesse particolarmente importante».
Per l’art. 4:
- «I rappresentanti delle province, dei comuni, degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti devono presentare l’elenco descrittivo delle cose indicate nell’articolo 1 di spettanza degli enti o istituti che essi rappresentano» (primo comma);
- «le cose indicate nell’articolo 1 restano sottoposte alle disposizioni della presente legge, anche se non risultino comprese negli elenchi e nelle dichiarazioni di cui al presente articolo» (terzo comma).
13. Tali disposizioni hanno introdotto distinte discipline per due categorie di beni culturali, non assimilabili sotto il profilo formale e sostanziale.
13.1. Per i beni delle persone fisiche (ovvero per i beni di cui esse abbiano avuto il possesso o la detenzione), l’art. 3 aveva subordinato la loro riconducibilità al genus dei beni culturali alla «notifica» dell’atto di rilevazione dell’interesse culturale, al termine del relativo procedimento.
Il relativo atto statale - espressione della discrezionalità tecnica e da motivare adeguatamente – determinava così un particolare regime giuridico del bene in questione, con la conseguente applicazione delle disposizioni della «sezione II» e degli articoli 30-34 della legge n. 1089 del 1939.
In tal modo, fermi restando i poteri cautelari e quelli accertativi e costitutivi del Ministero, il regime giuridico dei beni delle persone fisiche continuava di per sé ad essere disciplinato dal codice civile, senza alcuna presunzione generalizzata che li facesse rientrare di per sé nel patrimonio culturale della Nazione.
13.2. Un diverso regime giuridico è stato disposto dalla legge n. 1089 del 1939 per i beni «appartenenti allo Stato o ad altri corpi morali».
Come sopra si è rilevato, l’art. 4 ha previsto l’obbligo – per «i rappresentanti delle province, dei comuni, degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti» - «di presentare l’elenco descrittivo delle cose indicate nell’articolo 1 di spettanza degli enti o istituti che essi rappresentano» (primo comma) e ha disposto – ciò che il Collegio ritiene chiaro e decisivo per la soluzione della controversia - che «le cose indicate nell’articolo 1 restano sottoposte alle disposizioni della presente legge, anche se non risultino comprese negli elenchi e nelle dichiarazioni di cui al presente articolo» (terzo comma).
Gli articoli 23 e 24 hanno inoltre disciplinato l’autorizzabilità delle «alienazioni delle cose appartenenti allo Stato o ad altri enti morali», mentre l’art. 26 ha disposto che «le cose appartenenti ad enti o istituti legalmente riconosciuti, diversi da quelli indicati nell’art. 23, possono essere alienate previa autorizzazione del Ministero».
A parte le sanzioni penali previste dall’art. 62, l’art. 61, quale ‘chiave di volta’ del sistema, ha inoltre previsto che «le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalla presente legge o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte, sono nulli di pieno diritto».
14. Dalle disposizioni che precedono, emerge con chiarezza che la legge n. 1089 del 1939 - nell’adoperare la terminologia già utilizzata dalla precedente legislazione, ed in particolare dalla ‘legge Siccardi’ n. 1037 del 1850 del Regno di Sardegna e dal codice civile del 1865 del Regno d’Italia (v. ad es. l’art. 1, secondo comma, sui «corpi morali») - ha inteso salvaguardare il patrimonio nazionale dei beni culturali, mediante una summa divisio:
- per i beni di proprietà privata non riconducibili a soggetti miranti al soddisfacimento di interessi pubblici o collettivi, l’art. 3 ha introdotto un particolare regime giuridico di tutela, conseguente solo nel caso di notifica di un atto amministrativo che palesasse il pregio culturale;
- per i beni «delle province, dei comuni, degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti», l’art. 4 ha introdotto un particolare regime giuridico di tutela ex lege, con la previsione – da un lato - dell’obbligo per i loro rappresentanti legali di «presentare l’elenco descrittivo delle cose indicate nell’articolo 1 di spettanza degli enti o istituti che essi rappresentano» (art. 4, primo comma) e – dall’altro – della loro immediata sottoposizione alle disposizioni della stessa legge n. 1089 del 1939 (in primis, sulla tutela e sulla necessaria previa autorizzazione alla alienazione), pur se «le cose indicate nell’articolo 1 … non risultino comprese negli elenchi e nelle dichiarazioni di cui al presente articolo» (art. 4, terzo comma).
15. Il dato testuale dell’art. 4 (da cui si desume che i beni culturali ivi indicati sono stati immediatamente sottoposti alla protezione ex lege, pur in assenza nella loro iscrizione negli elenchi) corrisponde alle ragioni che hanno indotto il legislatore a prevedere un tale sistema di protezione, pur quando le province, i comuni e gli altri enti o istituti legalmente riconosciuti non abbiano adempiuto i loro obblighi e non abbiano redatto gli elenchi, cui si è richiamato l’art. 4, al primo ed al terzo comma.
In considerazione del numero incalcolabile di beni culturali presenti nel territorio nazionale (in alcuni lavori parlamentari quantificati anche nel 50% dei beni culturali mondiali), e ferma restando la tutela dei beni di proprietà statale di cui alle leggi n. 185 del 1902 e n. 364 del 1909, il legislatore del 1939 ha ritenuto che – con riferimento ai beni delle province, dei comuni e degli enti e degli istituti «legalmente riconosciuti» - anche la loro protezione fosse indifferibile, non dovendosi attendere la redazione degli «elenchi» e delle «dichiarazioni» previste dall’art. 4.
Evidentemente, il legislatore si è basato su una presunzione sul rilievo culturale dei beni di tali enti, per il solo fatto della loro appartenenza.
Tale presunzione, ad avviso del Collegio, si basa su una valutazione del legislatore del tutto ragionevole, poiché il patrimonio di tali enti – la cui attività è stata sempre finalizzata al soddisfacimento di interessi pubblici o comunque superinvidividuali - sono stati accumulati in periodi storici non determinabili, spesso risalenti nella notte dei tempi.
La medesima presunzione risulta ragionevole, ove si consideri che:
- i patrimoni delle province e delle comuni sono per lo più derivati da quelli delle universitates che hanno caratterizzato le storie locali, nonché da risalenti acquisti e dalle acquisizioni derivanti dalla legge n. 3848 del 1967 e dalle altre disposizioni – anche degli Stati preunitari - sulla cd eversione dell’asse ecclesiastico;
- i patrimoni degli enti ecclesiastici, tranne quanto accaduto con tale eversione, si sono incrementati nel corso dei secoli e si sono caratterizzati per una loro stabilità e per la cura dei luoghi dedicati al culto, delle loro pertinenze e dei cespiti sottoposti alla loro gestione.
16. Quanto precede induce il Collegio – in continuità con la giurisprudenza della Sezione consolidatasi sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso – a ritenere che dall’art. 4 della legge n. 1089 del 1939, e salve le previsioni della precedente legge n. 364 del 1909, si desume che ciascuno dei beni appartenenti alle province, ai comuni e agli enti e agli stabilimenti «legalmente riconosciuti» (e, dunque, anche agli enti ecclesiastici) sia stato senz’altro ed immediatamente sottoposto alla disciplina di protezione prevista dagli articoli 1 e seguenti della medesima legge n. 1089 del 1939.
17. D’altra parte, non si può ammettere che la legge n. 1089 del 1939 abbia inteso subordinare l’applicazione delle disposizioni in esame (sulla necessità delle autorizzazioni e sulle altre misure di salvaguardia) alle iniziative dei rappresentanti degli enti tenuti alla loro redazione.
Una tale soluzione – comunque non desumibile dal testo dall’art. 4 della legge – avrebbe differito a tempo indeterminato ratione personarum le disposizioni sulla protezione dei beni culturali, non si desume dai lavori parlamentari (da cui emerge invece che il legislatore intendeva introdurre misure di protezione generalizzate ed immediate) e sarebbe stata manifestamente irragionevole, perché in definitiva avrebbe subordinato l’operatività delle misure di protezione alle iniziative (ed alle inerzie) dei destinatari dell’obbligo di redigere gli elenchi.
In altri termini (e non rilevando in questa sede l’analisi delle connesse disposizioni di protezione, di cui al testo unico n. 490 del 1999 e del codice n. 42 del 2004), con la legge n. 1089 del 1939 il legislatore:
- ha valutato la possibilità concreta che vi fossero inerzie, ovvero obiettive difficoltà, nella redazione degli elenchi e delle dichiarazioni di cui all’art. 4, primo comma;
- con l’art. 4, terzo comma, ha disposto che – fermo restando il potere del Ministero di sanzionare ex art. 58 i responsabili e di esercitare senz’altro i poteri sostitutivi in assenza della redazione degli elenchi o in presenza di una loro redazione parziale – si sarebbero dovute immediatamente applicare le disposizioni sulla tutela del patrimonio degli enti in questione (sia quelle in tema di autorizzazioni, sia quelle volte a sanzionare gli illeciti, con le previsioni sulla nullità dei contratti, sulle sanzioni penali, ecc.);
- ha così introdotto una presunzione ex lege di interesse culturale dei beni formalmente appartenenti alle province, ai comuni e agli altri enti «legalmente riconosciuti», inclusi gli enti ecclesiastici, mediante una disciplina ratione personarum, attributiva di poteri peculiari al Ministero, presunzione ragionevolmente prevista affinché il patrimonio culturale della Nazione non sia perduto, disperso o ridotto nella sua consistenza.
18. Del resto, sulla base di tale presunzione, la legge n. 1089 del 1939 ha anche attribuito allo Stato un ‘diritto’ di prelazione, nel caso di vendita di un bene, da parte di una provincia, di un comune o di un ente legalmente riconosciuto, civile od ecclesiastico.
La disciplina sulla necessaria richiesta di autorizzazione, per la validità della vendita di tale bene, risulta infatti strettamente connessa con la disciplina sull’esercizio del ‘diritto’ di prelazione, in concreto esercitabile – sulla base del relativo distinto procedimento - solo nel caso di proposizione dell’istanza di autorizzazione.
E va rilevato che nella specie il Ministero appellante – pur se ha legittimamente dichiarato nulla la vendita di data 28 gennaio 1971 – non ha ritenuto di esercitare anche il potere previsto dagli articoli 31 e 32 della legge del 1939, una volta venuto a conoscenza della stipula del contratto in assenza dell’istanza di autorizzazione (assenza che ha precluso la tempestiva valutazione degli interessi coinvolti, da parte degli organi del Ministero).
19. Le considerazioni che precedono, in quanto basate sul testo e sulla ratio dell’art. 4, primo e terzo comma, della legge n. 1089 del 1939, inducono il Collegio a dare continuità all’orientamento della Sezione segnalato al precedente § 10 e a non condividere i tre precedenti richiamati nella sentenza appellata.
Contrariamente a quanto rilevato da questi tre precedenti:
- la sussistenza del potere dell’Amministrazione di constatare in concreto l’interesse storico-artistico del bene - rilevante anche per determinare quali sue parti abbiano un effettivo interesse culturale - non ha reso inapplicabile il regime di protezione di cui agli artt. 1 e 4;
- è irrilevante il richiamo agli articoli 822-824 del codice civile del 1942 al demanio dello Stato, delle province e dei comuni, nella parte in cui si riferisce agli «immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico ed artistico a norma delle leggi in materia», sia perché, quando si tratti «degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti» (e, dunque degli enti ecclesiastici) non si può ritenere che i loro patrimoni possano rientrare nel «demanio pubblico», sia perché - prima dell’iscrizione negli elenchi o del riconoscimento dell’interesse storico e dunque della configurazione della titolarità del demanio – l’art. 4 sopra riportato ha disposto l’applicazione delle misure di protezione previste dalla legge per i beni delle province e dei comuni, per il solo fatto che vi è la loro formale titolarità.
20. L’appello del Ministero va pertanto accolto, con la conseguente reiezione delle censure degli appellati, accolte dal TAR.
21. Trattandosi di un contratto di vendita risalente al 28 gennaio 1971, e applicandosi ratione temporis le disposizioni della legge n. 1089 del 1939, risultano irrilevanti le deduzioni degli appellati, concernenti l’ambito di applicazione del testo unico n. 490 del 1999 e del codice n. 42 del 2004.
22. Vanno inoltre dichiarate inammissibili le deduzioni formulate dagli appellati in primo grado (come riproposte a pp. 13 s. della memoria depositata il 1° aprile 2016), secondo cui si dovrebbe in questa sede accertare come essi siano proprietari dei beni in questione, per usucapione.
L’oggetto del presente giudizio è infatti costituito unicamente dagli atti impugnati in primo grado, sicché in questa sede è precluso l’esame di ogni questione concernente il se il possesso dei beni, conseguito dagli appellanti, vada considerato giuridicamente rilevante a tal fine e se sia usucapibile un bene rispetto al quale vi sia stata la violazione delle disposizioni della legge n. 1089 del 1939: le questioni di natura petitoria, poste dagli appellati, rientrano nell’ambito della giurisdizione del giudice civile.
23. Vanno a questo punto esaminate le censure di primo grado, assorbite dal TAR e richiamate dagli appellati nei loro scritti difensivi.
24. Col primo motivo di primo grado, gli appellati hanno dedotto che – quand’anche il contratto del 28 gennaio 1971 dovesse effettivamente risultare nullo – si dovrebbe considerare ‘relativa’ tale nullità, cioè «stabilita nell’esclusivo interesse dello Stato ai fini dell’eventuale esercizio del diritto di prelazione previsto dall’art. 61, comma 2, della legge 1089 del 1939», sicché «l’acquirente del bene non perde il diritto di proprietà, ma ne viene privato soltanto a seguito del legittimo potere di prelazione da parte dello Stato».
Pertanto, essi hanno dedotto che vanno ancora considerati come proprietari del bene, non essendovi stato l’esercizio del ‘diritto’ di prelazione.
25. Ritiene la Sezione che tale censura sia infondata e vada respinta.
Risultano del tutto distinte (pur se connesse) le discipline riguardanti – da un lato - le conseguenze della mancanza della previa autorizzazione alla vendita (art. 26 e 61 della legge del 1939) e – dall’altro – l’esercizio o meno del ‘diritto’ di prelazione.
Sotto tale profilo, l’ordinamento ha previsto la nullità del contratto, concluso in assenza della previa autorizzazione, a prescindere da quanto poi rileva o si verifica quanto all’esercizio del potere di prelazione.
Del resto, l’Amministrazione statale ben può riaffermare la legalità, dichiarando la nullità del contratto concluso in assenza della necessaria previa autorizzazione, pur se poi – per carenza di risorse economiche o per altra ragione – ritenga di non esercitare il potere di prelazione.
26. Col secondo motivo del ricorso di primo grado (riproposto a p. 22 s. della memoria di data 1° aprile 2016), gli appellati hanno lamentato la violazione dell’art. 14 del codice n. 42 del 2004 e dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, deducendo che - nel corso del procedimento conclusosi con l’imposizione del vincolo con l’atto del 20 novembre 2006 - l’Amministrazione avrebbe dovuto a loro trasmettere l’avviso di avviso del procedimento, invece trasmesso alla Parrocchia.
27. Ritiene la Sezione che anche tale censura risulta infondata e va respinta.
Una volta risultata la nullità del contratto del 28 gennaio 1971 (nullità che nella specie va considerata ‘di protezione del patrimonio dell’ente ecclesiastico’), l’Amministrazione statale ha doverosamente rilevato che la Parrocchia va considerata proprietaria dei beni, che risultarono oggetto della vendita.
L’Amministrazione, del resto, non poteva incidere sui rapporti di natura civilistica intercorrenti tra la Parrocchia e gli interessati, ai quali l’ordinamento ha attribuito rimedi di tutela azionabili in sede di giurisdizione civile.
28. Le censure di primo grado degli appellati, assorbite dal TAR e riproposte in questa sede, vanno pertanto respinte.
29. Per le ragioni che precedono, l’appello del Ministero risulta fondato e va accolto e, in riforma della sentenza del TAR e previa reiezione dei motivi riproposte in questa sede, va respinto il ricorso di primo grado n. 980 del 2007, proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna.
30. L’accoglimento dell’appello del Ministero comporta che va dichiarato improcedibile l’appello della «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano», il che rende irrilevante l’eccezione sulla sua inammissibilità, come formulata dagli appellati.
31. In ragione della diversità della giurisprudenza sulla questione centrale controversa nel giudizio, sussistono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese e gli onorari dei due gradi.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta):
- riunisce gli appelli n. 1375 del 2016 e n. 1852 del 2016;
- accoglie l’appello n. 1375 del 2016 del Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo e, previa reiezione delle censure di primo grado (assorbite e riproposte in secondo grado), in riforma della sentenza impugnata respinge il ricorso n. 980 del 2007, proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna;
- dichiara improcedibile l’appello n. 1852 del 2016 della «Parrocchia di San Giorgio Martire in Solignano»;
- compensa tra tutte le parti le spese e gli onorari dei due gradi del giudizio;
- ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2017, con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Bernhard Lageder, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Francesco Mele, Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Francesco Mele Luigi Maruotti