Cass. Sez. III n. 57850 del 28 dicembre 2017 (Ud 30 mag 2017)
Presidente: Savani Estensore: Gentili Imputato: Di Gati ed altro
Caccia e animali.Combattimento tra cani
Concorre nel reato di cui al primo comma dell’art. 544-quinquies non solo che materialmente ed esclusivamente organizzi il combattimento fra gli animali ma anche chi consapevolmente contribuisca con il proprio apporto causale, anche solo morale rafforzando o determinando il proposito criminoso, alla organizzazione di tale evento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 3 maggio 2016, la Corte di appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza con la quale, il precedente 6 ottobre 2014, il Tribunale di Caltanissetta aveva dichiarato la penale responsabilità di Di Gati Elia Salvatore e di Parisi Davide in ordine al reato di cui all’art. 544-quinquies cod. pen., per avere, in concorso con altri, promosso o organizzato un combattimento fra cani, condannandoli, pertanto, alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione ed euro 60.000,00 di multa ciascuno, con la sospensione condizionale della pena per il solo Parisi.
La Corte territoriale, ampiamente e diffusamente ricostruiti i fatti per cui è processo, ha ritenuto adeguatamente provata la responsabilità dei due imputati principalmente sulla scorta del fatto che i due erano i proprietari dei cani impegnati nel combattimento nonché in ragione del contegno tenuto dai due prevenuti al momento della irruzione degli agenti operanti sul luogo dei fatti.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto distinti ricorsi i due prevenuti.
Il Parisi ha contestato la concludenza probatoria degli elementi posti a suo carico, in particolare osservando che né lui era stato visto nei pressi del luogo ove il combattimento fra bestie era in corso, né il suo cane era stato visto combattere.
Ha altresì lamentato la mancata concessione delle attenuanti generiche in suo favore.
Il Di Gati, ammesso il fatto nei suoi profili generali, ha contestato la mancata qualificazione della sua condotta nell’alveo della ipotesi meno grave di cui all’art. 544-quinquies, comma terzo, cod. pen. che punisce con pena più lieve la condotta di chi abbia allevato, addestrato e destinato propri animali alla attività di combattimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, essendo risultati i relativi motivi o manifestamente infondati o direttamente inammissibili, debbono essere dichiarati a loro volta inammissibili.
Quanto alla impugnazione formulata dal Parisi, osserva la Corte che il primo motivo di censura da lui articolato attiene ad un preteso difetto di motivazione della sentenza della Corte nissena in ordine alla adeguatezza della prova della sua responsabilità.
Si tratta di censura del tutto ingiustificata.
La Corte territoriale ha, infatti, affermato il pieno coinvolgimento del Parisi nella attività criminosa a lui ascritta sulla base di elementi obbiettivi; infatti non soltanto il cane del Parisi è stato visto combattere con un altro cane (e che si trattasse di combattimento organizzato e non di un’occasionale zuffa fra animali è evidentemente reso manifesto dal fatto che vi era del pubblico presente e che l’operazione che ha portato alla identificazione, fra l’altro, degli odierni imputati era scaturita dalla intercettazione di talune conversazioni telefoniche in cui si parlava di tali imminenti combattimenti) ma è, altresì, risultato che la povera bestia portava addosso a sé, sotto la forma di una ferita tuttora sanguinante, fatto questo del tutto condivisibilmente ritenuto chiaro sintomo della immediatezza temporale del suo essersi determinata, i segni della lotta fatta con un altro animale.
La presenza sul luogo dello stesso Parisi è stata ritenuta, in termini del tutto convincenti, dalla Corte nissena la palese dimostrazione del fatto che la bestia, ivi condotta dal Parisi, non fosse lì per caso ma per partecipare alla turpe competizione.
Nell’interpretare siffatte risultanze obbiettive non è evidenziabile - né per vero è stata chiaramente evidenziata sotto tale forma - alcuna illogicità motivazionale nella sentenza della Corte territoriale siciliana che ha tratto le naturali e sicuramente plausibili conclusione dai dati obbiettivi a sua disposizione.
Del tutto inverosimile è, infatti, pensare, come pretenderebbe di fare la difesa del ricorrente Parisi, che la ferita rilevata sul muso del cane di questo potesse essere risalente addirittura ad un mese prima dei fatti, atteso che, se così fosse stato, apparirebbe inspiegabile il fatto che la stessa, come rilevato dai testi ricordati nella sentenza impugnata, fosse ancora sanguinante al momento dell’intervento degli agenti della Polizia di Stato.
Va, peraltro, rilevato come la censura articolata dalla difesa del prevenuto sia di fatto ripetitiva di un argomento già agitato in sede di motivi di appello ed al quale, come sopra rilevato, la Corte territoriale aveva dato adeguata e puntuale risposta; la predetta censura appare, pertanto, anche per questo motivo inammissibile, in quanto, più che condurre alla verifica della tenuta logica della motivazione della sentenza impugnata, evidenziandone se del caso le aporie, appare destinata a proporre nuovamente, senza una effettiva censura in ordine alla legittimità della sentenza di appello, in questa sede in cui non è in discussione il fatto ma, semmai, i criteri che sono stati addottati per dimostrane i contenuti, una ulteriore valutazione del materiale probatorio già esaurientemente vagliato in sede di merito.
Quanto al secondo motivo di doglianza formulato dal Parisi, avente ad oggetto la mancata concessione delle attenuanti generiche in suo favore, rileva la Corte come il medesimo sia parimenti destituito di fondamento.
Ribadito, infatti, il consolidato principio in forza del quale il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è subordinato alla sussistenza di specifici, ancorché non predeterminati dal legislatore, fattori che, evidenziando una situazione di meritevolezza in cui versi il condannato, giustifichino la diminuzione della entità della sanzione a lui spettante, in ipotesi anche al di sotto del minimo edittale comminato per l’illecito penale da lui realizzata, si osserva, quanto al caso di specie, che la Corte di Caltanissetta ha rilevato che tali fattori non erano riscontabili quanto al caso di specie.
A fronte di tale argomentazione sarebbe stato onere del ricorrente, ai fine della puntuale specificità del motivo di impugnazione, evidenziare quali fattori di meritevolezza fossero stati portati invano alla attenzione del giudicante.
Tale onere di allegazione il ricorrente non ha soddisfatto, essendosi egli limitato ad addurre, per come si legge testualmente nel ricorso, la “sua pregressa regolare, tranquilla ed onesta condotta di vita”, in altre parole la sua incensuratezza penale, motivo per il quale è espressamente sanzionata dal legislatore (si veda, infatti, l’art. 62-bis, ultimo comma, cod. pen., come introdotto a seguito della entrata in vigore del dl n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, con la legge n. 125 del 2008) la inadeguatezza a fondare il riconoscimento del predetto beneficio.
Passando al ricorso del Di Gati, si rileva che lo stesso è volto alla affermazione della non configurabilità nella condotta del prevenuto degli estremi del reato a lui contestato, potendo, semmai, la sua condotta essere qualificata come violazione dell’art. 544-quinques, comma terzo, cod. pen. e non del comma primo della medesima disposizione, come, invece, chiaramente contestato in fatto all’imputato.
La tesi è destituita di fondamento.
Osserva, infatti, sul punto il Collegio che la disposizione la cui violazione è stata attribuita all’imputato, cioè il comma primo dell’art. 544-quinquies cod. pen., prevede la penale responsabilità di chi promuova, organizzi o diriga combattimenti, o competizioni (ma non è questo il caso che ora interessa) tra animali, che possano metterne in pericolo la integrità fisica.
La disposizione di cui, invece, al comma terzo del medesimo art. 544-quinquies cod. pen. prevede la illiceità penale della condotta di chi destini, anche tramite soggetti terzi, animali da lui addestrati ed allevati ai combattimenti di cui alla disposizione precedentemente indicata.
Ad avviso del ricorrente, non essendo emersi nella sua condotta elementi che possano far ritenere che egli abbia promosso, organizzato e diretto il combattimento fra cani nel corso del quale vi è stata l’irruzione degli organi di polizia giudiziaria, allo stesso, atteso che uno dei cani coinvolti era pacificamente di sua proprietà, poteva essere, semmai contestata la violazione del comma terzo dell’art. 544-quinquies cod. pen.
Omette, tuttavia, di considerare il ricorrente che la disposizione da lui stesso ultima citata prevede espressamente la clausola di esclusione ”fuori dei casi di concorso nel reato”; a tale proposito è evidente che concorre nel reato di cui al primo comma dell’art. 544-quinquies non solo che materialmente ed esclusivamente organizzi il combattimento fra gli animali ma anche chi consapevolmente contribuisca con il proprio apporto causale, anche solo morale rafforzando o determinando il proposito criminoso, alla organizzazione di tale evento.
Ritiene al riguardo il Collegio che nella condotta del Di Gati siano certamente riscontrabili gli estremi della cooperazione nella organizzazione del combattimento per cui è causa; egli, infatti, non si è limitato a fornire la bestia che ha partecipato al combattimento rimanendo per il resto estraneo ad esso, ma ha anche preso direttamente parte alle attività preparatorie al suo svolgimento, rendendolo in tal modo possibile, (e, quindi, partecipando, in altre parole alla sua organizzazione) come è dimostrato dalla sua riconosciuta e fattiva presenza sul luogo in cui il combattimento stava avendo luogo.
Conclusivamente anche il ricorso del Di Gati è manifestamente infondato, ricorrendo tutti gli elementi costitutivi del reato a lui contestato e per il quale è intervenuta la impugnata sentenza di condanna.
Alla dichiarazione di inammissibilità dei due ricorsi fa seguito, visto l’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2017